FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 56
settembre-dicembre 2020

Caos

 

ALLA RICERCA DEL RITORNO
Un romanzo basilare per capire il Novecento:
Sotto il vulcano di Malcolm Lowry

di Marco Testi



Alcuni libri ripercorrono il lungo viaggio dell’Odissea senza volerlo, ubbidendo allo spirito di un tempo, il secolo breve, che si interrogava sul dove si stesse andando tra due guerre e il risorgere di un odio che era soprattutto riemersione dell’uomo arcaico su quello culturale. La riemersione della fiera avviene soprattutto quando si è perso il contatto con il corpo, il fare, il ritornare alla natura. Ed è per questo che nell’anticamera del nazismo si sono ritrovati gruppi attenti al riappropriamento delle radici naturali e filosofi, come Heidegger, che proiettavano l’uomo nel suo essere gettato verso la morte in un progetto di agire nella natura.

E poi vi sono esperienze che ne richiamano, in modo talvolta antitetico, altre come, ad esempio, il ripercorrere – nei modi concessi dalla propria epoca –, il cammino dantesco. Come nel caso di un romanzo celebrato nei paesi anglosassoni e poco approfondito da noi, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry (1909-1957). Una sorta di “Divina Commedia ubriaca”, lo definì il suo autore quando uscì nel 1947, e tutti i torti non li aveva. Non solo perl la dipendenza dall’alcol dello scrittore inglese, ma per la non-struttura di un passaggio negli inferi dell’etilismo e delle sue conseguenze sia nel reale rapporto con l’altro, sia nello sprofondamento degli inferi personali.

Dicevamo che il romanzo ha avuto una grande diffusione –tanto che John Huston se ne ispirò per un film nel 1984 – per quanto un delirio narrativo possa aiutare a razionalizzare una fabula all’interno di una realtà artistica come quella del cinema in cui la dinamica prima-dopo, causa-effetto ha una grande importanza. E in effetti Sotto il vulcano, tradotto da noi da Giorgio Monicelli, sembra la traduzione perfetta dello shakespeariano “la vita non è che un’ombra vagante, (…) È un racconto fatto da un idiota,/ pieno di grida e furia,/ che non significa niente”.

Lowry riesce a sfuggire alle sirene del racconto tradizionale, con un giusto e un folle, un bene e un male, scendendo assieme al lettore nelle latebre della psiche attraverso l’alternarsi di narrazione, descrizione, diretto, indiretto e monologo, in modo da tentare la restituzione dell’accadere fuori e del sentire dentro. Non c’è un lieto fine, ma ci potrebbe anche essere, perché la moglie che aveva tradito e poi lasciato il protagonista ritorna da lui. Ma lui è preso da una penombra più forte della semplice luce diurna della ricongiunzione. I frammenti della narrazione parlano di rabbia per il tradimento, nostalgia di un prima che forse era solo immaginato e cullato come un eden perduto, ma soprattutto riportano il diario di un giorno solo, – ecco il richiamo all’Ulisse contemporaneo, compreso quello di Joyce di quasi trent’anni prima –, di un uomo che beve continuamente, che parla con amici, – che lo tradiscono –, che attraverso la natura ancora incontaminata del Messico e i suoi incombenti vulcani (il Popacatépetl ispira il titolo del romanzo) assiste ad una farsesca, inutile, becera corrida e poi, lasciato solo, deve fare i conti con l’odio verso lo straniero. Un odio che però il romanzo sapientemente mescola con gli eventi politici contemporanei, e perciò la guerra di Spagna e la rivoluzione messicana, il comunismo e il nazismo, la “resistenza” dell’uomo nativo contro le ideologie d’importazione. Perché alla fine da romanzo emerge una sorta di istanza sacrale: il console, protagonista malgré lui del racconto, è come esiliato in un antico giardino attorno all’immaginario Quauhnahuac (“possiede diciotto chiese e cinquantasette cantinas” – il riferimento alle bevute è costante nel romanzo) un’immagine altra di Cuernavaca – è un Adamo che non riesce più a parlare con l’immagine divina della terra, del monte che fuma minaccioso, della foresta, perché ne è ormai irrimediabilmente fuori. Ma, guardando nostalgicamente all’eden da cui si è esiliato, non può vedere i frammenti di quello stesso eden racchiusi negli altri: in una moglie che cerca disperatamente, e anche lei in modo contraddittorio, di riunirsi a lui, nei poveri del villaggio, nella cessazione dal vizio assurdo del bere che è pavesianamente quello della vita.

Una storia che non ha avuto ancora una lettura meditata da noi per vari motivi, soprattutto per uno scolastico: siamo abituati a parlare per ismi e per schemi: monologo interiore, realismo, flusso di coscienza, e abbiamo collocato Woolf, Joyce, Svevo e gli altri “eretici” dentro queste gabbie metodologiche che se da una parte aiutano lo studente a collocare nello spazio-tempo i nuclei fondanti di quelle poetiche, dall’altra escludono chi, come Lowry è fuori da queste catalogazioni. La sua scrittura è un insieme caotico di tecniche e non-tecniche narrative e, come si è detto, di “cronache” interiori di una dipendenza che gli serviva come rimozione di qualche cosa che lo portava verso l’inesprimibile nella lingua umana, anche quando a parlare è Yvonne, l’amore perduto e che sarebbe tornata, se il protagonista non fosse così – troppo – saggio da non ritenerlo possibile: “Non è un’evasione che intendo (…). Potrebbe essere una resurrezione”.


Malcolm Lowry, Sotto il vulcano, traduzione di Marco Rossari, Feltrinelli, 2013, pp. 426, euro 17,10.

testimarco14@gmail.com