FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 59
novembre 2021

Rovine

 

GIORGIO PETROCCHI E IL ROMANZO STORICO
A cento anni dalla nascita dello studioso tiburtino

di Marco Testi



Non solo Dante, perché Giorgio Petrocchi (Tivoli 1921 – Roma 1989), oltre ad aver rappresentato uno dei vertici della esegesi dantesca, ha affrontato il grande motivo del romanzo storico, argomento cui a mia volta ho dedicato – e sto dedicando ancora oggi – parte della mia ricerca sui rapporti tra letteratura, arte, storia: in sintesi quello che da Herder in poi è stato chiamato Spirito del tempo. E poiché la mia è una ricerca che continua ancora oggi, dopo le edizioni dei miei studi sulla visione del paesaggio in arte e in letteratura (Roesler Franz e altri paesaggisti, e soprattutto il loro legame con la visione del mondo coeva{1}) e sul romanzo della storia nel Novecento, che ho voluto titolare nel mio volume bulzoniano Il romanzo al passato,{2} poiché erano ormai chiare le trasformazioni di un genere che soprattutto con Umberto Eco aveva conosciuto la stagione della mescolanza ironica, come “trappola” per il lettore, la scelta di parlare di Giorgio Petrocchi come studioso del fenomeno letterario che comunemente chiamiamo romanzo storico, ha radici assai profonde. Questo articolo è una sintesi rielaborata del mio intervento al convegno tenuto il 3 luglio nella Rocca Pia di Tivoli per ricordare Giorgio Petrocchi a cento anni dalla nascita.{3}

Uno dei temi rilevanti del discorso sul romanzo al passato è proprio l’impossibilità di tener fermo il leitmotiv del romanzo storico identico per tutte le stagioni. La musica – per rimanere all’interno di uno dei centri di interesse di Petrocchi – cambia, e va ascoltata secondo i diversi modi di scrivere e di interpretare il discorso sulla storia e il suo rapporto con l’inventio nel tempo. E il discrimine, almeno per quello che riguarda il nostro Paese da questa angolazione, e ovviamente non solo per lo studioso tiburtino, è Alessandro Manzoni.
Per Petrocchi,{4} senza il lombardo non avremmo avuto il romanzo storico così come lo conosciamo noi, quello di Massimo D’Azeglio, per esempio, tra l’altro legato a Manzoni per averne sposato la figlia Giulia, di Tommaso Grossi, di Giovanni Prati, più tardi di Edoardo Calandra, cui Petrocchi dedicherà grande attenzione, e molti altri.

Ma, nello stesso tempo, come giustamente lo studioso nota, e non molti lo hanno fatto, un evento paradossale sembra smentire più di vent’anni di durissimo, accurato lavoro del Manzoni romanziere: la pubblicazione del Discorso del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e invenzione avvenuta nel 1845, nel sesto fascicolo delle Opere varie manzoniane. In questo Discorso, che avrebbe dovuto essere anche una risposta a una parte del giudizio di Goethe{5} prima sul Conte di Carmagnola e poi sulla “ventisettana”, Manzoni sembra buttar via il bimbo con l’acqua sporca: Goethe aveva parlato assai bene del romanzo manzoniano, criticando solo quelle che secondo lui erano eccessive digressioni storiche, ma Manzoni prende da questo giudizio lo spunto per una lunga riflessione che lo porterà apparentemente a uccidere il romanzo storico, vale a dire proprio quella creatura che aveva contribuito a (ri)portare in vita: non è un problema di digressioni più o meno lunghe, dice praticamente Manzoni, il fatto è che storia e invenzione non possono andare d’accordo, e quindi o si fa una ricerca storica o si fa pura letteratura.

Per il lombardo non è possibile, in poche parole, l’esistenza di quello scherzo di natura che si suole chiamare romanzo storico. Stando a questi nudi fatti, il rifondatore del romanzo storico avrebbe segnato la condanna dell’oggetto della sua stessa restaurazione, che qualche anno prima aveva cercato con un durissimo lavoro di revisioni, tagli, aggiunte, di consegnare a fama duratura.

Petrocchi prende, e giustamente, come vedremo, con le molle quella condanna apparentemente definitiva e senza appello: Manzoni in realtà ha voluto far capire i possibili limiti della degenerazione del romanzo storico, soprattutto quella degli imitatori invogliati dal successo della ventisettana che si buttarono a corpo morto a scrivere romanzi in cui l’amore, il sentimento e le avventure mirabolanti prendevano la meglio sulla realtà effettiva o supposta tale. Cosa che Manzoni non si era mai sognato di auspicare o promuovere in quanto lui stesso aveva reso tangibile, con il difficilissimo equilibrio della fusione tra storia e sentimento, il perché reale di quella condanna a posteriori: non ha incollato, ma ha armonizzato mirabilmente documenti storici, “religiosità austera ma non arida” come scrive Petrocchi, creazione e solidarietà sociale: per questo “l’unità poetica tra storia e fantasia è del tutto raggiunta” (p. 18). Il che vuol dire, secondo Petrocchi, che se Manzoni condanna il genere della sua stessa grande creatura, non è solo e non tanto per i limiti effettivi di quel genere, ma per le deformazioni, spesso grottesche e eccessivamente libere, che gli altri romanzieri immettevano in quelle che avrebbero dovuto essere anche storie nella Storia maiuscola.

Il Discorso sul romanzo storico fu pubblicato 18 anni dopo la prima edizione dei Promessi sposi. Ed era stata la cosiddetta ventisettana che aveva favorito il sorgere di moltissimi imitatori, cosa che avrebbe così radicalmente turbato Manzoni. Petrocchi spiega che non si tratta, o almeno non si tratta solo di un pentimento (condizione esistenziale cui Manzoni, in realtà, non era alieno), ma della constatazione che nel suo capolavoro il lombardo era riuscito – e di questo possedeva piena consapevolezza – a trovare “il perfetto equilibrio tra la materia storica e la materia inventiva” (p. 39). L’auto da fé manzoniano era dunque una recriminazione contro i cattivi seguaci ma anche contro chi, pur parlando bene del suo romanzo, lo spulciava, come Goethe, – che non aveva però nessuna intenzione demolitoria –, per trovarne i limiti; non la condanna assoluta di un genere che di fatto non poteva essere né unicamente un documento storico ma neanche un’accozzaglia di invenzioni tese a vendere e non a restituire il senso di un’epoca.



Petrocchi individua un elemento ulteriore di un equilibrio forse mai più raggiunto all’interno di questo settore narrativo: la capacità non solo e non tanto di descrivere, ma di rendere tangibile narrativamente lo spirito della natura, che, come nota lo studioso tiburtino, diviene un vero e proprio personaggio a sé, e non solo per il celebre quadro paesaggistico dell’incipit dei Promessi sposi, ma per le descrizioni della luce lunare sulla piazza, la chiesa e il campanile. Avviene poi qualcosa di più profondo, che appoggia sulle strutture stesse del senso del discorso umano, che è caratteristica della grande narrativa: l’identificazione tra lo spirito del luogo e la sensibilità di alcuni personaggi, soprattutto Lucia. E qui Petrocchi va coraggiosamente controcorrente, perché rivaluta in pieno la figura della protagonista del romanzo, attaccando senza parere una parte della critica manzoniana che ha visto nella tanto vituperata Lucia il personaggio meno riuscito, sbiadito, privo di personalità, incapace di vita propria, tributario delle azioni altrui. In realtà, nota il critico, il personaggio Lucia è capace di accogliere ciò che gli altri non sembrano avere notato, tutti presi come sono dagli affari, dalle necessità, occupati a scansare i pericoli e le prepotenze. Lucia è portatrice del dono acheo del sentimento naturale, non solo di quello affettivo verso Renzo, e cova dentro di sé profondi rimpianti legati alle persone e ai luoghi, profilandosi come una vera e propria custode interiore di un tempo inesorabilmente trascorso e spezzato dalla violenza e dal capriccio del potere. Il che mi sembra uno dei più suggestivi contributi al femminile nella storia della letteratura, che ci permette di comprendere come Manzoni si sia ormai staccato dalla narrazione degli eroi a tutto tondo, delle damine e degli stereotipi del romanzo ottocentesco, aprendo la strada ad un altro tipo di racconto storico, che culminerà ancora una volta con un personaggio al femminile: la contraddittoria, misteriosa femminilità della Pisana narrata nelle Memorie di un Italiano di Nievo.

Altro elemento importante della lettura di Petrocchi è quello sulla conclusione del racconto: il cosiddetto, e svalutato, anche perché non compreso in profondità, lieto fine. Che non è un appiattimento sulle iperboli romanzesche precedenti, perché, scrive Petrocchi, quel ricongiungimento è in realtà quella “poca ma sufficiente felicità che è concessa al cristiano in terra” (p. 25), tutto sta ad accorgersene e a rivalutarla con realismo; ed è così, continua lo studioso, che quel supposto ottimismo è in realtà il punto di arrivo di un percorso interiore e spirituale, che va oltre le aspettative del qui e dell’ora, come la ricchezza, la felicità senza limiti e confini, oltre insomma le trappole sia del desiderio smodato sia di una certa precedente narrativa basata sul filone magico-spiritico più che sulla realtà storica e quotidiana. Il suo cristianesimo non è astratto o basato sulla mera teologia, ma sull’accettazione del poco di ogni giorno, senza falsi miti, e contribuisce a fare dei Promessi sposi il punto più alto del romanzo storico nella letteratura italiana. Nei romanzi del dopo Promessi sposi, nota Petrocchi, si avverte maggiormente l’urgenza della lotta per l’unità italiana e quindi la presunta obiettività dei riferimenti storici è sacrificata alla parzialità dello sguardo autoriale e alla presa di posizione risorgimentale. Come avviene in Guerrazzi, che secondo lo studioso crea dei veri e propri pamphlet politici. In poche parole, negli scrittori del romanzo storico post-manzoniano si avvertirebbe una minore osservanza delle regole storiche in favore di uno straripante, urgente patriottismo.

Quando lo sguardo di Petrocchi si distende sull’oltre Manzoni, si sofferma soprattutto su Ippolito Nievo, che, secondo il critico, è figlio del realismo romantico manzoniano, ma soprattutto è autore del più grande romanzo italiano nel lasso temporale tra i Promessi sposi e Verga, non solo quello de I Malavoglia. Già il fatto che la struttura qui preveda un narratore intradiegetico, e che parla in prima persona, è un’eccezione per il romanzo storico come si era configurato fino ad allora. Ma che eccezione. Petrocchi mette in gran conto il giudizio di Croce che valutava positivamente la riuscita unità di idee – anche opposte – e di fatti in Le confessioni. Croce, nota Petrocchi, sottolinea anche la fermezza del tratto che sembra quasi escludere le umane debolezze a favore di un impianto ideologico risorgimentale basato sull’ammirazione per Mazzini e Garibaldi ma che ha il dono di conciliare la validità dell’azione con quella dei valori spirituali di tutta un’epoca. C’è un ritmo vitale – annota Petrocchi– in tutte le pagine del romanzo che riesce ad emergere su inevitabili posizioni ideologiche preesistenti. Nievo è l’unico in Italia, con Manzoni ovviamente, a reggere il paragone con Flaubert e Stendhal per quello che riguarda la rappresentazione amorosa, soprattutto nella narrazione del rapporto affettivo nelle sue contraddizioni e le inevitabili mutazioni dettate dagli eventi e dalle necessità. Il Fogazzaro di Piccolo mondo antico sarà molto influenzato da questa capacità di Nievo di narrare storia e sentimento insieme, senza cadere nelle trappole delle mode o delle fascinazioni da feuilleton. Nievo, tra l’altro, è uno dei primi scrittori a non utilizzare la storia antica.

L’attenzione di Petrocchi si sposterà di qualche anno in avanti, analizzando gli sviluppi naturalistici in Italia e ovviamente soffermandosi soprattutto su Verga, che può essere considerato il punto più alto del realismo ottocentesco, non solo del verismo e del naturalismo stesso. Le dispute politiche dei maggiorenti del villaggio di Aci Trezza lasciano del tutto indifferente il popolo dei Malavoglia. A Verga, nota il critico, sembra non interessare il fatto storico in sé, ma come esso viene letto, assimilato e trasformato dalla coscienza popolare. Ma, nota ancora Petrocchi, la descrizione politica sarebbe stata molto più forte se Verga avesse completato i romanzi del ciclo dei Vinti. Perché, soprattutto con il Mastro don Gesualdo, “la morte sembra segnare il termine d’ogni illusione nella bontà della giustizia e nella sopravvivenza delle cose care oltre i confini della vita” (p. 97). Questo lasciar parlare unicamente il soggetto narrato è secondo alcuni uno dei limiti del Verga, che sembra ostinarsi nel non volere approfondire i risvolti politici sottesi alle storie dei suoi personaggi. Ne rappresenta solo la realtà quotidiana con gli occhi e i giudizi dei personaggi. Non si può parlare di minore o maggiore esattezza storica, proprio perché lo scrittore riesce a narrare la storia come è vista dai popolani, dai pescatori, dai pastori, con tutta la distorsione prospettica. Petrocchi parla infatti di rappresentazione della “immaturità e impreparazione politica” di quei personaggi (p. 100). Lo scrittore siciliano non altera – e non giudica – quel punto di vista, ma lo presenta così come esso è. Come se, a differenza di Manzoni, non volesse assolutamente esprimere il proprio punto di vista. Il quadro parla da solo, tanto da invitare il lettore all’intervento, perché, afferma lo studioso: “tanto è amaro, tanto è squallido questo quadro da far nascere nel lettore la speranza che esso si cancelli e che venga invece sostituito da una forma sociale più progredita e nuova”. (p. 101)

La storia reale, che era uscita dalla porta del pessimismo verghiano, rientra da altre finestre: per esempio attraverso Emilio De Marchi, nella cui narrativa, scrive Petrocchi, il fatto storico si fonde con l’atmosfera morale. Era nato a Milano, la capitale della cultura romantica italiana, e però la sua Milano non era più quella del Berchet e del Manzoni, ma quella della Scapigliatura, anche se lui non fu mai uno scapigliato. Se mai, sembra quasi assistere ad un ritorno al vecchio realismo romantico, con una venatura pessimistica legata a temi psicologici e morali, e con una umanità sollecitata al bene ma risospinta verso il male, nota Petrocchi, una umanità che tenta a volte di reagire e di risollevarsi ma che in altri episodi appare rassegnata alle disillusioni. Il suo Demetrio Pianelli fu pubblicato dapprima sul giornale “L’Italia” nel 1888 con il titolo La bella pigotta e nel 1890 con il titolo definitivo. Nel romanzo regna sovrana una sorta di fatale rassegnazione all’opacità, al grigiore della vita. Il protagonista è una sorta di vinto verghiano. Emilio sente oscuramente che in quella sua dimessa bontà senza speranza di compenso affettivo da parte della bella cognata, si cela, sono parole di De Marchi, un “trionfo appassionato, che Dio non concede né ai potenti né ai fortunati”. Il che lo avvicina, nota Petrocchi, a quel “sugo di tutta la storia” dei Promessi sposi. Senza contare che De Marchi opera una felice ricostruzione dell’ambiente milanese di quegli anni, tratto comune a tutti i veri scrittori del cosiddetto realismo romantico.

Anche Edoardo Calandra con il romanzo La bufera (1898) narra e descrive minutamente un ambiente preciso, quello piemontese che sembra risentire molto, secondo il critico, della visione interiore, oltre che esterna, di Fogazzaro. L’inquietudine che vi si avverte, nello stesso tempo lo avvicina ai decadenti, anche se operano altre dinamiche, come la frequentazione dei realisti e scapigliati torinesi, la fascinazione ineludibile di Manzoni ma anche la lettura di Stendhal, che lo portano in una dimensione in cui la Storia è ancora importante, soprattutto per la sua descrizione empatica della vita del popolo. Calandra può anzi essere considerato tra i creatori del nuovo romanzo storico, quello novecentesco, che avrà tra i suoi apici Il Mulino del Po di Bacchelli, pubblicato dapprima in tre parti separate tra il 1938 e il ’40 e poi, in edizione definitiva, nel 1957, e Il Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa.

Anche nei Viceré di De Roberto, è possibile cogliere la vitalità della visione storica nel romanzo. Ma, precisa Petrocchi, De Roberto non arriva mai alla poesia latu sensu. Non a quella del modello Manzoni, ma neanche a quella di un Fogazzaro o di un Nievo, o, più tardi, di un Tomasi di Lampedusa. Sebbene alcuni li abbiano messi in relazione, Petrocchi nega infatti che ci possano essere punti di contatto tra I Viceré e Il Gattopardo, anche perché Tomasi, pur nascendo siciliano, in realtà sembra, secondo lo studioso tiburtino, e qui probabilmente il critico diviene riduttivo, non esserlo per nulla. Era certamente attento alla cultura europea, come lettore di Proust, di Joyce, di Thomas Mann, aveva peregrinato per l’Europa e una volta tornato a Palermo aveva rievocato un mondo ormai scomparso. Quel mondo narrato nel Gattopardo è ormai lontano, mentre quello descritto, ad esempio, nei Vecchi e i giovani da Pirandello sembra molto più vicino. Ma, per quello che riguarda De Roberto, si può dire che abbia scritto quell’opera che Verga non riuscì a scrivere “quando abbozzò il gran tema della decadenza morale dell’aristocrazia nella Duchessa di Leyra” (p. 121). E la rassegnazione, il fatalismo, la percezione dello strettissimo legame tra religiosità, passato mitico e uomo moderno, l’immobilità senza tempo del mondo da lui narrato, ne fanno, a mio avviso, anche uno scrittore profondamente siciliano.

Quando affronta la narrativa storica nel Novecento, Petrocchi si rende conto che pure se si notano tracce di persistenza del modello manzoniano, soprattutto per la sua fascinazione realistica, nel contempo molte cose sono cambiate: Fogazzaro sente la necessità di far vivere i propri personaggi in una precisa temperie storica e politica, ma queste periodizzazioni narrate sono molto più vicine alla cronologia dell’autore empirico, dal risorgimento di Piccolo mondo antico ai fermenti sociali di Piccolo mondo moderno, al mondo politico di Daniele Cortis fino all’universo religioso de Il Santo. Fogazzaro sente il dovere di far vivere i suoi personaggi in una temperie storica e sociale precisa, con delle sontuose composizioni paesaggistiche che, – e questa della capacità di fondere personaggi e aspetti della natura è uno dei nodi e dei discrimini di giudizio critico più persistenti in Petrocchi –, sono tra gli aspetti migliori della sua narrativa.



{1}Vedi tra gli altri Una città come mito, Chicca, 2000 (ed. in lingua inglese A town as a myth, 2000); Ettore Roesler Franz, un vedutista di fine Ottocento a Tivoli e nel Lazio, De Luca editori, 2004, catalogo della omonima mostra a Villa d’Este, tenutasi nel 2004; Ettore Roesler Franz ed i pittori dell’Ottocento a Tivoli (con C. Bernoni e R. Mammucari), Veliterna, catalogo della mostra a Villa d’Este nel 1995; la mia prefazione al libro di Francesco Roesler Franz Ettore Roesler Franz, biografia romanzata del pittore di Roma sparita, Intra Moenia, 2017.

{2}Il romanzo al passato. Medioevo e invenzione in tre autori contemporanei, Bulzoni, 1992.

{3}“Giorgio Petrocchi e la sua opera letteraria”, Rocca Pia di Tivoli, con, oltre chi scrive, Maria Antonietta Coccanari de’ Fornari, Gianni Andrei, Rosa Mininno, Francesca Petrocchi.

{4}Le citazioni a seguire, tranne avviso contrario, provengono dal volume di Giorgio Petrocchi Il romanzo storico nell’800 italiano, Eri, 1967.

{5}Per questo cfr. la recensione di Goethe riguardante Il Conte di Carmagnola sulla rivista “Ueber kunst und alterthum”, II (1820) , 3; vedi anche Alberto Raffaelli, Il rapporto tra Goethe e Manzoni visto da Enrico Rocca, in "Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana", Atti del XVII Congresso AIPI, Ascoli Piceno, agosto 2006, ma anche Johann-Peter Eckermann, Colloqui con Goethe: citazioni da quest’opera sono presento ora sul sito iMalpensanti.


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