FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 66
marzo 2024

Inverno

 

OBBLIGO DOTAZIONI INVERNALI

di Carmela Chiara Imbrogiano



Tra tutte le persone con cui avrei potuto affrontare 12 ore di viaggio in macchina, con la pioggia, la nebbia e il freddo, mia sorella sarebbe stata la mia ultima scelta. Ma cosa avrei potuto fare? Ho dovuto chiamarla nel cuore della notte. Papà era in difficoltà e non c’era tempo da perdere; saremmo dovute partire per dargli una mano con quella faccenda il giorno dopo.

“Certo, dammi il tuo indirizzo esatto e passo a prenderti”, così aveva detto al telefono. Ed eccomi qui, sul sedile del passeggero della sua Citroën a fingere di essere disinvolta in sua compagnia.

Tralasciando l’angoscia che mi provoca viaggiare accanto a una persona che scrive messaggi al cellulare mentre guida, come faccio a sopportare per altre 11 ore e 53 minuti il suo blaterare? Il navigatore non mi sembra più uno strumento tecnologico creato per facilitarci la vita, bensì un cronometro che scandisce lentamente i minuti che mancano alla mia liberazione. Nel frattempo scrivo al mio compagno di controllare i voli per il rientro. Con una scusa qualsiasi dovrò rientrare a casa prima che le salti in mente di propormi di viaggiare insieme anche al ritorno. Non lo so, il lavoro, la lavatrice guasta, un’infiltrazione in salotto… devo a tutti i costi trovare una scusa credibile che mi permetta di scappare via prima. Loro però non devono pensare che sia una scusa o come al solito passerò per quella inflessibile che si arrabbia e se ne va.

“Cosa mi racconti? Il lavoro come va, ti piace?”

Era già la quarta volta che mi poneva la stessa domanda. Le mie risposte precedenti erano state tutte vaghe, distaccate e scarne di particolari e questo doveva averla indispettita parecchio. Conoscendola, sarebbe andata avanti a domandarmelo all’infinito.

“Che dici, ci fermiamo qui per fare il pieno oppure al prossimo distributore? Che dici? È che ho paura che non basterà il carburante fino al prossimo, ma possiamo anche fare un tentativo. Che dici?”

Quanto odio questo suo modo di porre domande, in cui dice tutto e il contrario di tutto, come chi vuole che sia tu a scegliere una delle due opzioni per poi poterti dare la colpa.

“Non lo so, sei tu che guidi, valuta tu” replicai con tono indifferente.

“Va bene, dai, mi fermo. È che avrei voluto provare a fermarmi più avanti, per fare prima” proseguì.

Alla fine comunque decise di fermarsi subito.

“Prendi qualcosa? Io prenderò un caffè, ne vuoi uno?”

“No grazie, ho solo bisogno di un bagno. Ci vediamo tra poco qui fuori” risposi.

“Ah, perché non me l’hai detto che dovevi andare in bagno? Mi sarei fermata prima.”

“Perché non era urgente. Dai, non perdiamo troppo tempo: vado e torno”, conclusi.

Non volevo che mi parlasse; era così difficile da capire? Eh no, lei lo aveva capito eccome, ma aveva questo modo estenuante di insistere, fingendo di essere collaborativa. Tra tutti i personaggi che riusciva a interpretare, questo era il suo cavallo di battaglia.

“Non abbiamo perso troppo tempo, dai.”

Breve pausa a cui sapevo sarebbe seguito dell’altro e poi, infatti: “Ci saremmo dovute fermare più tardi, che dici?”

Ecco che l’inutile interrogatorio riprendeva da dove l’avevamo lasciato.

“No, è stato perfetto così, andiamo!” Il mio tono un po’ scocciato mi sarebbe bastato come sfogo per sopravvivere ad altre 8 ore e 12 minuti nello stesso abitacolo?

Ora avevo un dubbio atroce: l’attesa per il traghetto era inclusa in queste 8 ore e 11 minuti? Ma no, certo che no, come fa lo stupido navigatore a sapere quanto tempo ci toccherà aspettare prima di imbarcarci? Qui dentro ormai ci sono solo nemici, non posso fidarmi nemmeno del conto alla rovescia verso la libertà!

La temperatura in macchina passava dal caldo asfissiante, tipico della stufa dell’auto, al freddo dell’aria che filtra dal finestrino semiaperto. E poi c’era un’altra cosa insopportabile: la musica. Qui devo aprire una piccola parentesi: io ho sempre amato viaggiare in macchina. Non mi serve nemmeno una meta e non m’importa che sia io a guidare, purché mi fidi del fatto che, imboccando una rotonda, si sappia che la precedenza va data a chi si è già immesso. Ma ecco, di solito mi diverto in macchina, guardo fuori dal finestrino e mi perdo nei miei pensieri. Le decisioni più importanti della mia vita credo di averle prese proprio dentro un mezzo di trasporto qualsiasi. Purché ci fosse la musica. Non la radio, attenzione, ma la musica. Quella che scelgo io, adatta all’umore dei miei pensieri.

L’aria gelida tra noi però – non mi riferisco a quella che ghiaccia i finestrini – mi impedisce di impadronirmi della radio, come faccio di solito, e così devo sorbirmi tutta la roba improponibile che trasmettono, incluso gossip, pubblicità, noiose telefonate degli ascoltatori, ecc. E mia sorella che fa? Fuma! Sul serio, fuma al volante, col finestrino abbassato quanto basta per far cambiare l’aria. E nel frattempo manda pure messaggini. Com’è possibile? Bah.

È tutto talmente sfibrante che decido di concentrarmi su altro, ma non faccio in tempo a prendere il cellulare per farmi i fatti miei, che in quel preciso istante – non so perché – scatta qualcosa nella sua testa e riprende con le domande: “Allora, che fai? A chi scrivi? Hai più sentito papà da quando siamo partite?”

Non rispondo, cerco di distrarmi guardandomi intorno: l’auto è piena di spazzatura, di scontrini accartocciati e infilati nei porta bevande; lo stesso vale per gli scompartimenti laterali. Alla mia destra c’è uno straccio sporco, fazzoletti appallottolati, una pezzuola per gli occhiali anch’essa sudicia, delle chiavi. Di casa? Dell’ufficio? Non saprei. E ancora dei volantini pubblicitari e una bottiglia di Fanta vuota. Anzi no, c’è dentro un ultimo sorso. Credo che sia lì da almeno sei mesi, a giudicare dall’etichetta.

“Pensi di cambiare lavoro o rimarrai dove sei? Il tuo capo ti piace?”

Quinto tentativo o siamo già al sesto?

“Non penso di cambiare lavoro per adesso, ma perché continui a chiedere con insistenza del mio lavoro?” Per la prima volta faccio io una domanda.

“No, così, solo curiosità. Tempo fa mi dicevi di non essere contenta.”

Vedete che ho ragione? Fa sempre così. Lei può tormentarvi di domande più o meno fastidiose per oltre 5 ore, ma se provate ad indagare sul perché, siete voi quelli sospettosi, perché le sue sono solo domande innocenti.

Avete capito anche voi quello che stava succedendo? Io dimostravo la mia freddezza elargendo freddezza. Lei provocava dove sapeva di poter generare una reazione. Lo so, adesso sembrerò esagerata, ma vi assicuro che è esattamente così che ci si sente alle cene di Natale. Eppure non si tratta di una vecchia zia che vuole farvi sentire sbagliate, piccole ed inutili nelle vostre scelte di vita, bensì di una donna di appena tre anni più grande che, quantomeno, dovrebbe capire come ci si sente quando si lavora per necessità e non per passione.

Forse si chiama essere passivo-aggressivi o qualunque altro termine tecnico vogliate usare, ma è stato in quel momento che decisi di affrontare le rimanenti 5 ore e 15 minuti di viaggio (escluso il traghetto, ovvio): sarei passata all’attacco.

“Dobbiamo continuare ad ascoltare questa musica di merda fino all’arrivo? Perché io non ce la posso proprio fare”, sbottai con tono freddo e pungente.

Le mie parole, invece, devono averla riscaldata, in qualche modo, perché la vidi cambiare espressione, quasi sorridere. Certo, era anche sorpresa, ma soprattutto era rinvigorita. L’ho capito dal suo modo di drizzarsi sul sedile e di mettersi più comoda: “Se non ti piace cambiamo. Che musica vuoi ascoltare?” Mentre col suo indice smaltato mandava avanti l’autoradio da una stazione all’altra: Radio Maria, ovviamente, poi Latte e Miele, poi una stazione di musica classica, poi un tizio che parla di calcio ed infine ecco l’ennesimo motivetto commerciale del cazzo, dove ovviamente lei decide di fermarsi. Questo fornisce alla mia bestia interiore il pretesto per azzannarla alla gola: “Proprio il tipo di merda che intendevo!”

La vedo un po’ ferita, ma anche più… viva! È esattamente di questo che ha bisogno. Ed era quello che stava cercando di ottenere: la mia rabbia rappresentava la scintilla per scaldare l’inverno tra noi. Stava vincendo. Non chiedetemi come, ma stava vincendo.

“Metti tu qualcosa. Hai Spotify? Io ce l’avevo, ma poi ho dimenticato di rinnovare l’abbonamento. Vuoi attaccare il tuo?” chiese, mostrandomi un cavo penzolante a cui avrei potuto collegare il mio telefono.

“No, lascia perdere. Questa stazione va bene, tanto adesso mi metto a leggere”, dissi. Un momento senza repliche e poi riprese a parlare.

“Chiamiamo papà?”

“Sì, anche se gli ho appena mandato un messaggio per aggiornarlo.”

Fu mentre li sentivo parlare che notai il ghiaccio lungo i bordi. La strada sembrava scivolosa e lei non rallentava, anzi, e continuava a messaggiare freneticamente con una sola mano. Ma come poteva riuscirci? In pratica, alcune dita della mano destra continuavano a tenere il volante, mentre il pollice si allungava da una parte all’altra dello schermo del telefono per scrivere. Il cellulare oscillava come un cartello esposto al vento. E intanto l’aria che filtrava dal finestrino aperto mi stava congelando il cervello. Continuavo a tacere, per non darle la soddisfazione di farmi ancora straparlare, ma quel ghiaccio mi preoccupava.

“Hai notato il ghiaccio per terra? Non dovremmo rallentare?”

“Sì, certo.” Ancora quell’aria fintamente sommessa, ma va beh.

“Vedo anche parecchia neve sui campi e sta già facendo buio. Abbiamo le gomme da neve, vero?” domandai, sicura di ricevere un “Sì, certo” anche questa volta.

“No, però forse ho le catene. Spero di non averle dimenticate a casa, ma penso di no”, rispose.

E alla fine la miccia si accese ed io esplosi. Che me ne importava ormai, mancavano solo 3 ore e 10 minuti.

“Che cazzo dici? Non abbiamo le gomme da neve e nemmeno le catene? Ma tu che hai nella testa? Questa macchina è un porcile e tu sei la persona più insulsa che conosca” – qui aggiunsi un paio di imprecazioni che preferisco omettere.

Ora anche il suo tono era alterato, ma pur sempre passivo.

“Calma, ho detto che forse le ho, non ti preoccupare! Ti vuoi fermare a comprarle?”

“Cosa? Ma tu ti diverti a prendere per il culo la gente? Li leggi i cartelli in autostrada, è scritto a chiare lettere: Obbligo dotazioni invernali. Secondo te di cosa parlano? Di sciarpa e guanti? Immensa testa di cazzo!”

“Calmati, ti ho detto! Non ho avuto tempo, sono venuta a prenderti subito quando hai chiamato. Hai detto che era urgente.”

Ecco che ci riprovava: cercava di attribuirmi la colpa per il suo essere del tutto irresponsabile.

“Stai provando a dare la colpa a me per il modo indecente in cui tieni la tua auto? Se questo catorcio non era in condizione di sostenere un viaggio, avresti dovuto dirmelo. È così che fa la gente normale, lo capisci? Te ne rendi conto?”

“Sì, ma…” cercò di replicare.

“Si, ma, un cazzo!” la interruppi; non volevo sentire altro. “Non voglio sentire le tue minchiate. Smettila di farmi perdere tempo con queste conversazioni inutili. Come minimo non hai nemmeno pagato l’assicurazione!”

“Certo che ho pagato l’assicurazione, ma dovevo cambiare le gomme la prossima settimana. Non era previsto che viaggiassi, ma tu hai chiamato per dirmi che era urgen…”

“Non sopporto di dover sempre fare le stesse discussioni con te! Ti piace così tanto punzecchiare e farmi incazzare, quando sai benissimo che siamo insieme solo perché dobbiamo aiutare papà! Poi ognuno per la propria strada.”

Il finestrino era ancora semiaperto, ma ormai non sentivo più freddo. Mi immaginavo paonazza in volto e mi rimproveravo per questo; avevo promesso a me stessa che non le avrei più permesso di portare la mia pazienza al limite.

“Non preoccuparti per la neve. Sono abituata a guidare con la neve, non succederà nulla”, riprese a dire.

“Smettila! Smettila di dirmi di cosa devo o non devo preoccuparmi, razza di idiota. L’unica cosa che mi interessa è risolvere questa faccenda e non vederti mai più. Non avrei dovuto chiamarti!”

“Perché fai così? Ti ho detto di non preoccuparti per la neve, ho fatto mille viaggi con la neve, io. Mai successo niente, non portarci sfiga!”

A quel punto non ci vedevo quasi più, avrei voluto distruggere lei, il cruscotto, i finestrini, qualsiasi cosa avessi sottomano. Stringevo i pugni per la collera. Lei continuava a fumare come se niente fosse. Era senz’altro arrabbiata, lo sapevo, lo intuivo; i suoi occhi avevano un’espressione diversa, eppure riusciva a mantenere il controllo e a ridacchiare delle mie reazioni. È stato in quel momento che ho pensato di farmi lasciare lì, in mezzo al nulla, pur di non proseguire il viaggio. Ma il nostro inverno si sarebbe interrotto solo qualche metro più avanti.

Due fari. Gente intorno a noi, qualcuno che urlava “Non ce l’ha fatta. L’altra forse respira ancora.”

Non ricordo altro. Non saprei se le gomme abbiano o meno avuto una responsabilità in quello che è accaduto, se il litigio e la mia esplosione l’abbiano distratta o se il destino avesse in serbo per lei un numero limitato di messaggini da scrivere al volante e il tasto Invio aveva azzerato il contatore. Non so nemmeno se io avessi torto o ragione, se quelle provocazioni fossero frutto della mia immaginazione o se soffrissi di una forma di rabbia repressa. Ora, in ogni caso, non ha più importanza.

Non so se nelle rimanenti 2 ore di viaggio (escluso il traghetto) avremmo avuto l’opportunità di riappacificarci o se quella conversazione avrebbe potuto mettere la parola Fine alla nostra guerra fredda. Magari tornando ad essere due sorelle normali, che si aiutano, che non si sfidano.

Forse in primavera ce l’avremmo fatta. O il prossimo inverno.


imbrogiano.chiara@gmail.com