FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 66
marzo 2024

Inverno

 

EDUARDO MOGA, TU NON MORIRAI

di Alessio Brandolini



Pubblicato dalla casa editrice spagnola Pre-Textos Tu non morirai (Tú no morirás, 2021) è l’ultimo libro di poesia di Eduardo Moga (Barcellona, 1962). Perno di questo intenso lavoro è la morte (fin dal titolo) ma lo è in modo diverso dal consueto, ovvero respingendola, ribellandosi a essa. E questo nello stile dei suoi precedenti lavori, come per esempio Insumisión (2013, Insubordinazione). Tutta la raccolta poetica è una fitta e articolata discussione con la morte, sulla morte e, allo stesso tempo con l’amore, sull’amore: può questo sentimento allontanarci dalla perdita? La morte come scandalo, che contrasta e ridimensiona la nostra vita con la sua costante presenza: non è facile estirpare le tenebre.

Un libro che traccia rotte in un vasto oceano, torna al luogo di partenza per poi aprire un varco nell’oscurità della notte. Un libro che deborda con i suoi dodici lunghi testi che al verso alternano la prosa, in uno stile ogni volta nuovo, che narrano fatti accaduti in passato, sempre attinenti al binomio amore-morte, con una corposità e un respiro largo alla Walt Whitman. Un delirio che si infiamma e prova ad accerchiare la solitudine: “Mi faccio domande per ascoltare la mia voce ma le domande si ribellano e ciò che dico è privo di parole e io non esisto”.

Il tono è classico, limpido e l’abbondanza dei dettagli, dei particolari ne mette in risalto l’andatura barocca che da una visione ne fa scaturire altre, molteplici immagini che non decorano ma approfondiscono con piglio scientifico, filologico, scrupoloso e persino pedante. Alla morte fa da contrasto l’amore che, se vero e profondo, non avrà mai fine. Soltanto l’amore ci salva, dà senso alla vita e alla sofferenza per il distacco, la solitudine, l’assillo. I testi in prosa che si innestano ai pochi testi poetici assumono spesso le sembianze di saggi polemici, minuziosi, filosofici o di poemi in prosa che approfondiscono i concetti già espressi in versi, li espande.

Qui c’è un equilibrio – lievemente oscillante – tra alto e basso, amore e disamore, presente e passato, giorno e notte, realtà, sogno e visione poetica: “E io, senza il tuo corpo, sono privo anche del mio, che sfuma in nebbia o si sfilaccia in lamento, fino a smarrirsi per strade inesistenti”. Un libro di non facile lettura per via della sua densità e drammaticità, i plurimi riferimenti letterari, la condensazione di tematiche esistenziali.

L’amata è assenza ma è un’assenza “corposa”, palpabile perché l’amore ha questo potere: non di resuscitare ma di “tenere in vita”, di conservare nel tempo i propri sentimenti: nonostante il male, benché la morte. L’immagine poetica dell’amata, così come Beatrice per Dante, rende visibile l’invisibile, immortale ciò che è sprofondato nell’oscurità. Il ricordo è presenza e la poesia lo tiene in vita, ne rinforza i contorni che tendono a svanire con il tempo (inclemente come l’insonnia): “Io solo / acconsentirò a morire quando avrò creato / con te un regno in cui non ci sarà morte”. Programma impossibile eppure sublime.
La sofferenza fa del silenzio una lama affilata per scavare nelle tenebre e allora il flusso poetico trasporta in un luogo che genera vita dalla morte come se una lucida follia guidasse la mano (e il cuore) del poeta di questa lirica trafitta dal dolore (“Mi lacera dire / il tuo nome; mi redime”), dove l’io si moltiplica, si frantuma fino a dissolversi nelle ultime pagine.

Tu non morirai è un lavoro fertile di immagini poderose che vanno via via aumentando, lievitano durante la lettura e alla fine si trasformano in uno spesso e coinvolgente groviglio dove si può accedere in punta di piedi per poi percorrerlo in plurime direzioni: per non perdersi occorre tenere la barra ben salda puntata al suo interno, lì dove c’è l’origine della parola. E il fuoco della poesia.




POESIE DI EDUARDO MOGA
da Tú no morirás
Pre-Textos, Spagna, 2021


*

Acaso, porque te amo, creas que la fortuna
te ha señalado; acaso, que el ciego escalofrío
de mi cuerpo en tu cuerpo te ennoblece; que el frío
del mundo es menos frío si abrigo la duna

de tu pecho con la ola del deseo; que la luna
que me alumbra, te alumbra también a ti; que el río
fuerte que soy te entrega las aguas sin vacío
con que inundas el tiempo, y en las que ninguna

tiniebla se enraíza, porque he abatido el muro
que te circunvalaba como el sol, y te he dado
el júbilo y la sombra. Te alegras de que, oscuro,

te humedezca de luz, pero has equivocado
esta labor que ejerzo, este don que aventuro.
Porque, amándote, yo soy el afortunado.


*

Forse, perché ti amo, credi che la fortuna
ti abbia prediletto; che il brivido cieco
del mio corpo nel tuo corpo ti nobiliti; che il freddo
del mondo sia meno freddo se rivesto la duna

del tuo petto con l’onda del desiderio; che la luna
che mi illumina, illumini anche te; che il fiume
forte che sono ti fornisca l’acqua senza vuoto
con cui sommerge il tempo, e in cui nessuna

oscurità attecchisca, perché ho atterrato il muro
che ti circondava come il sole, e ti ho dato
l’esultanza e l’ombra. Gioisci poiché, oscuro,

ti inumidisca di luce, ma hai valutato male
il lavoro che svolgo, questo dono che azzardo.
Perché, amandoti, sono io quello fortunato.


III

(...)

El cuerpo, ahora, después, tu cuerpo, me avienta y me enraíza, me excede como una ola sin orilla en que morir, me envisca como si no fuese un cuerpo, sino una lengua, me asimila como los pétalos asimilan el rocío, o como lo conciben. A tu cuerpo voy como si me perdiera, enzarzado en la refriega inmóvil de tus vértebras, en la ablación de lo que pesa, de lo que se sobrepone al desamparo y prodiga el ácido de la mansedumbre. Repudio la soledad cuando me agolpo en tu vientre y ocluyo sus oquedades con el mío. Lamo mucosas: contabilizo meteoros. Irrumpo en la sequedad de tus ríos. Abrazo apéndices: lloro, amo. En el cuenco de tus lomas, donde se embravece la sangre y naufraga en una tierra sin incertidumbre, me ratifico: me sueño. Estás aquí: soy. Acuno rodillas, bebo uñas, ablando dientes, imanto tendones: poseerte me desposee. Cuanto más crece esta savia que acendra mi delirio, más me llago, más se espesa la sinrazón. Mis labios recalan en tu boca: se acuestan en tus encías y, en la pradera escarlata de la lengua, sobreviven a la injuria de los días, a la pesadumbre del latido. Persiguen algo sin mancha, algo que refute la hipocresía, un hálito o desnudez que desenmascare al anochecer, que desbarate los arrequives de la mentira.

El cuerpo es una isla, y yo la circunnavego: colonizo sus arroyos y sus vaguadas; opto por la hiel, si es tuya; me adentro en el légamo de tu tibieza; no me arredro ante la enramada de tus entrañas; oigo lo que desoyes y lo que escupes, como si te formaran estratos desacordes, como si no pudieses decir y tus llamas solo se sometieran a mi caricia.

Entro en ti, isla, aunque tú no estés. Y salgo a las riberas de tu cuerpo desparejado, entre tumultos de médanos y mordeduras; y me ahínco en tu olor y tus caderas; y me abandono a las trochas vírgenes de tu noche, donde ululan seres sin voz, donde me reconstruyo; y me inhumo en tus pechos; y me alío con tu saliva, que escuece como una ofensa —pero sabe a mundo: a ti—; y piso el aire, e imprimo en él mis huellas, que son las que has dejado tú en la tierra.

Tu cuerpo ha sobrevivido a todos los combates, y yo he sobrevivido a su menoscabo. Tu cuerpo no morirá. Tu cuerpo es perenne como la muerte.


III

(...)

Il corpo, adesso, dopo, il tuo corpo, mi pressa e mi abbarbica, mi oltrepassa come un’onda senza riva sulla quale morire, mi invischia come se non fosse un corpo, ma una lingua, mi assimila come i petali assimilano la rugiada, o come la generano. Vengo al tuo corpo come se mi perdessi, impantanato nella mischia immobile delle tue vertebre, nell’ablazione di ciò che pesa, di ciò che accatasta l’impotenza e riversa l’acido della comprensione. Ripudio la solitudine quando mi stipo nel tuo ventre e occludo le sue cavità con il mio. Lecco mucose: conto meteore. Irrompo nella siccità dei tuoi fiumi. Abbraccio appendici: piango, amo. Nella coppa delle tue colline, dove si agita il mio sangue e naufraga in una terra senza incertezza, mi riconosco: mi sogno. Sei qui: io sono. Cullo ginocchia, bevo unghie, ammorbidisco denti, magnetizzo tendini: possederti mi spossessa. Più questa linfa cresce e più il mio delirio s’infiamma, più mi riempio di piaghe più si addensa l’assurdità. Le mie labbra approdano alla tua bocca: dormono sulle tue gengive e, nella prateria scarlatta della lingua, sopravvivono all’ingiuria dei giorni, al dispiacere del battito. Inseguono qualcosa senza macchia, qualcosa che controbatta l’ipocrisia, un alito o la nudità che smascheri il crepuscolo, che sconvolga i merletti della menzogna.

Il corpo è un’isola, e io la circumnavigo: colonizzo i suoi ruscelli e le sue vallate; scelgo il fiele, se è il tuo; mi addentro nel limo della tua tiepidezza; non mi faccio intimorire dal groviglio delle tue viscere; ascolto quello che tu non ascolti e ciò che espelli, come se ti formassero strati discordanti, come se tu non potessi dire e le tue fiamme si sottomettessero soltanto alle mie carezze.

Entro in te, isola, sebbene tu non ci sia. E vado verso le sponde del tuo corpo dilaniato, tra tumulti di secche e di morsi; e mi stringo al tuo odore e ai tuoi fianchi; e mi abbandono alle vergini scorciatoie della tua notte, dove ululano esseri senza voce, dove mi ricompongo; e mi seppellisco nel tuo petto; e mi colloco nella tua saliva che brucia come un’offesa – però sa di mondo: di te –; e calpesto l’aria e vi lascio impresse le mie impronte, le stesse che tu hai lasciato sulla terra.

Il tuo corpo è sopravvissuto a tutti i combattimenti, e io sono sopravvissuto alla sua violazione. Il tuo corpo non morirà. Il tuo corpo è perenne come la morte.


*

(…)

Estoy en todas partes, pero falto de mí.

Cuando sujeto un libro, sujeto el silencio.

Me hago preguntas para oír mi voz, pero las preguntas se insubordinan, y lo que digo carece de palabras, y yo no existo.

Soy cuando veo, cuando sé. Pero no existo.

Soy este ahora solo, este ahora sin mí, que me atraviesa el cuerpo como un destello enlutado, como un rasponazo de olvido.

El tiempo pesa como un planeta, como un insecto.

El tiempo es inclemente, igual que el insomnio. Nunca se retracta: permanece. El tiempo no se licua; tampoco muda: espeso, ronronea. El tiempo es lo que tengo entre las manos, estas manos deshuesadas de tacto, bajo esta luz que aglutina lo incandescente y lo perecedero. El tiempo soy yo, colmado de mí, olvidado de mí, saturado de nada, coriáceo como el dolor, indestructible como la escarcha, adicto a la desaparición, oprimido por lo que me falta, infectado por preguntas sin bocas que las hagan, agavillado en mí, amurallado en mí, uno, solo, otro, yo, nadie.

tú.

Sigo andando. Llego al final del pasillo. Soy los pies que andan, y la pared que me recibe con la misma indiferencia que las sábanas, y las toallas, y el vaho que se forma en la luna del lavabo cuando me acerco al espejo para averiguar a quién pertenece el cuerpo que veo, de quién son los dos labios y los dos testículos que veo, y que son uno, o no son nada. Soy el libro que dejo en la mesa del despacho, porque ya no sé leer, ni tengo libro, ni hay mesa. Soy el ruido que hace mi cuerpo, que me apremia, que no oigo. Y el de mis pasos, que provienen de un cuerpo ajeno, de un ser que se viste y se desnuda y muere como yo, pero que no tiene los ojos con que lo veo, sino otros: los míos. Soy esta tarde calcinada, que se despoja de claridades con la lentitud de un rumiante, y a cuyo derramamiento confío la composición de este poema solo, de este ser solo, de este yo sobrecogido por la enormidad de la nada.

Soy lo que no digo, y lo que no siento, y lo que no soy, aunque todo me disloca y me apuntala.

Soy este papel en el que escribo, en el que me escribo.

Soy la casa a cuya intemperie vivo.

Soy la soledad que me apedaza, y los pedazos que aviento a la insignificancia y el olvido.

¿Quién soy?


*

(…)

Sono ovunque, tuttavia mi manco.

Quando fisso un libro, fisso il silenzio.

Mi faccio domande per ascoltare la mia voce, però le domande si ribellano, e ciò che dico è privo di parole, e io non esisto.

Sono quando vedo, quando so. Ma non esisto.

Sono soltanto questo momento, quest’attimo senza di me, che mi attraversa il corpo come un lampo in lutto, come un graffio di oblio.

Il tempo pesa come un pianeta, come un insetto.

Il tempo è inclemente, così come l’insonnia. Non si ritira mai: perdura. Il tempo non si liquefa; nemmeno si trasforma: denso, fa le fusa. Il tempo è quello che ho tra le mani, queste mani disossate al tatto, sotto questa luce che unisce l’incandescente e il deperibile. Il tempo sono io, riempito di me, dimenticato di me stesso, saturo di nulla, coriaceo come il dolore, indistruttibile come il gelo, dipendente dalla scomparsa, oppresso da ciò che mi manca, infettato da domande senza una bocca che le pronuncino, piegato in me, murato in me, uno, solo, un altro, io, nessuno.

tu.

Continuo a camminare. Arrivo in fondo al corridoio. Sono i piedi che camminano, e il muro che mi accoglie con la stessa indifferenza delle lenzuola, degli asciugamani, e il vapore che si forma nella vetrina del lavandino quando mi avvicino allo specchio per scoprire a chi appartiene il corpo che vedo, di chi sono le due labbra e i due testicoli che vedo, e che sono uno, oppure non sono nulla. Sono il libro che lascio sul tavolo dell’ufficio, perché non so più leggere, non ho un libro, non c’è un tavolo. Sono il rumore che fa il mio corpo, che mi spinge, che non sento. E quello dei miei passi, che provengono da un corpo estraneo, da un essere che si veste e si spoglia e come me muore, ma che non ha gli occhi con cui lo vedo, bensì altri: i miei. Sono questa sera incendiata, che si spoglia della chiarezza con la pigrizia di un ruminante, e al cui spargimento affido la composizione di questo poema solitario, di questo essere solo, di questo io sopraffatto dall’enormità del nulla.

Sono ciò che non dico, e quello che non sento, e quello che non sono, anche se tutto mi disloca e mi colpisce.

Sono questo foglio sul quale scrivo e che mi scrive.

Sono la casa nelle cui intemperie vivo.

Sono la solitudine che mi schiaccia, e i pezzi che scaravento all’insignificanza e all’oblio.

Chi sono?


VIII

(…)

Me ahogo y cauterizo con el sonido ardiente
que te embebe. Aún no has palidecido. Eres
lo que has sido. Serás lo que eres. Todavía
te sostienen aquellos pies con los que cruzamos
la tierra indolora, cuando el desasosiego
tenía la mirada del mundo, pero en nuestros
ojos se diluía como un cuerpo en un río.
Y aquellos pies, y aquellos ojos, y aquella tierra,
vivos como si hirvieran, perduran en el ruido
sombrío que produzco a la hora inaugural
de los atardeceres. Seguiré, pues, diciéndote,
como digo las cosas que caen y las que, ávidas
de cielo, se incorporan de todas las honduras,
las que claman y mueren y las que nunca dejan
de nacer, las que crecen y las que se ensimisman,
como si desearan que los pétalos fueran
raíces. Quizá no sujete ya la mano
el lápiz, o la tierra no sepa ya amparar
la voz con que te creo, y es seguro que el tiempo
obrará con su saña de siempre y mellará
el filo con que tallo tu mirada en el aire,
y con esa hoja exhausta vadearé el estero
de la senilidad, mientras tú forcejeas
aún con el titán del ser, con la criatura
desenfrenada que oye tus latidos y quiere
asirlos, y escarbar en ellos, con fiereza
de hoguera, ese encono que asoma cuando algo
germina, o se ofrece, sin refugio, al mundo.
Palidecerá todo, salvo tú; toda herida
cicatrizará, excepto la que procures tú
con tu cólera mansa y tu amor insumiso.
Y así, de esa incisión abrumadora yo
extraeré la música que me aguijonee
cuando impere el hastío, la plata ennegrecida
de la respiración. Serán ciegos los días,
pero te diré. Puede que el manzano me niegue
sus frutos, o que el viento no encuentre ya quebradas
en las que amadrigarse, o que se haya olvidado
mi boca del sabor celeste de tus huesos,
pero te seguiré diciendo. Es probable
que decaigan la sangre y su restallar, la ola
y su quietud huidiza, el semen y su estrépito,
pero no dejaré de decirte. Decirte
me justifica. Soy yo si te digo, y otro,
o nadie, cuando callo. Derrotaré a la infamia
con tu resuello. Haré retroceder al frío
con la rotundidad de tu espuma. Diré
tu cuerpo, tu impetuosa transparencia, tu luz
sin lindes ni amargura en este mar sembrado
de humo y desconsuelo, de hojarasca y cadáveres,
y todo adquirirá la apacibilidad
de un vencejo que embiste, la solidez acídula
de lo aún virgen. Sea mi fin ineludible
decirte. Hasta que solo haya eco en la ceniza.


VIII

(…)

Affogo e cauterizzo con il suono ardente
che ti immerge. Non sei ancora impallidito. Sei
quello che sei stato. Sarai ciò che sei. Ancora
ti sostengono quei piedi con i quali attraversammo
la terra indolore, quando l’inquietudine
aveva lo sguardo del mondo, ma nei nostri
occhi si diluiva come un corpo in un fiume.
E quei piedi, e quegli occhi, e quella terra,
vivi come se bollissero, vivi nel rumore
oscuro che produco all’ora inaugurale
dei tramonti. Continuerò, dunque, a dirti,
come dico le cose che cadono e quelle che, avide
di cielo, si incorporano di tutte le profondità,
quelle che gridano e muoiono e quelle che mai smettono
di nascere, che crescono e quelle che si immedesimano,
come se volessero che i petali fossero
radici. Forse la mano non sorreggerà più
la matita, o la terra non saprà più proteggere
la voce con cui ti creo, ed è sicuro che il tempo
agirà con la sua collera di sempre e intaccherà
la lama con la quale intaglio il tuo sguardo nell’aria,
e con quella lama esausta guaderò l’acquitrino
della senilità, mentre tu guerreggi
anche con il titano dell’essere, con la creatura
senza freni che sente i tuoi battiti e vuole
afferrarli, e scavare in loro, con fierezza
da fiammata, quell’astio che spunta quando qualcosa
germina, o si offre, senza riparo, al mondo.
Tutto impallidirà, tranne te; ogni ferita
cicatrizzerà, tranne quella che tu cerchi
con la tua mite collera e il tuo amore non sottomesso.
E così da quell’incisione travolgente io
estrarrò la musica che mi sforacchia
quando regna la noia, l’annerito argento
del respiro. Saranno ciechi i giorni,
ma te lo dirò. Il melo potrebbe rifiutarmi
i suoi frutti, o il vento non trovare già rotte
nelle quali innamorarsi o che la mia bocca
abbia dimenticato il sapore celeste delle tue ossa,
ma continuerò a dirtelo. È probabile
che peggiorino il sangue e il suo crepitio, e l’onda
e la sua quiete sfuggente, lo sperma e il suo clamore,
ma non smetterò di dirtelo. Dirti
mi giustifica. Sono io se ti parlo, e un altro,
o nessuno, quando taccio. Sconfiggerò l’infamia
con il tuo respiro affannoso. Farò regredire il freddo
con la purezza della tua schiuma. Canterò
il tuo corpo, la tua impetuosa trasparenza, la tua luce
senza margini né amarezza in questo mare seminato
di fumo e desolazione, di fogliame e cadaveri,
e tutto acquisirà la delicatezza
di un rondone che si scaglia, l’acidula solidità
di ciò che è ancora vergine. Sia il mio fine ineludibile
parlarti. Fino quando perduri solo un’eco nella cenere.


Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini




Eduardo Moga (Barcellona, 1962)
laureato in giurisprudenza e dottore in filologia ispanica presso l’Università di Barcellona. Ha pubblicato libri di saggistica e una ventina di libri di poesia, tra i quali: La luz oída (premio Adonáis, 1995), Las horas y los labios (2003), Cuerpo sin mí (2007), Bajo la piel, los días (2010), Insumisión (2013, premio della rivista Quimera come miglior libro dell’anno), El corazón, la nada. Antología poética 1994-2014 (2014), Muerte y amapolas en Alexandra Avenue (2017), Mi padre (2019) e Tú no morirás (2021).
È critico letterario e traduttore dall’inglese e dal francese.


alexbrando@libero.it