FOTO D’EPOCA
Cappotto e cappello, zitta
stava alla porta, seduta ad aspettare
calzature pesanti coprivano i suoi piedi
palmati e piccoli da anatra in incognito.
Quando lui la chiamava, lei lo seguiva
con aria di sussiego,
si sentiva importante poiché interpellata facendo sì o no con la testa,
ad ogni nome da lui pronunciato.
Non era decisiva, lo sapeva
per le sue scelte, tuttavia rispondeva, appagata
dal simulacro di complicità richiesto,
con un principio di somma autorità.
Morì in autunno poiché da sempre temeva il rumore delle foglie
quando soffiando cadono per terra
né mai si seppe
chi avesse ereditato il mantello rigato
che indossava nei giorni di festa
se in inverno
lui la teneva in casa, vicino a sé, come se la amasse.
E i suoi piccoli piedi, quadrangolari,
gli avessero lasciato dentro al cuore
uno spazio incolmabile, la vernice scrostata di uno specchio.
HAIKU
Nella vallata dove il vento respira
gli alberi inchinati davanti ai morti, i rami
scheletrici danno colore al cielo.
Ci siamo trattenuti bagnando le radici
lasciate a lungo senza nutrimento.
L’odore della terra si fa legnoso,
l’erba riluce di mille occhi.
Io mi sentivo grata,
dismesso il lutto.
NASCOSTI
Nascosti
nel cavo di alberi dannati, innestando
con poche mani questuanti
la radice come un’unghia di lupo nel terreno
germinati noi stessi dal suo dolore.
(Così eravamo).
E malgrado avessimo tentato
di divorarne il seme
e diventare insetto, foglia,
un cipresso palmato
qualsiasi cosa priva di sentimento,
ci afferra la certezza
della dissipazione, poiché non ci fu resa
a quanto corrisposto.
Davvero siamo stati un giorno
come un fiore di serra, senza specie?
E ci siamo adatti alla tristezza,
compagna assidua di ogni povertà,
di ogni sopraggiunta infermità?
Sentiamo oggi, in questa prima luce,
al pari di uno stelo, di un tronco
assottigliato dal digiuno
ma rafforzato nella resistenza,
l’attitudine nuova
di avere cura dell’altrui germoglio
di vegliarlo se nasce,
di restargli fedele.
ARRIVA
Spesso lo riconosco dal rumore
dal fruscio della stoffa,
come fosse passata tra le dita
con desiderio, quasi un lembo d’Oriente,
il bisbiglio del bosco
dopo la pioggia,
che scompare tra le brine fumanti…
E mi domando come si può cucire
insieme l’orlo
della ferita, subito aperta al sangue,
e la delicatezza del tessuto
arrivato dal nulla, cangiante come il mare
al mattino di sabbia calda e suolo.
E ora
perché stormisce dentro
come un ramo innestato?
perché nascendo m’illude
di poterlo vedere, lui che scompare
se tento di guardarne la radice?
MARGINI
Piove piove pioggia
antidemocratica tortura
gli abitanti del fiume nei ristoranti
di romana specie,
quattro forchette e filodiffusione
marchette rivestite si sboccano
bevendo lo sciablì.
Trasferito dal molo sommerso
sulla scaletta grigia in pietra antica,
tu ti guardi le mani.
Sul lungofiume, la tua tenda verdastra
ripara quanto basta
dalla pioggia classista
che ti ha sfrattato: ora sei altolocato.
Al piano terra sono rimasti
i topi dalla vita infame
e il reame appannato delle carpe
cibo funesto di immigrati suicidi.
Quando il sole riprenderà il suo posto
con le ossa bagnate
e il vino dentro agli occhi
ritornerai dentro al tuo spazio bianco,
come un eroe, come un grande di Spagna,
come un povero Cristo solitario
(salvo per questa volta)
umile preda sfuggita alla mattanza.
Sarai grato alla sorte
ti chinerai a baciare la terra maledetta,
bituminosa, tua unica patria.
ECONOMIA
Meglio buttare via questi quaderni, uscire
indossando un vestito
per coprire una magra figura, disegni a fiori,
un giardino, va bene anche autunnale.
Ocra, marrone sul giallo dei limoni,
nero vivo dentro il blu copiativo.
Vorrei essere un quadro di van Gogh
qualche metro di terra coltivata
sole arancio, mai contadine esperte nel raccolto.
Oppure, uscendo dalla misantropia,
sembrare carta gialla da fornaio
compatta, adatta a far di conto,
di utile economia.
|