Lo sguardo si posa sulle cose, e le cose entrano a far parte dello sguardo: non è, nella concezione olistica che si sta facendo largo anche nella cultura occidentale, al di là delle mode, solo una fantasia slegata dalla realtà, un tic da intellettuali amanti dell’esotico. Sappiamo bene di essere all’interno di un sistema naturale in cui ogni elemento fa parte e interagisce con il tutto, e questo tutto è fatto anche di pensiero, di affetto, di sguardi. Inutile riandare alla questione della capacità dello spirito di attivare processi chimici in grado di modificare il corpo, e di quanto un sano rapporto con l’ecosistema – e con l’altro – sia importante per l’economia psichica dell’essere. La poesia è stata sempre in prima fila nel corso delle battaglie per il riconoscimento di valori che sembravano un tempo essere adatti per codardi non combattenti la battaglia solo materiale della vita, e, grazie anche alla mediazione di Rimbaud, Thoreau, Whitman, Hemingway, London, solo per fare pochi nomi, ora essa sembra attraversare l’alba di un’era in cui il riconoscimento non è solo delle forme, ma anche delle sue capacità di aiutare nel cammino: il riconoscimento di essere un elemento radicato in noi, come piacerebbe a Vico, una parte di un tutto molto più complesso di quanto alcune derive darwiniste, schopenhaueriane e nietzschiane ci vorrebbero – il condizionale è obbligato dal difetto di trasmissione epigona – dimostrare. La recente silloge poetica di Giancarlo Baroni, I nomi delle cose (2020), è la dimostrazione di come il verso, in questo caso un verso assai breve e isolato nella pagina bianca, come avrebbero predicato alcuni ermetici, riesca a contribuire al senso delle cose.
Della stagione ermetica questa nuova prova poetica di Baroni non reca le stigmate dell’isolamento nella strenua lotta per dire lo strazio interiore: anche lo scontro tra invasori e invasi è registrato alla luce di una storia da cui non si può prescindere, ma che può servire a darci una mano per cambiare. E qui arriviamo ad uno dei nuclei della poetica di Baroni, quel rapporto con la natura di cui si parlava prima, e che tiene conto delle devastazioni antropiche, non solo quelle legate al clima ma anche quelle documentate nel bene (condanna) e nel male (approvazione da film western) in quelle “pellicce da rivendere/ in cambio d’argento, d’oro” di “Scambi” o di minima singolarità, anche se tragica nei suoi effetti a lunga gittata, della “pozza dove sta versando/ veleni un bracconiere” (“Avorio”).
In poche parole il poeta rovescia, non è il solo a farlo, e da diversi lustri, anche nel campo del cinema, i luoghi comuni dell’epopea del macho civilizzatore, che gli stessi protagonisti della rinascenza individualistica americana, come Whitman, Emerson e Thoreau, oltre che i più tardi Hemingway, Steinbeck e Faulkner avevano “contestato” nella vera e vissuta epopea della fusione pensiero-azione. Prevale in I nomi delle cose l’elemento endogamico, il rapporto con la natura, vista caparbiamente come paradiso violato, ma come unico e divino rapporto filiale. Senza le cure materne si muore, in tutti i sensi, sembra avvertire anche Baroni. Che però non si limita ad una osservazione del male e di quella che chiameremmo ineluttabilità, che per i Greci era la terribile Anànke, e che noi dell’oltre duemila e all’ennesima pandemia dovremmo imparare a trasformare in nemico da combattere materialmente, in senso ecologico. C’è altro, e questo altro è la capacità di cogliere in un attimo epifanico, con poche pennellate di disegno, come se fosse davanti ai nostri occhi, l’immagine del femminile. Lontana da quel mito di cui peraltro si parla qui, svincolata da tutte le malinconie e dai tempora o mores essa si afferma con la sua quasi prepotente naturalezza, in grado di illuminare uno scenario che altri avrebbero consegnato al pianto sugli orrori metropolitani delle case alveari e del traffico rutilante:
Si affaccia alla finestra
sorseggia un caffè beata
come se davanti avesse
non il viale con mille auto
ma un golfo pieno di vele.
(“Un golfo pieno di vele”).
Difficilmente negli ultimi anni avevamo guardato questa immagine di grazia, celebrazione della semplicità e della naturalità di un femminile che ci pacifica per un attimo con il mondo, pegno e dimostrazione della bellezza dell’esistente, non in senso puramente estetico come il bombardamento mediatico ci vorrebbe far credere. Risiede qui la capacità della poesia di ridare senso originario alla vita, in questo mescidare la contemplazione della grazia nella banalità apparente del quotidiano con lo sguardo presente nel mondo, e non dimentico di esso:
Alluvione epidemia carestia
Ma poi la vita riprende il sopravvento.
Che non è una casuale anticipazione delle cronache degli ultimi mesi o una accettazione del ciclo delle esistenze, ma anche una considerazione, alla luce di quanto dicevamo prima, che siamo noi a dare un senso, anche materiale, alla vita, rimettendoci a guardare alla grande casa come l’unica che abbiamo. Questo sguardo innamorato sull’elemento femminile è insieme un invito all’imitazione di quella capacità di attraversare l’esistenza: una naturalezza che apre uno squarcio anche sugli atti più banali come quello di sorseggiare un caffè, il profumare di pane la strada, il chiacchierare con il “droghiere” di “Siete voi che amiamo”.
La figura femminile emerge da questi versi come anima mundi (il minuscolo non è casuale), come esempio di comunione essenziale, e per questo fonte di bellezza, con il mondo. Nelle loro tasche piene di sogni “che distribuiscono ai passanti”, nella loro capacità di far riemergere “i profumi” della vita (“Le ragazze portano dei mondi sulla testa”), sulla loro fisica, muta, potenza espressiva, che non a caso ha affascinato gli artisti fin dalle origini, c’è tutto il segreto della vita, forse quello che cercavano Faust o i re mendicanti della pagina finale di Limonov di Carrére.
Un altro elemento singolare, che non può prescindere dal precedente, è l’attacco al cuore della roccaforte dell’infelicità, con quel verso che rappresenta un bel manifesto minimale del ritorno al mondo: “Basta con questo supplizio del definire”, perché la vita sta assai lontano dalle nevrosi intellettuali (“Per me, ti rispondo, invece,/ solo chi rasserena/ amo”), nelle popolari, scontate, millenarie fughe d’amore finte per avvicinare l’altro che in “Senza nemmeno preoccuparsi di chi passa” rappresentano il sì alla vita e all’amore, dopo i lunghi anni, direbbe Goethe, di apprendistato nelle astrazioni e in una ragione senza cuore.
Giancarlo Baroni, I nomi delle cose, con una nota di Ivan Fedeli, puntoacapo, 2020, pp. 123, euro 15
POESIE DI GIANCARLO BARONI
da I nomi delle cose
I BATTESIMI DEL CONQUISTATORE
Montagne laghi fiumi
mano a mano che procede li battezza
con i nomi della sua lingua.
Da domani sarà proibito
chiamare le cose in un altro modo.
USCIO
Bussi e non fa rumore
tiri e non ha maniglie
infili la chiave ma non c’è la toppa
l’attraversi ma non si entra.
CONFINI
Cade un chicco cresce una risaia
ai confini premete per entrare
in questo paradiso.
TI OSSERVANO:
quando meno te lo aspetti
quando vorresti nasconderti
dietro un riparo inesistente
quando non te ne importa niente
rannicchiato nell’angolo
in piedi al centro della cella.
PIETÀ IN TRINCEA
Basta non avanzate
smettete di farvi massacrare
ma alle nostre spalle gli ufficiali gridano
la pietà è il nemico peggiore.
SARCOFAGO
Anfore di alabastro
statuette d’argilla
cofanetti d’osso
orecchini e specchietti:
soltanto loro
perfettamente intatti.
POI
Alluvione epidemia carestia
ma poi la vita riprende il sopravvento.
IL PAESAGGIO DI FRIEDRICH
Mi affaccio alla finestra
il mondo illumina le pareti
della stanza. Le cose che vedo
disegnano il mio volto.
Il mio ritratto? un paesaggio.
UN GOLFO PIENO DI VELE
Si affaccia alla finestra
sorseggia un caffè beata
come se davanti avesse
non il viale con mille auto
ma un golfo pieno di vele.
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Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie e sei libri di poesia. Le ultime due raccolte di versi: I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick, 2009; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP, 2016), Le anime di Marco Polo (Book, 2015) e I nomi delle cose (puntoacapo editrice, 2020).
Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma (puntoacapo, 2018). Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena. Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”.
Sue poesie sono state tradotte in lingua inglese dal poeta Max Mazzoli e in francese dalla poetessa Marilyne Bertoncini. Per la rivista on line “Pioggia Obliqua. Scritture d’arte” cura una pagina intitolata “Viaggiando in Italia”; collabora a “Margutte. Non-rivista on line di letteratura e altro”. Poeta per passione e fotografo per diletto, ha pubblicato tre piccoli libri fotografici: Sguardi dell’arte, Bologna e Due volti di Parma, tutti e tre fuori commercio.
testimarco14@gmail.com
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