Al bar Oasi il tempo è appeso al vetro come quella réclame della gazzosa. La vedete? Forse no. Le catenelle di plastica della tenda scacciamosche la nascondono. Forse è così che si è salvata dai raggi del sole.
Il bar Oasi è per pochi eletti, afflitti da pance pesanti, ernie di marmo, bretelle slabbrate. Dentro suona, un po’ disturbata, la musica pop degli anni ’60. Il nastro, forse un vinile, non ne può più, ma se la cava egregiamente e regge il confronto con le chiacchiere stantie degli affezionati avventori.
Il caffè del bar Oasi è buono come il latte dal seno della mamma: un’idea, calda e cremosa, che si insinua nella mente e lastrica il palato. Lo servono in pesanti e tonde tazzine, marroni all’esterno e bianche dentro. A dire il vero, dentro, hanno perso il candore, tanti sono i caffè che l’hanno tenute in pugno, tanto si conoscono, loro, le tazzine e il caffè di quel posto: connubio erotico nell’anerotico grigiore delle mattonelle sul retro del banco.
Nessuno ha memoria dei volti dell’Oasi – io non vi so dire un solo nome – eppure quel posto ha memoria di tutto.
Da bambina ci entrai forse una volta per comprare un braccialetto fatto di caramelle colorate. Chiesi del bagno, ma fecero finta di non sentirmi.
Se oggi torno al bar Oasi non è per il bagno o le caramelle, ma è perché ha i soliti tre tavolini all’aperto, e in tempo di pandemia, mi fido solo di questo posto, sempre identico a se stesso, mai intaccato da agenti esterni, ponte tra granita al limone e ricotta appena fatta. Una consolazione agli agrumi.
In questa piazza non ci è arrivato il virus e, pure se io vengo da fuori, oggi, non sono mica una forestiera. Nessuno contesta la mia presenza. Nessuno mi nega il caffè.
Sto seduta e mi godo la piazza.
C’è movimento oggi a destra e a manca. Quando ci si mette, la vita combina certi imbrogli! Sentite questa. Due case dirimpetto. Alla mia sinistra mascherine nere, una calata sul mento, un’altra sul gomito, altre ancora con il logo delle onoranze funebri, “agenzia Paradiso”: aspettano fuori, fluttuando intorno al fumo di sigaretta quattro muscolosi gentiluomini. Tutto ciò che hanno da offrire – e non è poco – è una muta cravatta, una allenata espressione di imbarazzo e l’arte di fare “il saluto”. Da queste parti ci tengono: appena fuori dal portone di casa la salma caricata nel suo nuovo guscio marrone viene issata per tre volte al cielo, rivolta alle finestre da cui si era affacciata tutta una vita.
Di fronte a loro, alla mia destra, le stesse sigarette, lo stesso contorno di mascherine antivirus, la stessa eleganza di cartone, ma ragazzi diversi:
“Oh! Ma chi successi di stu latu?”
Capisco dalla loro conversazione ovattata che contemporaneamente questo pomeriggio metterà in scena un funerale e un matrimonio, ma l’ironia della sorte non si accontenta di tanto poco:
“Maria Occhipinti”.
Tra i ragazzi si arriva a percepire persino una reazione ilare. Ma i colori sono netti, da un lato nero, dall’altro bianco, e in men che non si dica ciascuno rientra nel proprio ruolo.
“Povera Maria, novantanov’anni di vita e manco l’onore di una camera ardente per venirla a guardare… Virus maledetto” si sentiva guaire a sinistra.
“Povera Maria, la bella festa – chiesa e ricevimento, tutto organizzato – rovinata ce l’ha! Quattro gatti siamo… Virus maledetto” qualcuno mormorava a destra.
Le spalle inarcate dei convenuti dalle mascherine nere, contrastavano, per ritmo e forma con i tacchi pizzuti delle coetanee della sposa, ciascuna con mascherina in tinta con l’abito, rigorosamente penzolante alla borsetta o alla collana reggimascherina, ultima moda, idea della sarta, signora Cettina, comare della cognata del padre dello sposo.
Il caffè è bollente e cremoso e profuma i miei pensieri.
“Scendete, basta aspettare. Ci aspettano in chiesa...” si sente da entrambe le parti.
“Maria, non l’abbiamo neppure potuta piangere come si deve...” grida una signora da un balcone.
La bara viene fuori, caricata dai giovani telamoni mascherati. La sua marcia è scandita dai flash fuggiti dalle finestre di fronte. È il fotografo della giovane Maria, 20 anni, ancora allo specchio a mimare la sua preparazione. Sfoglierà quell’album, fra qualche tempo, pentendosi di aver lasciato troppo presto la sua cameretta.
Al portone dei parenti della sposa c’è il papà che fuma impavido. A lui il ruolo di vedetta: “Usciamo dopo che esce la morta! Già troppo malaugurio ci ha mandato il destino!”
Il rito consumato degli addetti alle onoranze funebri si compie sotto i miei occhi. Incredibilmente mi emoziono come se l’avessi conosciuta quella Maria. Gli astanti fanno addirittura l’applauso durante i sollevamenti del feretro. In molti hanno i guanti in lattice. Poi la macchina parte e pure che il corteo non si potrebbe fare – perché, dice, non si potrebbero fare assembramenti – una fila nera di occhi tristi e bagnati si mette in marcia più o meno silenziosamente.
Gli altri ospiti che sono venuti a omaggiare la sposa stanno a guardare mentre chiudono le macchine con il telecomando a distanza. I loro colori irrompono pure che non si potrebbe fare – perché, ripetono, non si potrebbero fare assembramenti – davanti al portoncino della giovane Maria.
Due figure in divisa li guardano dal fondo della piazza, ma non osano avvicinarsi, neanche per venire al bar Oasi.
“Virus o no, Cristiani siamo, mica bestie... Per Maria questo e altro!” Sento, ma non distinguo più i bianchi dai neri.
Svanito all’angolo anche l’ultimo dei lamenti per la morta, il padre della sposa dà inizio a una valanga di voci: “Putiemmu partiri!”. Solo ora scorgo un sincero, direi ora sfrontato, entusiasmo per la giovane Maria. Mi danno disturbo, perché percepisco la banalità della loro imprudenza. Cerco con lo sguardo la coppia in uniforme. Al loro dovere vengono meno. Spariti.
Il fotografo e la sua troupe esplodono sul marciapiede come un mazzo di cavoli in fiore. Maria è bella davvero, ma sembra la sua bomboniera di nozze e la sua mascherina bianca è già sporca di trucco. Lo vedo persino da qui. Sembra dispiaciuta, nella sua abbondanza strizzata nel tulle, di avere così pochi spettatori... il virus le ha portato via questa soddisfazione. Saltano tutti in macchina.
Resta soltanto un uomo con una pancia enorme, pantaloni neri e fondina con – niente meno – la pistola, sulla camicia ricamata la scritta “La gazzella - sicurezza”. Si chiude dentro con i regali della sposa in quella povera casa. Sento almeno due mandate fare eco sul pvc. Solo allora mi accorgo che l’altra Maria, la fu dirimpettaia, ha lasciato il portone aperto. Ciò che aveva di più prezioso se l’eran già portato via.
“I fatti sono cocciuti e la morte è il più cocciuto dei fatti” mi desta l’anziano barista dell’Oasi. Mi ha portato un cannolo imperiale su un piattino. Me lo posa vicino al caffè non ancora finito. “E lo sposalizio? Sarà un fatto ben cocciuto anche lui...” dico da dietro la mascherina. Lui mi sorride dalla sua montatura nera e le lenti opache: “Senz’altro, ma ha ragione solo uno dei due”.
Mi lascia. Il silenzio è calato di nuovo. Il caffè non è ancora freddo. Per le disposizioni vigenti il bar Oasi avrebbe dovuto esser chiuso mezz’ora fa. Ma l’orologio qui non l’ha mai portato nessuno.
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