Irrequieto per il sonno che non torna nella coda della notte, Federico si infila gli scarponi da fango, una giacca a vento di almeno venti anni e s’inerpica sulla montagna davanti casa.
Ci sono lecci su cui sono abbarbicate edere e ligustri dai tronchi altissimi, minacciosi sui tetti delle case sparute; il terreno molle e umido è coperto di foglie ingiallite e verdastre, comunque malate di puntini marroni, su qualcuna s’è aggrovigliato nero un verme e altre microscopiche biologie che non può né vuole sondare. Su qualche castagno si sarebbero potute distinguere spore e funghi, i rami secchi si spezzano come grissini al tocco; troppo giovane l’inverno perché si possano distinguere i primi germogli di alcunché.
Non ci sono promesse di bellezza in questa stagione, la luce del giorno è di morte, fredda e infiltrante, tutto in quel paesaggio, a dire il vero, è morto; al contrario, i suoi passi testimoniano di una vita cellulare pulsante in una rada spirituale e palpitano visibilmente rendendo quel movimento l’unica forma di sopravvivenza percepibile ad orecchio umano. Gli altri essenti del bosco, invece, simulano una cessazione delle funzioni vitali, quasi a nascondersi, almeno per un po’, da quella smania di colonizzare i templi sacri della natura, inviolati nei millenni, se non fosse per le ansie di bastoni da cammino, falci di legnaiuoli, suole di cacciatori. Ogni tanto, come l’eco d’un tuono lontano, lo sparo avido d’un fucile alla ricerca di una preda qualunque, una femmina di cinghiale coi cinghialetti; obiettivi da abbattere, fotografare e lasciare imputridire in qualche fosso, per disposizione veterinaria o per l’incapienza di congelatori nei quali già sono stipati trofei di cosce ghiacciate, rigidi stinchi ungulati, coste sezionate, epe disossate e altre epistassi temporaneamente sottratte alla putrefazione maleodorante, materia capace al più d’attirare corvi e altri spazzini.
Gli spari e i suoi passi, insomma, già uniti per rompere quei silenzi fatti di niente, di un vento muto, senza foglie da far frusciare o frutti da far staccare. Quando viene preso da quella furia d’andare non ci sono regole, si precipita zotico dal portone, temendo che la pioggia annunciata dal meteo interrompa quell’intenzione, che nulla ha da invidiare per incrollabilità del volere ad un fioretto d’un pio redento o graziato. Anche il cielo, reticolato da chiome timide e fili secchi d’arbusti, non possiede alcun fascino; non ci sono gradazioni visibili né luci gialle, nemmeno rifrazioni o nebbie gravide di possibili suggestioni. È un indistinto liquame biancastro, assembrato di nuvole basse e diffuse, mal mescolate a coprir ogni orizzonte concesso alla vista, una “coltre”; non è altro che sé stesso, perciò, lontanissimo dall’idea di latte contrastato da multiformi iridi. Se ora si raccontasse a un marziano caduto sulla terra che il cielo è blu turchese azzurro viola rosso, non stilerebbe un rapporto lusinghiero sulla salute mentale della razza umana. Se gli alieni, in effetti, cercassero in altri mondi, sulla Terra ad esempio, l’intelligenza e la pluralità dei sensi, come gli uomini cercano fonti idrogeologicamente utili su altre stelle della galassia, tornerebbero a mani vuote, come le nostre quando ci troviamo a constatare che, allo stato, altri mondi possibili li abbiamo cercati, ma non ne abbiamo trovati.
Considera, d’altro canto, salendo, che tartufare colonie oltre l’atmosfera sia una follia; come se nel riordinare la propria credenza, si attribuisse il caos di scatolame e pacchi richiusi non alla propria responsabilità, ma all’inadeguatezza dello spazio in cucina, e si decidesse di cambiar casa per sistemare tutto meglio. Non sarebbe preferibile rendere un po’ più ordinato e sensato quel mondo concesso alla nascita, invece di pensare esaurite le risorse e di volgere lo sguardo verso fondi interclusi e pianeti la cui bellezza dovrebbe virare, soprattutto, nelle contemplazioni delle notti di mezza estate, quando Venere e Saturno si fanno visibili anche a deboli spiriti come i nostri?
E intanto sale. Indeciso se preferisca quel fogliame scivoloso, i sassi muschiosi del terreno e la terra acquitrinosa sotto ai piedi alla strada visibile, segmento francigeno, sterro, pietrisco e lacerti d’asfalto, ben più idonei all’idea di una arrampicata spedita. Forse una via più agevole gli consentirebbe di accedere a quei pensieri altissimi e definitivi che sente rimbalzare dentro la testa, senza poter mettere un ordine postulabile, senza che possano trovare una forma spendibile, quando conglomerati in fogli rilegati, proprio come i versi di quella poetessa premio Pulitzer che quest’anno ha vinto il Nobel. Federico li legge all’ora della cena, mentre digerisce una quota di maiale morto, sgozzato e disassemblato, il cui tanfo di morte ha dissimulato caricandolo di sali e spezie aromatiche, credendo che il proprio stomaco sia la miglior sepoltura per quella bestia del fango.
La poetessa usa parole e immagini comuni, “di una banalità puerile”, però montate come un giocattolo in quell’esatto ordine, rendono il finito del loro significato aperto all’universalità degli armamentari speculativi dell’essere umano, palleggiando con luminoso pregio tra individuo, natura, società, morte, vita, sterilità, facondità; una grazia tanto leggera ed esile che anche il solo spostamento d’una sillaba o d’una virgola ne farebbe crollare, o meglio implodere, dall’interno la sprezzatura. Sono parole semplici le sue e chissà se ha dovuto faticare per levigarle al punto che s’inanellassero tanto bene o se quella lingua disossata non le sia domestica al punto da trovarsi un inatteso tesoro tra le mani, limitandosi a registrare sulla carta quello che naturalmente il suo pensiero detta per induzione.
Lui no, sale e s’ingarbuglia, invidioso di quella semplicità tanto prossima alla perfezione, continuando a percepire un bollore dantesco, infernale, di grandi pensieri che non si saldano tra loro, vanno e vengono, evanescenti e feroci, lottatori e mansueti; alle volte gli sembra di sentire eccolo, è qui, ecco il bando della matassa, ecco il varco nella rete, è chiarissimo; ma poi basta il ciottolo su una curva, un avviso sul telefono che quella Verità, la Verità, derapa, si imbizzarrisce in un testacoda polveroso, scomparendo per sempre, scippandogli la nettezza con cui stava cercando di manifestarsi.
Opta per il più agevole tratturo dei francescani, inesausti combattenti, aperti al mondo, così diversi dai cistercensi e dai cluniacensi; c’erano stati momenti in cui la regola benedettina lo aveva sedotto, come quando finì volontario per due giorni tra i camaldolesi a servir la zuppa ai pellegrini allungati su tavole grezze dopo il vespro, un attimo prima della quiete notturna. San Romualdo immobile nel proprio sasso vigila tetro. Federico sale quelle montagne tra la Verna e Camaldoli, così diverse tra loro. Spera, così, di trovare un porto franco, un’oasi che lo aiuti a rallentare quell’inflazione di affanni, polloni della propria radice troppo umana.
Dopo due ore di cammino distingue le prime case lontane, acropoli in uno sperone di roccia, con i consueti fianchi di lamiera e i tetti di amianto, di quella terra devastata, sgraziata sullo strapiombo di zolle a tinte fredde prive di fascino, esautorate anche dalle olive sui rami, scosse da macchinari vibranti che cingono il tronco fino a farle crollare su teli semitrasparenti, che sarebbero tulle per una prima comunione, confetti da matrimonio; prima delle monofamiliari con il patio che affaccia sulla valle di là dal muricciolo sconnesso di pietra e cemento, un croco di casine colorate per le api, ammassate e in disuso da decenni. Sulla destra, aggrappata ai sassi, una piccola masseria; adiacente una scalena rimessa d’attrezzi agricoli e un gallinaro, coi piccoli abbeveratoi per le bestie e l’erogatore meccanico a discesa del miglio, se solo ci fosse stata l’ombra di un pennuto svolazzante. La solitudine della natura è già un ricordo, ampiamente antropizzato dai fatti.
Passando poco sopra quei tetti sente o gli sembra di sentire o immagina di sentire una voce, un grido soffocato e indistinguibile, una implorazione di aiuto. E allora gli viene il lampo che forse, in quel cespite abbandonato, ci sia un prigioniero; è il nascondiglio d’un qualche rapitore? La mente corre veloce prima all’Aspromonte e poi al Supramonte, visti entrambi, e di entrambi edotto sui luoghi nascosti delle malefatte di briganti ed altri criminali. E se davvero ci fosse qualcuno lì, adesso? La polizia o i carabinieri certamente avranno i verbali dei rapiti e degli scomparsi, ma ci saranno ancora rapiti in questo momento nel Paese? Perché non ne ho notizia? Se chiamassi mi prenderebbero per pazzo, pensa salendo, e continuando a marciare si convince saldamente che ci sia una donna rapita; la vede giovane, con capelli castani lunghi sulle spalle, ridotti in ciocche sporche e spettinate, visibile la ricrescita dal cuoio, un bavaglio bianco mal arrotolato sulla bocca e una camicia di lino gualcita, che in quel freddo l’avrebbe fatta intirizzire, bella e disgraziata. Avrebbe sentito i passi sopra di lei e ancora una volta sarebbe crepata di disperazione nel constatare che un altro passante non s’era fermato, non aveva tentato, non aveva sentito. Il punto è che non riesce a capire se sia stato un sogno, un capriccio della mente o un banale traffico contadino dentro la baracca. Non esiste alcun mistero, né rapito né rapitore in quello che tutto sommato è solo un punto di passaggio alle porte di un paese su una strada carrabile. Per carattere è propenso a credere che il suo intervento non sia mai necessario, perché qualcun altro più idoneo o migliore di lui avrebbe provveduto ad agire, pieno com’è questo mondo di uomini nati per fare, fare sempre, fare incessantemente e quando han fatto il loro, scalpitano per fare ancora e indagano gli spazi per intervenire con i prossimi, fino ad allargare il giro ai vicini, ai limitrofi, ai più, come cerchi d’un sasso in uno stagno. Questi, dunque, non lui, si sarebbe occupato della rapita imbavagliata, se mai ce ne fosse stata una.
L’umidità di quel cielo cementizio e inutile, intanto, prosegue il suo lavoro di filtraggio dentro le ossa, il cappello di lana tradisce la propria inutilità con qualche goccia di sudore che tenta di rigargli la tempia, la maglia sotto il maglione e ancora sotto il giaccone è umida, ghiacciata sulla pelle che suda per la pena di quella salita non allenata. Casa sua è ormai un puntino lontanissimo e indistinguibile; di là dalle vette può vedere giusto lo scasso di un fianco di montagna, violentato da decenni d’escavatori per strappare fuori chissà cosa dalla roccia e poi abbandonato all’oblio. Era nei pressi di quella mostruosità che anni prima Federico aveva vissuto in una casina aggrappata su sé stessa; lì era stato felice. Ma ogni pensiero si dissolve attraversata la porta antica di quell’antico paese sopravvissuto alla linea che sulle mappe traccia il Mezzogiorno.
Spinge la porta dell’unico bar del paese, ordina un caffè macchiato; e dal vetro tappezzato di pubblicità di gite economiche in pullman per anziani a cui appioppare batterie di pentole, scorge più in là, sul Corso, qualcuno che porta per mano un bambino. L’edicolante tira su la saracinesca, dopo aver spostato a destra i pacchi dei quotidiani, legati da un laccio a croce bianco.
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