Dai resti di una fenice
Alan non si arrende e decide di continuare l’esibizione come da programma.
I fischi, che all’inizio si erano alzati sparuti dalle tribune, sono diventati un inestinguibile continuo sibilo che coinvolge quasi tutti gli spettatori: i pochi che si erano alzati a difesa dell’artista, applaudendo anche violentemente per contrastare i primi dissensi, sono ormai annientati dalla disapprovazione della maggioranza.
Alan scorge con la coda dell’occhio il suo manager che con ampi ed eloquenti gesti lo invita a rientrare. Non è da lui arrendersi a due, tremila spettatori che sono lì per assistere e acclamare gli Osanna e il Banco del Mutuo Soccorso. No, non può sprecare l’occasione della sua prima esibizione dal vivo con tanto di riprese televisive dando ragione ai suoi odierni detrattori. Se il suo “Aria” è stato accolto con meraviglia dalla critica e con consenso di vendite vorrà pur dire qualcosa.
Tenacemente mette da parte tutti i cattivi pensieri e si concentra sulle modulazioni di voce che dovrà affrontare nell’ultima parte della canzone.
Ecco, ce l’ha fatta, ha portato a termine il brano e dagli spalti si alza un applauso, forse liberatorio per il pubblico, ma pur sempre un segnale di consenso. Sarà il tempo a giudicare il suo lavoro, lo stile innovativo col quale crea e interpreta i suoi pezzi.
Ci sono tre o quattro Alan Sorrenti nella discografia dell’artista: c’è quello della rivoluzione musicale che segnerà i primi due album Aria e Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto, lavori caratterizzati da sonorità sperimentali e testi ermetici, gli stessi che gli crearono incomprensioni al Festival d’Avanguardia e Nuove Tendenze del ’72 ma che furono molto apprezzati dalla critica.
C’è poi il Sorrenti del periodo successivo, che non tradisce del tutto il precedente e che culmina con l’interpretazione personalissima di “Dicitencello vuje”, grande successo di vendite coincidente però con un momento di crisi creativa.
Poi uno stacco preciso lo porta a Los Angeles dove inizia una nuova fase con il suo quarto album, transizione necessaria per la separazione definitiva dallo stile degli esordi. Nasce Sienteme, it’s time to land che nella storia musicale dell’artista non lascia certo un segno durevole.
Ed ecco, frutto anche questo dell’esperienza californiana, l’ultimo passaggio, quello che con un’inversione a U lo conduce alla popolarità assoluta. L’album Figli delle stelle vende più di un milione di copie e la canzone che gli dà il titolo diventa un successo che ancora oggi risuona nelle nostre orecchie: è la disco music, bellezza!
Un paio d’anni più tardi – siamo nel 1979 – Sorrenti bissa il boom precedente con L.A. & N.Y. dal quale verrà estratto il singolo “Tu sei l’unica donna per me” che vincerà il Festivalbar.
Alan non ama il playback. Non dimentica che la sua voce, oggi adattata al successo commerciale, agli esordi era fatta di sperimentazioni e modulazioni che pochi artisti potevano e possono permettersi. Ecco, adesso Alan, all’apice della popolarità, davanti a più di quindicimila spettatori che lo stanno acclamando per quel successo da ombrellone, avrebbe voglia di fermare la base di “Tu sei l’unica donna per me”, di accendere il microfono e di mettersi a cantare “La Mia Mente”, come a Roma sette anni prima e mostrare qual è il suo vero talento.
Ma all’Arena di Verona la musica scorre, il pubblico è quasi in delirio e la tv trasmette in diretta la sua esibizione. È la testimonianza di un tempo che va, la rappresentazione di un prodotto popolare che potrebbe domani stesso entrare nell’oblio ma che oggi è fama, ed è troppo tardi, non si può ricominciare daccapo. L’anima è ormai venduta e con il compratore non si scherza.
Quella sera del ’72 al Festival d’Avanguardia e Nuove Tendenze, ad assistere all’esibizione di Alan Sorrenti, c’ero anche io e fui tra quelli che cercarono di difendere la sua esibizione, fino a quando divenne quasi impossibile ascoltare le note provenienti dal palco vista la contestazione degli spalti. Soffrii per lui e in seguito lo apprezzai nei suoi lavori fino all’abiura del ’77.
Per questo ho voluto inventare i suoi pensieri a Verona durante la consacrazione al Festivalbar, perché al culmine del successo commerciale mi sarebbe piaciuto se fosse tornato l’Alan Sorrenti degli esordi, quello col talento sconfinato pronto a sacrificarsi in nome della sperimentazione.
Perché mi dà fastidio pensare che dalle ceneri di quel rapace di classe bruciato a Roma sia rinato un passeraceo, un Batticoda, quell’uccellino che alcuni chiamano Ballerina.
cardstefano@libero.it
|