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è tempo di commiato: come alto
traccia il suo cerchio alato il falco, nero
contro le nubi falciate dal sole
del solito novembre mietitore
implacabile di gioia e di dolore, mese
dell’anima inchiodata alle ossa
di mille e mille ancora
miriadi di cadaveri che popolano
la terra sotto i nostri passi
viventi e morituri: così ogni slancio
si sfalda contro la volta cupa del pensiero
e tacita i ricordi più fulgenti
sotto la coltre fitta di una nebbia
che non dà scampo al volo degli uccelli
e copre lentamente ogni città
un tempo accovacciata in pieno sole
con il velo della Morte, la Regina
segreta del mondo luccicante.
La sua lama, il suo mantello scuro
attendono ogni essere vivente
perché l’appena nato è morituro
già. Regina dell’Uguale, spoliatrice
delle carni e di tutti i bei pensieri
e insieme Principessa che dai quiete
alla moltotravagliata stirpe dei mortali,
concedi oltre il dolore del distacco
dalla moltoridente, moltofiorita
vita, la pace sempiterna della Luce
che non conosce pena, la più nitida
beltà degli occhi affissi eternamente
al dio non conosciuto, che le cose
vive raggiunge con il dardo dello strazio,
e le restituisce con dolore
al termine inviolato del mysterium.
*
restiamo accovacciati nella vita
che la Morte ci insegue con la falce,
la Mietitrice, da sempre
sulle nostre tracce, anche nel culmine
della forza giovane, dell’amore,
che già spiava da dietro la porta socchiusa
al primo ingresso del seme nel solco
genitale della mater, al primo
vagito del nascente, sempre presente
al fianco del vivente, da sempre:
conviene abbandonarsi al suo fendente
rapido o infinitamente
lento, come l’argine
cede al fiume in piena, la foglia
d’oro dell’autunno al vento
forte di tramontana che si slancia
dalle gole spigolose delle Apuane
verso la valle tenera della Magra, fiume
benevolo, quasi Eden
dell’anima. Poesia
è sapienza martoriata, sguardo fermo
o tremante sull’abisso della vita
che sempre cova in sé la dipartita
per dischiudere le soglie dell’altrove:
restiamo accovacciati nell’attesa
e cogliamo i fiori della sera
e del giorno, come bimbi
che la madre li sveglia, e ancora un poco
si attardano nel caldo del lettino
consacrato dal sonno, ancora un poco…
*
o ritrovata giovinezza viva
smarrita in notti oscure, senza vampa
di luna che schiarisse – s’incupiva
l’aria intorno – il tempo ricuce
l’anima trafitta, la recidiva,
quando la giostra delle immagini ci guida
dove la vita naufraga alla riva
di un mare che allontana e riconduce
alla fonte perduta che riaccende
il cuore e ci riverbera splendenti
su nuove azzurrità, nuova vertigine
di smemorate estasi, e scoscende
la luce del mistero incandescente
sulla danzata, bianca, scaturigine
*
distillano parole di sapienza
gli dei dell’autunno, da oltre le foglie
rosse, oro che separano lo sguardo dalle acque
torbide dentro, lucenti in superficie
del fiume, nel crepuscolo incipiente.
Gli argini sussurrano di amori
un tempo rifulgenti, voli
di falene incontro a luci
non divine come quelle che brillavano negli occhi
accesi della Ninfa mattutina. L’anima
vuole guizzi notturni e gesti rarefatti,
per vie poco battute dagli umani. La città
diviene Ade trasparente
e dolce, ma esiziale
come ogni Ade, quando il tempo
si chiude su se stesso, e spezza il volo
dei gabbiani in controcielo. Miete foglie
e anima, novembre, se Lucina
si apparta oltre il sole, e la collina
diventa un monte nero, nella sera
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