Su questa rivista avevo parlato (e tradotto diversi testi) di un lavoro più recente di La rovina che nomino della colombiana Andrea Cote (1981) che da parecchi anni vive negli Stati Uniti, mi riferisco a En las praderas del fin del mundo [Nelle praterie della fine del mondo], intensa raccolta poetica uscita in Spagna nel 2019: un dialogo fitto e asciutto con la morte ispirato com’è (fin dal titolo) a quel passo di Platone in cui si racconta di un uomo che torna da una morte temporanea e poi descrive ai suoi familiari tutto ciò che ha visto (Libro X, La Repubblica).
Nei due libri precedenti Puerto calcinado (2003) e La ruina que nombro (2015), di cui parlo su questo numero, l’autrice ha tracciato un lucido percorso tra rovine, porti distrutti, incendiati, fiumi in fiamme e terre disabitate, incolte dove l’infanzia è un luogo braccato dalla paura e non si trova un angolo dove rifugiarsi se non il centro del dolore, lì dove nessuno ti può raggiungere. Tra ferite e morti insepolti perché la terra è il primo cadavere e la rabbia non evolve in partenza, in distacco definitivo dalle macerie, dal passato, nel salto che fa raggiungere una valle più luminosa e fertile. Si resta lì, sul posto, di vedetta come in attesa di un improbabile intervento esterno. Il corpo è come ancorato ai resti di una casa vuota, distrutta e la sola speranza è quella della morte o della fuga senza ritorno: “Non mi piace sapere / che il mio corpo è una ferita”, una ferita che sanguina mentre i fiori marciscono. Una visione netta e pessimistica che ci riporta all’epigrafe di Baudelaire (da I fiori del male) messa in esergo a Puerto calcinado: “È annegato il sole nel suo sangue denso”, dove il cielo è triste come un’urna d’oro.
In questo libro del 2015, La rovina che nomino, che uscirà in Italia a mia cura nel gennaio 2024 per conto di Edizioni Fili d’Aquilone, tutte le cose (e non solo gli edifici) sono fragili, delicate. Anche scrivere è un continuo spogliarsi, sgretolarsi e il crollo narrato (il cedimento) si trasforma in pulviscolo dorato, in versi, in poesia dove poter “rinascere” come se la morte generasse una nuova vita e il deserto (come la terra desolata di Eliot) fosse il luogo ideale dove perdersi per poi ritrovarsi. Uno smarrimento che possa contenere anche il distacco dal “mal tiempo”. Solo così si accetta il passare degli anni che genera morte e ruderi ma anche il riscatto, il passaggio in una nuova prateria. Perdersi è essenziale, dunque, per affermare il proprio percorso tra le macerie di una casa, una città, del mondo o semplicemente di un brutto ricordo per poi essere in grado di “nominare” le rovine, raccontarle in poesia e unire i frammenti del passato a quelli del presente.
Andrea Cote è una delle voci più interessanti della poesia contemporanea ispanoamericana, nella sua poesia elabora un intenso e teso dialogo con sé stessa e la propria percezione, tra sensualità e intelligenza, tra immaginazione e vita quotidiana, familiare. Qui c’è il desiderio, anche tra i ruderi, di capire ed esplorare perché non c’è ribellione senza luce, senza saggezza e questo a costo di allearsi con il dolore e la solitudine. Credere nel “canto del deserto” significa tendere i propri sensi al mormorio delle cose inanimante, entrare nel territorio del disabitato lì dove regna il dio dell’assenza. Si resta tra i sassi, sulla sabbia infuocata per dialogare di ciò che è andato perduto per sempre, in quel deserto dove tutto scricchiola, traballa e ogni paesaggio è anche un presagio.
La rovina che nomino, diviso in quattro sezioni, è un libro intenso e compatto che, poesia dopo poesia, sottrae con pazienza strati di lava, di pietre, di acqua per arrivare più in profondità, più in basso, alle fondamenta, alle radici e Andrea Cote lo fa con bravura e un linguaggio poetico suadente e moderno: “Il primo inverno è stato un crollo / una terra disegnata con un pezzo di carbone”.
POESIE DI ANDREA COTE da La ruina que nombro Visor, Colombia-Spagna, 2015
SOBRE PERDER
No hay rebeldía sin luz
—dices tú—
pero aquí las cosas
oscurecen sin pausa.
Es como si también las calles,
las montañas
y los muros,
—digo yo—
supieran que este día es el fin de noviembre,
como si noviembre lo supera
y se diera
al placer
apresurado
de cerrar
el aire
entre los prados
y las paredes
de tu cuarto sin mí.
Y entre toda esta brisa,
tan grumosa,
recordaras
que tus cosas
y las mías
se están acumulando en el lugar de lo sombrío,
como si pudieran saber
que nos corre otra estación sin luz
y se rindieran por eso,
como yo,
al abrumado paso,
a la estación del crepúsculo
sin reparo,
a la voluntad de noviembre.
SULLA PERDITA
Non c’è ribellione senza luce
– tu dici –
ma qui le cose
anneriscono senza sosta.
È come se anche le strade
le montagne
e i muri,
– dico io –
sapessero che questo giorno è di fine novembre,
come se novembre lo superasse
e si desse
al piacere
frettoloso
di serrare
l’aria
tra i prati
e le pareti
della tua stanza senza di me.
E tra tutta questa brezza,
così grumosa,
ti ricorderai
che le tue cose
e le mie
si stanno accumulando nel luogo dell’oscurità,
come se potessero sapere
che ci arriva un’altra stagione senza luce
e per questo si arrendessero,
come me,
al passo sottomesso,
alla stagione del crepuscolo
senza riserve,
alla volontà di novembre.
*
No hay rebeldía sin luz,
dices tú,
y nosotros,
oscuros los dos,
decimos
que el tiempo
es una cosa que pasa
o que no,
y nos da igual.
No como los que pierden
día y noche
buscando aire
en la palabra aire.
No como tú,
que dices oír venir un río hacia nosotros,
no como yo
que sólo creo en el canto del desierto,
rumor de lo deshabitado.
*
Non c’è ribellione senza luce,
tu dici,
e noi,
oscuri tutti e due,
diciamo
che il tempo
è una cosa che passa
o forse no,
e non ci importa.
Non come quelli che perdono
giorno e notte
cercando aria
nella parola aria.
Non come te,
che dici di sentire un fiume che arriva verso di noi
non come me
che credo solo nel canto del deserto,
mormorio di ciò che è disabitato.
DESIERTO
La tierra que jamás quiso tocar el agua
es el desierto que al norte está creciendo
como un estrago de luz.
Pero los hombres que han visto el despoblado,
su amplitud sin sobresaltos,
saben que no es cierto que la tierra esté reseca por capricho
o sin ninguna bondad,
es nada más su manera de mostrar
lo que transcurre en claridad
y sin nosotros.
DESERTO
La terra che mai ha voluto toccare l’acqua
è il deserto che sta crescendo al nord
come un’esplosione di luce.
Ma gli uomini che hanno visto lo spopolamento,
la sua ampiezza senza sobbalzi,
sanno che non è vero che la terra sia arida per capriccio
o senza alcuna bontà,
è solo il suo modo di mostrare
quello che avviene con chiarezza
e senza di noi.
DE AUSENCIA
Es para el dios de lo deshabitado
que se alzan templos invisibles
en la borrasca del desierto.
Es para él
que los árboles enanos inclinan en la arena
sus ramas
humildes,
fervorosas.
Es para que no te aferres
que existe un dios de la ausencia,
señor del desierto
y de las cosas que,
como la sombra,
existen por la fuerza de la luz que las rechaza.
SULL’ASSENZA
È per il dio del disabitato
che sorgono templi invisibili
nella tempesta del deserto.
È per lui
che gli alberi nani si piegano sulla sabbia
i suoi rami
umili,
appassionati.
È affinché tu non ti aggrappi
che esiste un dio dell’assenza,
signore del deserto
e delle cose che,
come l’ombra,
esistono per la forza della luce che le respinge.
NADA SE QUEDA
No se queda el aire,
no queda el verano,
no el grito,
no las mujeres;
no queda ni el vacío de todo lo que parte.
Y si sigue el azul
sólo está aquí
como prueba del derribado paisaje.
Todo está huido:
las montañas
y las bandadas de aves.
Y si aquí están los grillos
y las begonias
no es por dar luz
o porque existan,
es porque todo lo que sembramos
fue hace ya tiempo quemado,
mezclado
en la fugitiva borrasca.
Y si nosotras quedamos
no es porque estemos aquí
sino para hablar de esta huida
y murmurar
la fortaleza,
el bien,
la recompensa inalienable:
lo perdido.
NULLA RESTA
Non c’è più l’aria,
non c’è più l’estate,
non il grido,
non le donne;
non resta nemmeno il vuoto di tutto ciò che parte.
E se il blu continua
è solo qui
a testimonianza del paesaggio abbattuto.
Tutto è in fuga:
le montagne
e gli stormi di uccelli.
E se qui ci sono i grilli
e le begonie
non è per dare luce
o perché esistano,
è perché tutto ciò che seminiamo
fu bruciato da molto tempo,
rimescolato
alla tempesta in fuga.
E se noi donne restiamo
non è perché siamo qui
ma per parlare di questa fuga
e mormorare
la forza,
il bene,
la ricompensa inalienabile:
ciò che è andato perduto.
PAISAJE
Nuestra tierra es desigual:
abre surcos,
avanza,
se interrumpe.
Sabe romperse.
Nuestra tierra
tiene brevísimos puntos
en que la luz
se colma
o se deshace
y una grieta
brillante
donde tiembla
una mujer
que también será desierto
un día,
desierto,
señor de los marchantes.
Verás,
no digo que el paisaje
sea esto
pero en la tierra desprovista todo cruje
e incluso la existencia discreta de la rama
ambiciona un ruido,
un sonido,
un traqueteo vegetal.
En nuestra tierra
los bosques agitados
mecen mareas ancestrales
y las cascadas rugen
con un pálpito de fuego.
Todo paisaje es un presagio.
PAESAGGIO
La nostra terra è irregolare:
apre solchi,
avanza,
si interrompe.
Sa come spezzarsi.
La nostra terra
ha minimi punti
in cui la luce
si riempie
o si disfa
e una crepa
brillante
dove trema
una donna
che sarà anche deserto
un giorno,
deserto,
signore dei mercanti.
Vedrai,
non dico che il paesaggio
sia questo
ma nella terra priva di risorse tutto scricchiola
e persino l’esistenza discreta del ramo
ambisce a un rumore,
un suono,
un fruscio vegetale.
Sulla nostra terra
le foreste tempestose
scuotono maree ancestrali
e le cascate ruggiscono
con un battito di fuoco.
Ogni paesaggio è un presagio.
POEMAS DE LOS TEMPLOS
Señor de lo triste:
aquí está tu roca herida,
otra que se rasga
y como una hoja
cae y se arruina
sin desesperación,
no con el dolor angustioso de los hombres.
POESIE DEI TEMPLI
Signore della tristezza:
ecco la tua roccia ferita,
un’altra che si strappa
e come una foglia
cade e si rovina
senza disperarsi,
non con il dolore angosciante degli uomini.
LO QUE NO SUCEDERÁ
Sé que la lluvia
también es un dios
y la estrechez de nuestras calles el anuncio de un tren
que se va
definitivo,
el tren del día que se cobra
todas las cosas
que ya no conocerás,
lo que nunca te hará mal.
Sé que la lluvia es tierra ceremonial
y por eso,
intacto,
vuelves a tu casa
huyendo del agua
soslayando el rumor
y dejándola correr
y con ella a esa mujer que se adornaba con el agua,
al rumor indescifrable
de su nombre
aún sin pronunciar,
porque al final,
el tren también es ella
que se va
con su beso detenido,
lo que ya no sucederá.
QUELLO CHE NON ACCADRÀ
So che la pioggia
è anche un dio
e la ristrettezza delle nostre strade l’annuncio di un treno
che se ne va
definitivamente,
il treno del giorno in cui si incassano
tutte le cose
che ormai non conoscerai,
quello che mai ti farà del male.
So che la pioggia è terra cerimoniale
e per questo,
intatto,
torni alla tua casa
fuggendo dall’acqua
aggirando il rumore
e lasciandola correre
e con lei quella donna che si adornava con l’acqua,
al rumore indecifrabile
del suo nome
non ancora pronunciato,
perché alla fine,
anche lei è il treno
che se ne va
con il suo bacio interrotto,
quello che non accadrà più.
LA RUINA QUE NOMBRO
Quiero saber qué es la piedra
que tanto me conmueve.
Qué es en verdad
la ruina que nombro.
También escribir es derrumbarse.
LA ROVINA CHE NOMINO
Voglio sapere cos’è la pietra
che tanto mi commuove.
Cos’è in realtà
la rovina che nomino.
Anche scrivere è crollare.
|
Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini
Andrea Cote è nata in Colombia nel 1981 e dal 2006 vive negli Stati Uniti dove insegna all’Università di El Paso (Texas).
Ha pubblicato i libri di poesia: Puerto calcinado (Colombia, 2003; Spagna, 2012 - pubblicato anche in Italia: Porto in cenere, LietoColle, 2010, a cura di Giulia De Sarlo, Premio “Città di Castrovillari”), La ruina que nombro (Colombia-Spagna, 2015), En las praderas del fin del mundo (Spagna, 2019) e l’antologia Cada paisaje es un presagio (2019, Perù).
Ha ricevuto premi per la poesia e suoi testi sono stati tradotti e pubblicati in diverse lingue ed è stata inserita nell’antologia sulla poesia femminile colombiana Pájaros de sombra (2019, Spagna).
Ha pubblicato i libri in prosa: Una fotógrafa al desnudo: biografía de Tina Modotti (2005), Blanca Varela o la escritura de la soledad (2004) e Chinatown a toda hora (2017, in collaborazione con gli artisti Adalberto Camperos e Davian Martínez).
Ha tradotto dall’inglese i poeti Jericho Brown e Tracy K. Smith.
(foto di Margarita Mejía)
alexbrando@libero.it
|