FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 54
gennaio/aprile 2020

Fiabe & Follia

 

IL PESO DI UN’ISOLA NELLA POESIA
DI VIRGILIO PIÑERA

di Carmelo Spadola



Un intero popolo può morire di luce come morire di peste
Virgilio Piñera


In uno dei lavori fondamentali sulla figura di Virgilio Piñera, Thomas F. Anderson constata che la sua opera rappresenta una “straordinaria rivelazione” per il lettore moderno.{1} Ma sebbene abbia svolto un ruolo centrale nella letteratura e nella critica ispanoamericana, è stato per lo più ignorato dai suoi contemporanei e dimenticato dai posteri. In Italia la sua diffusione è stata ancora meno fortunata, visto che da uno spoglio d’archivio la sua produzione risulta quasi del tutto inesistente.{2} Inoltre, se facciamo un’incursione nel campo della critica ispanoamericana prodotta nel territorio italiano, è evidente che sono quasi del tutto assenti gli studi su questo autore.{3} In America Latina sono apparse delle pubblicazioni soltanto a partire dagli anni Novanta,{4} fomentate dall’attività di riscoperta degli inediti intrapresa da Antón Arrufat.{5}

Ciò non deve comunque sorprenderci se consideriamo che lo stesso José Lezama Lima inizia a essere letto al di fuori dai confini cubani solamente dopo la prima edizione di Paradiso (1966), malgrado avesse alle spalle già una ricca attività poetica (Muerte de Narciso è del 1937) e saggistica (La expresión americana è del 1957). Soltanto di recente il nome di Piñera è stato accostato a quello di altri grandi autori suoi connazionali che hanno, al contrario, goduto di maggiore riconoscimento nazionale ed estero, a partire dallo stesso Lezama Lima fino ad Alejo Carpentier, Nicolás Guillén, Guillermo Cabrera Infante, Severo Sarduy e Reinaldo Arenas.

Tale resistenza nella ricezione della sua produzione letteraria può essere giustificata in parte dal suo modus operandi, che ci ricorda un po’ la medesima sorte che è toccata al peruviano César Moro, il quale in vita ha sempre rifiutato la gloria poetica ed è stato riscoperto soltanto post-mortem, essendo oggigiorno considerato uno dei massimi poeti peruviani e ispanoamericani del XX secolo.
Nel caso di Virgilio Piñera possiamo ipotizzare una serie di eventi concomitanti che hanno determinato il ritardo nella diffusione della sua opera. Nato a Cárdenas, nella provincia cubana di Matanzas, è un autore essenzialmente marginale, che fatica a imporsi sulla scena letteraria della capitale, soprattutto a causa del suo atteggiamento polemico e poco diplomatico persino nei confronti della stessa cerchia di intellettuali a cui appartiene; ci riferiamo al gruppo di Orígenes, dall’omonima rivista decennale (1944-1956) diretta da Lezama Lima e José Rodríguez Feo, che Piñera critica aspramente,{6} sia per l’estetica eccessivamente barocca, sia per il carattere cattolico, metafisico e un po’ troppo fiducioso nella storia e nel futuro che condividevano molti degli autori che vi gravitavano intorno, tra cui Cintio Vitier, Eliseo Diego, Ángel Gaztelu e Julián Orbón.

Va inoltre osservato che Piñera soffrirà di gravi ristrettezze economiche per tutta la vita e malgrado ciò si rifiuta di svolgere altri lavori che gli avrebbero potuto assicurare un minimo sostentamento, come la docenza o il giornalismo. In una missiva a Lezama Lima scrive che: «l’unica cosa che conta […] è lavorare l’opera […] se esistono ancora uomini di purezza intellettuale, io sono uno di questi uomini. Avrei potuto chiedere un sostegno economico da parte di chiunque […]. Tuttavia, non l’ho accettato per non compromettere il mio nome né quello di Espuela, che è la sola cosa che mi interessa a ventotto anni di età».{7}

Infine, essendo un animo libero e anticonformista, non teme di schierarsi apertamente contro i vari regimi che si susseguono nella Cuba a lui contemporanea e di dichiararsi sin da giovane omosessuale, anche se, successivamente, soprattutto durante gli ultimi anni di vita, tema per la sua incolumità a causa della politica omofoba intrapresa da Fidel Castro. Di fatto, ricordiamo con Cabrera Infante che in un paio di occasioni Piñera fu ossessionato dalla prigionia per il suo orientamento sessuale, come quando un giorno si era presentato in tribunale per perorare una causa editoriale e il giudice lo aveva cacciato via minacciandolo di condannarlo di sodomia, pederastia ed evirazione; o quando fu detenuto durante “la noche de las tres p” (espressione che indica “la notte delle tre p”, ovvero una retata organizzata da Castro in tutto il paese con il fine di epurare Cuba da “prostitutas, proxenetas y pájaros”, cioè prostitute, prosseneti e omosessuali).{8} Insomma, Virgilio Piñera è un uomo ribelle e anticonvenzionale, che esteriorizza coram populo il suo disagio nei confronti dell’autoritarismo che si respira a Cuba, un autore che non si preoccupa di gridare a cuore aperto: «Mi sento bene con la mia mancanza di rispetto… Il sacrificio della vita è radicato nel soffrire mille e una privazione dalla fame all’esilio volontario – con l’obiettivo di difendere le idee, di conservare una linea di condotta irremovibile».{9}

Quando Piñera inizia a scrivere Cuba aveva già conosciuto due grandi protagonisti della sua letteratura, José Martí e Julián del Casal che, scomparsi entrambi prematuramente, avevano lasciato comunque un’ampia influenza nei posteri. Il suo esordio letterario avviene negli anni Trenta con la pubblicazione del componimento “El grito mudo”, confluito nell’antologia poetica curata da Juan Ramón Jiménez,{10} sebbene il suo nome cominci a circolare pubblicamente un decennio dopo, con l’edizione della raccolta Las Furias (1941), a cui fa seguito il racconto breve El conflicto (1942), “La isla en peso” (1943) e Poesía y prosa (1944). Agli inizi si presenta, dunque, essenzialmente come poeta, visto che il suo primo romanzo, La carne de René, è del 1952 e il suo fortunato testo teatrale Electra Garrigó viene messo in scena per la prima volta nel 1948, sebbene scritto nel 1941.

Seguendo la suddivisione proposta da Enrique Saínz, la sua lirica può essere raggruppata in tre periodi: l’epoca giovanile (1935-1940), quella della maturità creativa (1941-1960) e quella degli ultimi anni (1961-1979).{11} Nonostante sembri un autore a tutto tondo e prolifero, Piñera si considera un «poeta occasionale»{12} e non è un caso che dopo il suo primo viaggio a Buenos Aires smetta di diffondere e di pubblicare la sua poesia, lasciandola per lo più inedita.

In questo contributo presentiamo al lettore italiano la traduzione de “La isla en peso”, componimento che ha destato un notevole interesse critico e accese polemiche nei confronti del suo autore sin dalla sua pubblicazione. Lo stesso Virgilio Piñera ha modo di affermare a proposito di questo testo che «Nessuno negherà che è l’antilezamismo in persona. Con esso, pagavo le mie colpe e i miei peccati con il lezamismo. […] Sono il poeta meno lezamiano della mia generazione lezamiana».{13}

* * *

Quando “La isla en peso” viene dato alle stampe il tema dell’insularità e della patria infelice nella poesia cubana non costituiscono una novità: Julián del Casal aveva inaugurato una ricca tradizione di componimenti dedicati all’isola caraibica con il sonetto “En el mar”, mentre nel 1941, su «Espuela de Plata», era apparso “Noche insular: jardines invisibles” di Lezama Lima. Ciò che rendeva innovativo il componimento di Piñera era la maniera mediante cui venivano affrontate alcune tematiche proprie della cubanidad, che si contrapponevano al gusto barocco e all’estetica nazionalista propria del gruppo della rivista «Orígenes».

“La isla en peso” non fu accolta con successo dalla critica, a cominciare da Cintio Vitier, che si esprime nei seguenti termini circa il contenuto del testo:

L’amore della deperibilità costituisce per me la sostanza dell’attitudine artistica, ma questo amore può soltanto avere un senso, quello della resurrezione. Non trasformiamo la poesia in un positivismo sonnambulo e carnevalesco. Il tuo sforzo magistrale testimonia che soffermarsi sulle realtà, questa specie di sospensione dal giudizio poetico, questo ateismo in congedo dall’immaginazione cosmica, ostacola la miglior qualità contemplativa con il suo peso morto, insalvabile. Che cosa manca al tuo componimento se non questa fiamma tacita o atmosferica che deve incendiare la voce umana, e questo è il suo compito, nelle realtà più opache? [...] ciò che nasce senza resurrezione costituisce un aborto.{14}

“Resurrezione”, “ateismo” e “qualità contemplativa” sono termini che rimandano al campo semantico della religione e piuttosto ricorrenti nella poetica dei membri di «Orígenes». Vitier scredita il valore del componimento non tanto per la forma, ma per la sostanza, ovvero per la posizione anti-storica rispetto all’isola di Cuba assunta dall’autore, il quale si discosta dal nazionalismo esortativo del gruppo di Lezama Lima. Di fatti, agli occhi del critico “La isla en peso” s’inserisce nell’insieme di testi che hanno come tema i Caraibi nella totalità e non specificamente la cultura cubana. Tra questi componimenti delle Antille individua come fonte il Cahier d’un retour au pays natal di Aimé Césaire, che ricordiamo essere uno dei testi fondanti della negritudine e della resistenza contro la colonizzazione. Insomma, Cintio Vitier è del parere che “La isla en peso” sia un testo eccessivamente retorico e che rappresenti una visione distopica della realtà cubana, a differenza di Vida de flora, che definisce una “poesia di cubanità viscerale”.{15}

Qualche decennio dopo, in Lo cubano en la poesía, Vitier muove nuovamente le sue critiche rispetto a “La isla en peso”, direttamente a Virgilio Piñera, affermando che: «l’unica cosa che non posso condividere con il tuo componimento è la descrizione, in generale, di un’isola […] in cui io non ho mai vissuto e non voglio vivere. Perché la mia patria, quella che si sta formando e che io sto formando nella mia misura, non ha nulla a che vedere con questa roccia pestilente di cui parli».{16}

Da un punto di vista stilistico, il testo de “La isla en peso” è strutturato in versi liberi e non presenta particolari difficoltà traduttive a livello metrico. Semmai a porci dinanzi a una sfida è il linguaggio costruito sull’alternanza tra espressioni auliche (come i latinismi e i termini specialistici propri della botanica e della cultura americana) e immagini popolari tratte dalla quotidianità dell’isola. Per quanto riguarda i primi abbiamo scelto di non tradurre i vocaboli e i periodi latini, come nei seguenti esempi:

      Una guinea chilla para indicar el angelus:
      abrus precatorious, anona myristica, anona palustris.

      Una letanía vegetal sin trasmundo se eleva
      frente a los arcos floridos del amor:
      Eugenia aromática, eugenia fragrans, eugenia plicatula.
      El paraíso y el infierno estallan y sólo queda la tierra:
      Ficus religiosa, ficus nitida, ficus suffocans.

      La tierra produciendo por los siglos de los siglos:
      Panicum colonum, panicum sanguinale, panicum maximum.

        Una ghinea tintinna per indicare l’angelus:
        abrus precatorious, anona myristica, anona palustris.

        Una litania vegetale senza oltretomba si eleva
        dinanzi agli archi floridi dell’amore:
        Eugenia aromatica, eugenia fragrans, eugenia plicatula.
        Il paradiso e l’inferno esplodono e resta solamente la terra:
        Ficus religiosa, ficus nitida, ficus suffocans.

        La terra che produce per i secoli dei secoli:
        Panicum colonum, panicum sanguinale, panicum maximum.

Lungi dall’apparire come un paradiso terrestre, Cuba ci viene descritta nella sua visione più drammatica, nichilistica e grottesca. L’intero componimento va letto come una denuncia contro la colonizzazione dell’isola da parte degli spagnoli e in generale degli europei che hanno interrotto il normale corso della storia cubana e hanno lasciato in preda al disordine il paese, come leggiamo nei versi che seguono:

      Cada hombre comiendo fragmentos de la isla,
      cada hombre devorando los frutos, las piedras y el excremento nutridor,
      [...]
      cada hombre en el rencoroso trabajo de recortar
      los bordes de la isla más bella del mundo

        Ogni uomo che mangia frammenti dell’isola,
        ogni uomo che divora i frutti, le pietre e l’escremento nutritivo,
        […]
        ogni uomo nella perfida impresa di ritagliare
        i confini dell’isola più bella del mondo.

Nella descrizione di Cuba operata da Piñera, gli elementi naturalistici appaiono nella loro versione più calamitosa, a cominciare dal tema dell’acqua che siamo soliti associare alla metafora della vita, ma che nella penna del poeta assume dei connotati piuttosto lugubri e asfissianti. Si legga, tra tutti gli esempi presenti nel testo, il primo verso, in cui la voce poetica esclama: «La maldita circunstancia del agua por todas partes» (La maledetta circostanza dell’acqua dappertutto). Da notare un po’ più avanti l’impiego del verbo “nadar”, a cui viene contrapposto l’uso di “morir”, come se l’autore volesse comunicarci che di fronte alla morte non vi è possibilità di salvezza:

      Mientras los muchachos se despojaban de sus ropas para nadar
      doce personas morían en un cuarto por compresión.

        Mentre i ragazzi si spogliavano per nuotare
        dodici persone morivano in una camera a causa della compressione.

Lo stesso tono angosciante viene conferito alla luce che, invece di fungere da fonte di calore e di luminosità per il paesaggio cubano, indebolisce gli esseri umani: «los cuerpos, dominados por la luz, se repliegan» (i corpi, dominati dalla luce, si ripiegano). E lo stesso discorso vale per la leggendaria luce di Yara, che qui viene citata insieme all’immagine del fango in cui affondano i cavalli stremati dalla battaglia, piuttosto che richiamare alla memoria il sacrificio compiuto dall’indigeno cubano Hatuey, simbolo della resistenza autoctona, che fu arso vivo a Yara dai colonizzatori spagnoli.{17} E ancora il seguente verso: «Todo un pueblo puede morir de luz como morir de peste» (Un intero popolo può morire di luce come morire di peste), che sintetizza l’accostamento di figure improbabili e ossimoriche proprie della poetica avanguardistica di Piñera. Insomma, lo scenario raffigurato ha più i toni di un cataclisma che di un inno d’amore cantato al proprio paese.

Nel componimento non mancano inoltre rimandi alla cultura indigena dell’isola, alla sua musica e alla danza, come è osservabile dall’insieme di termini tecnici adoperati in lungo e in largo: dall’areito (voce taina che indica il ballo e il canto degli indigeni dell’arcipelago delle Grandi Antille) al timpano, dal tres cubano (uno strumento simile alla chitarra) fino al bongo suonato da Cadmo e alle maracas.

Oltre al personaggio mitologico di Cadmo, fondatore di Tebe, nel testo non rileviamo la presenza di personalità illustri, bensì di nomi astratti che non appartengono a una specifica cultura, come ad esempio i ragazzi, la mendicante, il soldato di guardia, il marinaio annegato, un’anziana, i mulatti, i negri e i bianchi. Tuttavia, segnaliamo il richiamo di altri personaggi legati da un lato al mondo pagano e dall’altro a quello giudaico-cristiano (si vedano i riferimenti alle lacrime di Giove e di Giobbe). È chiaro che nel testo intravvediamo una profonda esaltazione dell’ateismo come quando il poeta afferma di essere arrivato nel momento in cui nessuno crede più nel Salvatore; ma è anche vero che non possiamo escludere tout court delle immagini che ricordano il Vangelo. In particolare, abbiamo in mente le parole di Cristo che preannuncia a Simon Pietro che sarà rinnegato da lui per ben tre volte prima che il gallo canti (Mt 26:34; Lu 21:34; Gv 13:38; Mc 14:30). Ne “La isla en peso”, Piñera riscrive questo avvenimento ricorrendo alla metafora di una festa, di «un carnaval que empieza con el canto del gallo» (un carnevale che inizia con il canto del gallo) e che si conclude con «la hora más terrible» (l’ora più terribile), cioè quella del tradimento. È ovvio che l’ora che ha in mente il poeta non è molto lontana simbolicamente dal tradimento di Giuda e dalla Passione di Gesù. Quindi, in ultima istanza, ci chiediamo se dopotutto non abbia ragione Cintio Vitier quando durante un’analisi del componimento di Virgilio Piñera, gli commenta:

Tu dici: “In un altro tempo io vivevo come Adamo. Che cosa ha portato la metamorfosi? – L’eterna miseria che è l’atto di ricordare”. E non sei un poeta cattolico, agostiniano? Tu dici: “bisogna saltare dal letto e cercare, cercare sempre il luogo in cui l’acqua non ci circonda dappertutto” (Bada bene che non hai scritto “circondi” bensì “circonda”, come colui che confida che questo luogo esista). E non sei un uomo agostiniano, religioso? Tu dici: “Il profumo dell’ananas può fermare un uccello”. “per diventare triste mi annuso le ascelle”. “Inquietamente preso tra la poesia e il sole”. E non sei un ragazzo lirico? Tu dici: “Indubbiamente devo sforzarmi per mettere in chiaro il primo contatto carnale in questo paese. E il primo morto”. E non sei una creatura sacramentale?{18}

Per concludere, possiamo affermare che la poesia di Virgilio Piñera non ha nulla da invidiare alla sua restante produzione drammaturgica, narrativa e saggistica e che, al contrario, rappresenta un momento epocale e di rottura nella cultura e nella letteratura cubana e ispanoamericana.
Molti autori faticano a essere riconosciuti e legittimati; ma quando vengono riscoperti rappresentano una straordinaria fonte di ricerche e di studi che attirano non solamente i critici esperti del mestiere, ma anche il pubblico di lettori su larga scala. In un ulteriore esame potremmo esaminare la sua scrittura come motivo autobiografico, rapportata possibilmente alla questione del genere queer, tematica che in Italia fa ancora fatica a trovare una propria collocazione scientifica.



{1}T.F. Anderson, Everything in Its Place: The Life and Works of Virgilio Piñera, Rosemont Publishing & Printing Corp., Cranbury (N.J.), 2006, p. 7.

{2}In Italia le sole traduzioni dell’autore riguardano parzialmente la sua narrativa, cfr. V. Piñera, La carne di René, a cura di G. Depretis, Il Quadrante, Torino, 1988; Id., Il Ragazzo del Cobre. L’inferno e altri racconti brevi, trad. it. di G. Lupi, Il Foglio, Piombino, 2013; Id., Cuentos fríos. Racconti freddi, trad. it. di G. Lupi, Il Foglio, Piombino, 2017.

{3}Tra i pochi lavori critici italiani sull’autore ricordiamo la tesi dottorale di Fabiola Cecere, Virgilio Piñera o la inversión del imaginario insular: el caso de “Presiones y diamantes”, discussa nel 2017 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, essendo relatrice la Prof. Susanna Regazzoni.

{4}Cfr. F. de Oráa, Una broma demasiado seria, in «Unión», n. 8, III, ottobre-novembre-dicembre 1989, pp. 87-88; R. Urías, Un bromista colosal muere de luz y orden, in «Casa de las Américas», n. 180, vol. 30, maggio-giugno 1990, pp. 120-125; C. López, Para explicar cierta insularidad en la poesía de Virgilio Piñera, «Signos», n. 37, 1989, pp. 193-198; L. Álvarez, Virgilio Piñera: poesía rescatada, in «Letras Cubanas», n. 15, luglio-settembre 1990, pp. 232-234. Per una bibliografia approfondita su Virgilio Piñera si veda H. López Cruz, Un acercamiento bibliográfico a Virgilio Piñera, in «Confluencia», n. 1, vol. 28, 2012, pp. 20-32.

{5}V. Piñera, Una broma colosal, con introducción de A. Arrufat, Unión, La Habana, 1988.

{6}Cfr. V. Piñera, Cada cosa en su lugar, in «Lunes de Revolución», n. 39, 14 dicembre 1959, p. 11.

{7}La lettera inviata a José Lezama Lima è del 31 marzo 1942 ed è contenuta in V. Piñera, Virgilio Piñera, de vuelta y vuelta. Correspondencia 1932-1978, Unión, La Habana, 2011, p. 40. Tutte le traduzioni sono dell’autore di questo lavoro.

{8}“Pájaros” venivano chiamati infatti popolarmente i gay: cfr. Manuel Zayas, Mapa de la homofobia, in «Revista Encuentro», Madrid, 20/01/2006, reperibile anche in cubanacuentro.com. Si veda inoltre G. Cabrera Infante, “Tema del héroe y la heroína”, in Vidas para leerlas, Alfaguara, Madrid, 1998, pp. 317-348; e Id., “En espera de Piñera total”, in Mi música extremada, Espasa Calpe, Madrid, 1996, pp. 247-248.

{9}La citazione di Virgilio Piñera è tratta da M. Serna Arnáiz, Lucidez, rigor y falta de respeto: la obra ensayística de Virgilio Piñera, in «Ínsula: revista de letras y ciencias humanas», n. 748, 2009, pp. 25-28.

{10}V. Piñera, “El grito mudo”, in La poesía cubana en 1936. Colección, a cura di J. Ramón Jiménez, Institución Hispanocubana de Cultura, La Habana, 1937, pp. 211-212.

{11}Cfr. E. Saínz, La poesía de Virgilio Piñera: ensayo de aproximación, Letras Cubanas, La Habana, 2001.

{12}Si veda il suo prologo a V. Piñera, La vida entera, UNEAC, La Habana, 1969, p. 7.

{13}V. Piñera, Cada cosa en su lugar, cit., p. 11.

{14}Lettera di Cintio Vitier inviata a Virgilio Piñera nel 1943 e pubblicata in Y. Piñera, Los Piñera: el peso de una isla en el amor de un pueblo, Vitral, Pinar del Río, 1999, p. 88.

{15}Cfr. Cintio Vitier, Lo cubano en la poesía, Instituto del Libro, La Habana, 1970.

{16}Ivi, p. 12.

{17}Cfr. S. Feijó, Mitología cubana, Letras Cubanas, La Habana, 1986.

{18}La citazione di Cintio Vitier è contenuta in Y. Piñera, Op. cit., p. 87.





LA ISLA EN PESO{1}


La maldita circunstancia del agua por todas partes
me obliga a sentarme en la mesa del café.
Si no pensara que el agua me rodea como un cáncer
hubiera podido dormir a pierna suelta.
Mientras los muchachos se despojaban de sus ropas para nadar
doce personas morían en un cuarto por compresión.
Cuando a la madrugada la pordiosera resbala en el agua
en el preciso momento en que se lava uno de sus pezones,
me acostumbro al hedor del puerto,
me acostumbro a la misma mujer que invariablemente masturba,
noche a noche, al soldado de guardia en medio del sueño de los peces.
Una taza de café no puede alejar mi idea fija,
en otro tiempo yo vivía adánicamente.
¿Qué trajo la metamorfosis?

La eterna miseria que es el acto de recordar.
Si tú pudieras formar de nuevo aquellas combinaciones,
devolviéndome el país sin el agua,
me la bebería toda para escupir al cielo.
Pero he visto la música detenida en las caderas,
he visto a las negras bailando con vasos de ron en sus cabezas.
Hay que saltar del lecho con la firme convicción
de que tus dientes han crecido,
de que tu corazón te saldrá por la boca.
Aún flota en los arrecifes el uniforme del marinero ahogado.
Hay que saltar del lecho y buscar la vena mayor del mar para desangrarlo.
Me he puesto a pescar esponjas frenéticamente,
esos seres milagrosos que pueden desalojar hasta la última gota de agua
y vivir secamente.
Esta noche he llorado al conocer a una anciana
que ha vivido ciento ocho años rodeada de agua por todas partes.
Hay que morder, hay que gritar, hay que arañar.
He dado las últimas instrucciones.
El perfume de la piña puede detener a un pájaro.
Los once mulatos se disputaban el fruto,
los once mulatos fálicos murieron en la orilla de la playa.
He dado las últimas instrucciones.
Todos nos hemos desnudado.

Llegué cuando daban un vaso de aguardiente a la virgen bárbara,
cuando regaban ron por el suelo y los pies parecían lanzas,
justamente cuando un cuerpo en el lecho podría parecer impúdico,
justamente en el momento en que nadie cree en Dios.
Los primeros acordes y la antigüedad de este mundo:
hieráticamente una negra y una blanca y el líquido al saltar.
Para ponerme triste me huelo debajo de los brazos.
Es en este país donde no hay animales salvajes.
Pienso en los caballos de los conquistadores cubriendo a las yeguas,
pienso en el desconocido son del areito
desaparecido para toda la eternidad,
ciertamente debo esforzarme a fin de poner en claro
el primer contacto carnal en este país, y el primer muerto.
Todos se ponen serios cuando el timbal abre la danza.
Solamente el europeo leía las meditaciones cartesianas.
El baile y la isla rodeada de agua por todas partes:
plumas de flamencos, espinas de pargo, ramos de albahaca, semillas de aguacate.
La nueva solemnidad de esta isla.
¡País mío, tan joven, no sabes definir!

¿Quién puede reír sobre esta roca fúnebre de los sacrificios de gallos?
Los dulces ñañigos bajan sus puñales acompasadamente.
Como una guanábana, un corazón puede ser traspasado sin cometer crimen.
Sin embargo el bello aire se aleja de los palmares.
Una mano en el tres puede traer todo el siniestro color de los caimitos
más lustrosos que un espejo en el relente,
sin embargo el bello aire se aleja de los palmares,
si hundieras los dedos en su pulpa creerías en la música.
Mi madre fue picada por un alacrán cuando estaba embarazada.
¿Quién puede reír sobre esta roca de los sacrificios de gallos?
¿Quién se tiene a sí mismo cuando las claves chocan?
¿Quién desdeña ahogarse en la indefinible llamarada del flamboyán?
La sangre adolescente bebemos en las pulidas jícaras.
Ahora no pasa un tigre sino su descripción.

Las blancas dentaduras perforando la noche,
y también los famélicos dientes de los chinos esperando el desayuno
después de la doctrina cristiana.
Todavía puede esta gente salvarse del cielo,
pues al compás de los himnos las doncellas agitan diestramente
los falos de los hombres.
La impetuosa ola invade el extenso salón de las genuflexiones.
Nadie piensa en implorar, en dar gracias, en agradecer, en testimoniar.
La santidad se desinfla en una carcajada.
Sean los caóticos símbolos del amor los primeros objetos que palpe,
afortunadamente desconocemos la voluptuosidad y la caricia francesa,
desconocemos el perfecto gozador y la mujer pulpo,
desconocemos los espejos estratégicos,
no sabemos llevar la sífilis con la reposada elegancia de un cisne,
desconocemos que muy pronto vamos a practicar estas mortales elegancias.

Los cuerpos en la misteriosa llovizna tropical,
en la llovizna diurna, en la llovizna nocturna, siempre en la llovizna,
los cuerpos abriendo sus millones de ojos,
los cuerpos, dominados por la luz, se repliegan
ante el asesinato de la piel,
los cuerpos, devorando oleadas de luz, revientan como girasoles de fuego
encima de las aguas estáticas,
los cuerpos, en las aguas, como carbones apagados derivan hacia el mar.
Es la confusión, es el terror, es la abundancia,
es la virginidad que comienza a perderse.
Los mangos podridos en el lecho del río ofuscan mi razón,
y escalo el árbol más alto para caer como un fruto.
Nada podría detener este cuerpo destinado a los cascos de los caballos,
turbadoramente cogido entre la poesía y el sol.

Escolto bravamente el corazón traspasado,
clavo el estilete más agudo en la nuca de los durmientes.
El trópico salta y su chorro invade mi cabeza
pegada duramente contra la costra de la noche.
La piedad original de las auríferas arenas
ahoga sonoramente las yeguas españolas,
la tromba desordena las crines más oblicuas.

No puedo mirar con estos ojos dilatados.
Nadie sabe mirar, contemplar, desnudar un cuerpo.
Es la espantosa confusión de una mano en lo verde,
los estranguladores viajando en la franjas del iris.
No sabría poblar de miradas el solitario curso del amor.

Me detengo en ciertas palabras tradicionales:
el aguacero, la siesta, el cañaveral, el tabaco,
con simple ademán, apenas si onomatopéyicamente,
titánicamente paso por encima de su música,
y digo: el agua, el mediodía, el azúcar, el humo.

Yo combino:
el aguacero pega en el lomo de los caballos,
la siesta atada a la cola de un caballo,
el cañaveral devorando a los caballos,
los caballos perdiéndose sigilosamente
en la tenebrosa emanación del tabaco,
el último gesto de los siboneyes mientras el humo pasa por la horquilla
como la carreta de la muerte,
el último ademán de los siboneyes,
y cavo esta tierra para encontrar los ídolos y hacerme una historia.

Los pueblos y sus historias en boca de todo el pueblo.

De pronto, el galeón cargado de oro se mete en la boca
de uno de los narradores,
y Cadmo, desdentado, se pone a tocar el bongó.
La vieja tristeza de Cadmo y su perdido prestigio:
en una isla tropical los últimos glóbulos rojos de un dragón
tiñen con imperial dignidad el manto de una decadencia.
Las historias eternas frente a la historia de una vez del sol,
las eternas historias de estas tierras paridoras de bufones y cotorras,
las eternas historias de los negros que fueron,
y de los blancos que no fueron,
o al revés o como os parezca mejor,
las eternas historias blancas, negras, amarillas, rojas, azules
-toda la gama cromática reventando encima de mi cabeza en llamas-,
la eterna historia de la cínica sonrisa del europeo
llegado para apretar las tetas de mi madre.

El horroroso paseo circular,
el tenebroso juego de los pies sobre la arena circular,
el envenenado movimiento del talón que rehúye el abanico del erizo,
los siniestros manglares, como un cinturón canceroso,
dan la vuelta a la isla,
los manglares y la fétida arena
aprietan los riñones de los moradores de la isla.

Sólo se eleva un flamenco absolutamente.

¡Nadie puede salir, nadie puede salir!
La vida del embudo y encima la nata de la rabia.
Nadie puede salir:
el tiburón más diminuto rehusaría transportar un cuerpo intacto.
Nadie puede salir:
una uva caleta en la frente de la criolla
que se abanica lánguida en una mecedora,
y “nadie puede salir” termina espantosamente en el choque de las claves.

Cada hombre comiendo fragmentos de la isla,
cada hombre devorando los frutos, las piedras y el excremento nutridor,
cada hombre mordiendo el sitio dejado por su sombra,
cada hombre lanzando dentelladas en el vacío donde el sol se acostumbra,
cada hombre, abriendo su boca como una cisterna, embalsa el agua
del mar, pero como el caballo del barón de Münchausen
la arroja patéticamente por su cuarto trasero,
cada hombre en el rencoroso trabajo de recortar
los bordes de la isla más bella del mundo,
cada hombre tratando de echar a andar a la bestia cruzada de cocuyos.

Pero la bestia es perezosa como un bello macho
y terca como una hembra primitiva.
Verdad es que la bestia atraviesa diariamente los cuatro momentos caóticos,
los cuatro momentos en que se la puede contemplar
-con la cabeza metida entre sus patas- escrutando el horizonte con ojo atroz,
los cuatro momentos en que se abre el cáncer:
madrugada, mediodía, crepúsculo y noche.

Las primeras gotas de una lluvia áspera golpean su espalda
hasta que la piel toma la resonancia de dos maracas pulsadas diestramente.
En este momento, como una sábana o como un pabellón de tregua, podría
desplegarse un agradable misterio,
pero la avalancha de verdes lujuriosos ahoga los mojados sones,
y la monotonía invade el envolvente túnel de las hojas.

El rastro luminoso de un sueño mal parido,
un carnaval que empieza con el canto del gallo,
la neblina cubriendo con su helado disfraz el escándalo de la sabana,
cada palma derramándose insolente en un verde juego de aguas,
perforan, con un triángulo incandescente, el pecho de los primeros aguadores,
y la columna de agua lanza sus vapores a la cara del sol cosida por un gallo.
Es la hora terrible.
Los devoradores de neblina se evaporan
hacia la parte más baja de la ciénaga,
y un caimán los pasa dulcemente a ojo.
Es la hora terrible.
La última salida de la luz de Yara
empuja los caballos contra el fango.
Es la hora terrible.
Como un bólido la espantosa gallina cae,
y todo el mundo toma su café.

¿Pero qué puede el sol en un pueblo tan triste?
Las faenas del día se enroscan al cuello de los hombres
mientras la leche cae desesperadamente.
¿Qué puede el sol en un pueblo tan triste?
Con un lujo mortal los macheteros abren grandes claros en el monte,
la tristísima iguana salta barrocamente en un caño de sangre,
los macheteros, introduciendo cargas de claridad, se van ensombreciendo
hasta adquirir el tinte de un subterráneo egipcio.
¿Quién puede esperar clemencia en esta hora?

Confusamente un pueblo escapa de su propia piel
adormeciéndose con la claridad,
la fulminante droga que puede iniciar un sueño mortal
en los bellos ojos de hombres y mujeres,
en los inmensos y tenebrosos ojos de estas gentes
por los cuales la piel entra a no sé qué extraños ritos.

La piel, en esta hora, se extiende como un arrecife
y muerde su propia limitación,
la piel se pone a gritar como una loca, como una puerca cebada,
la piel trata de tapar su claridad con pencas de palma,
con yaguas traídas distraídamente por el viento,
la piel se tapa furiosamente con cotorras y pitahayas,
absurdamente se tapa con sombrías hojas de tabaco
y con restos de leyendas tenebrosas,
y cuando la piel no es sino una bola oscura,
la espantosa gallina pone un huevo blanquísimo.

¡Hay que tapar! ¡Hay que tapar!
Pero la claridad avanzada, invade
perversamente, oblicuamente, perpendicularmente,
la claridad es una enorme ventosa que chupa la sombra,
y las manos van lentamente hacia los ojos.

Los secretos más inconfesables son dichos:
la claridad mueve las lenguas,
la claridad mueve los brazos,
la claridad se precipita sobre un frutero de guayabas,
la claridad se precipita sobre los negros y los blancos,
la claridad se golpea a sí misma,
va de uno a otro lado convulsivamente,
empieza a estallar, a reventar, a rajarse,
la claridad empieza el alumbramiento más horroroso,
la claridad empieza a parir claridad.
Son las doce del día.
Todo un pueblo puede morir de luz como morir de peste.
Al mediodía el monte se puebla de hamacas invisibles,
y, echados, los hombres semejan hojas a la deriva sobre aguas metálicas.
En esta hora nadie sabría pronunciar el nombre más querido,
ni levantar una mano para acariciar un seno;
en esta hora del cáncer un extranjero llegado de playas remotas
preguntaría inútilmente qué proyectos tenemos
o cuántos hombres mueren de enfermedades tropicales en esta isla.
Nadie lo escucharía: las palmas de las manos vueltas hacia arriba,
los oídos obturados por el tapón de la somnolencia,
los poros tapiados con la cera de un fastidio elegante
y de la mortal deglución de las glorias pasadas.

¿Dónde encontrar en este cielo sin nubes el trueno
cuyo estampido raje, de arriba a abajo, el tímpano de los durmientes?
¿Qué concha paleolítica reventaría con su bronco cuerno
el tímpano de los durmientes?
Los hombres-conchas, los hombres-macaos, los hombres-túneles.
¡Pueblo mío, tan joven, no sabes ordenar!
¡Pueblo mío, divinamente retórico, no sabes relatar!
Como la luz o la infancia aún no tienes un rostro.

De pronto el mediodía se pone en marcha,
se pone en marcha dentro de sí mismo,
el mediodía estático se mueve, se balancea,
el mediodía empieza a elevarse flatulentamente,
sus costuras amenazan reventar,
el mediodía sin cultura, sin gravedad, sin tragedia,
el mediodía orinando hacia arriba,
orinando en sentido inverso a la gran orinada
de Gargantúa en las torres de Notre Dame,
y todas esas historias, leídas por un isleño que no sabe lo que es un cosmos resuelto.

Pero el mediodía se resuelve en crepúsculo y el mundo se perfila.
A la luz del crepúsculo una hoja de yagruma ordena su terciopelo,
su color plateado del envés es el primer espejo.
La bestia lo mira con su ojo atroz.
En este trance la pupila se dilata, se extiende como mundo se perfila
hasta aprehender la hoja.
Entonces la bestia recorre con su ojo las formas sembradas en su lomo
y los hombres tirados contra su pecho.
Es la hora única para mirar la realidad en esta tierra.
No una mujer y un hombre frente a frente,
sino el contorno de una mujer y un hombre frente a frente,
entran ingrávidos en el amor,
de tal modo que Newton huye avergonzado.
Una guinea chilla para indicar el angelus:
abrus precatorious, anona myristica, anona palustris.

Una letanía vegetal sin trasmundo se eleva
frente a los arcos floridos del amor:
Eugenia aromática, eugenia fragrans, eugenia plicatula.
El paraíso y el infierno estallan y sólo queda la tierra:
Ficus religiosa, ficus nitida, ficus suffocans.

La tierra produciendo por los siglos de los siglos:
Panicum colonum, panicum sanguinale, panicum maximum.
El recuerdo de una poesía natural, no codificada, me viene a los labios:
Árbol de poeta, árbol del amor, árbol del seso.

Una poesía exclusivamente de la boca como la saliva:
Flor de calentura, flor de cera, flor de la Y.
Una poesía microscópica:
Lágrimas de Job, lágrimas de Júpiter, lágrimas de amor.

Pero la noche se cierra sobre la poesía y las formas se esfuman.
En esta isla lo primero que la noche hace es despertar el olfato:
Todas las aletas de todas las narices azotan el aire
buscando una flor invisible;
la noche se pone a moler millares de pétalos,
la noche se cruza de paralelos y meridianos de olor,
los cuerpos se encuentran en el olor,
se reconocen en este olor único que nuestra noche sabe provocar;
el olor lleva la batuta de las cosas que pasan por la noche,
el olor entra en el baile, se aprieta contra el güiro,
el olor sale por la boca de los instrumentos musicales,
se posa en el pie de los bailadores,
el corro de los presentes devora cantidades de olor,
abre la puerta y las parejas se suman a la noche.

La noche es un mango, es una piña, es un jazmín,
la noche es un árbol frente a otro árbol sin mover sus ramas,
la noche es un insulto perfumado en la mejilla de la bestia;
una noche esterilizada, una noche sin almas en pena,
sin memoria, sin historia, una noche antillana;
una noche interrumpida por el europeo,
el inevitable personaje de paso que deja su cagada ilustre,
a lo sumo, quinientos años, un suspiro en el rodar de la noche antillana,
una excrecencia vencida por el olor de la noche antillana.

No importa que sea una procesión, una conga,
una comparsa, un desfile.
La noche invade con su olor y todos quieren copular.
El olor sabe arrancar las máscaras de la civilización,
sabe que el hombre y la mujer se encontrarán sin falta en el platanal.
¡Musa paradisíaca, ampara a los amantes!

No hay que ganar el cielo para gozarlo,
dos cuerpos en el platanal valen tanto como la primera pareja,
la odiosa pareja que sirvió para marcar la separación.
¡Musa paradisíaca, ampara a los amantes!

No queremos potencias celestiales sino presencias terrestres,
que la tierra nos ampare, que nos ampare el deseo,
felizmente no llevamos el cielo en la masa de la sangre,
sólo sentimos su realidad física
por la comunicación de la lluvia al golpear nuestras cabezas.
Bajo la lluvia, bajo el olor, bajo todo lo que es una realidad,
un pueblo se hace y se deshace dejando los testimonios:
un velorio, un guateque, una mano, un crimen,
revueltos, confundidos, fundidos en la resaca perpetua,
haciendo leves saludos, enseñando los dientes, golpeando sus riñones,
un pueblo desciende resuelto en enormes postas de abono,
sintiendo cómo el agua lo rodea por todas partes,
más abajo, más abajo, y el mar picando en sus espaldas;
un pueblo permanece junto a su bestia en la hora de partir,
aullando en el mar, devorando frutas, sacrificando animales,
siempre más abajo, hasta saber el peso de su isla;
el peso de una isla en el amor de un pueblo.

(1943)


L’ISOLA IN PESO


La maledetta circostanza dell’acqua dappertutto
mi obbliga a sedermi al tavolo del bar.
Se non pensassi che l’acqua mi circonda come un cancro
avrei potuto dormire sonni tranquilli.
Mentre i ragazzi si spogliavano per nuotare
dodici persone morivano in una camera a causa della compressione.
Quando all’alba la mendicante scivola in acqua
nel preciso momento in cui lava uno dei suoi capezzoli,
mi abituo al fetore del porto,
mi abituo alla stessa donna che masturba invariabilmente,
notte dopo notte, il soldato di guardia in mezzo al sonno dei pesci.
Una tazza di caffè non può allontanare la mia idea fissa,
in un altro tempo io vivevo come Adamo.
Che cosa ha portato la metamorfosi?

L’eterna miseria che è l’atto di ricordare.
Se tu riuscissi di nuovo a formare quelle combinazioni,
a restituirmi il paese senza l’acqua,
me la berrei tutta quanta per sputare in cielo.
Ma ho visto la musica bloccata sulle anche,
ho visto le negre ballare con bicchieri di rum sul capo.
Bisogna saltare dal letto con la ferma convinzione
che i tuoi denti sono cresciuti,
che il tuo cuore ti uscirà dalla bocca.
L’uniforme del marinaio annegato galleggia ancora tra gli scogli.
Bisogna saltare dal letto e cercare la vena maggiore del mare per dissanguarlo.
Mi sono messo a pescare spugne freneticamente,
quegli esseri miracolosi che possono sfrattare fino all’ultima goccia d’acqua
e vivere asciutti.
Stanotte ho pianto quando ho conosciuto un’anziana
che ha vissuto cento otto anni circondata d’acqua dappertutto.
Bisogna mordere, bisogna urlare, bisogna graffiare.
Ho dato le ultime istruzioni.
Il profumo dell’ananas può fermare un uccello.
Gli undici mulatti si contendevano il frutto,
gli undici mulatti fallici sono morti sulla riva in spiaggia.
Ho dato le ultime istruzioni.
Tutti ci siamo spogliati.

Sono arrivato quando davano un bicchiere di acquavite alla vergine barbara,
quando spargevano rum per terra e i piedi sembravano lance,
esattamente quando un corpo sul letto poteva sembrare impudico,
esattamente nel momento in cui nessuno crede in Dio.
I primi accordi e le antichità di questo mondo:
maestosamente una negra e una bianca e il liquido quando schizza.
Per diventare triste mi annuso le ascelle.
È in questo paese che non ci sono animali selvatici.
Penso ai cavalli dei conquistatori che montano le giumente,
penso al suono sconosciuto dell’areito
scomparso per sempre,
indubbiamente devo sforzarmi per mettere in chiaro
il primo contatto carnale in questo paese e il primo morto.
Tutti diventano seri quando il timpano apre la danza.
Soltanto l’europeo leggeva le meditazioni cartesiane.
Il ballo e l’isola circondata d’acqua dappertutto:
piume di fenicotteri, spine di dentice, ramoscelli di basilico, semi di avocado.
La nuova solennità di quest’isola.
Paese mio, così giovane, non sai definire!

Chi può burlarsi dei sacrifici dei galli su questa roccia funebre?
I dolci ñañigo{2} abbassano i loro pugnali ritmicamente.
Come una guanábana,{3} un cuore può essere trapassato senza compiere un delitto.
Tuttavia, il bel vento si allontana dai palmeti.
Una mano nel tres può portare tutto il sinistro colore dei caimito{4}
più lucenti di uno specchio nella rugiada,
tuttavia, il bel vento si allontana dai palmeti,
se tu affondassi le dita in quella polpa crederesti nella musica.
Mia madre fu punta da uno scorpione quando era incinta.
Chi può burlarsi dei sacrifici dei galli su questa roccia funebre?
Chi tiene a sé stesso quando le chiavi sbattono?
Chi detesta soffocarsi nell’indefinibile fiammata del flamboyant?
Beviamo il sangue adolescente nelle tazzine pulite.
Ora non passa una tigre, bensì la sua descrizione.

I bianchi denti che perforano la notte
e anche i denti famelici dei cinesi che aspettano la colazione
dopo la dottrina cristiana.
Questa gente può ancora salvarsi dal cielo,
perché al ritmo degli inni le fanciulle agitano abilmente
i falli degli uomini.
L’onda impetuosa invade l’ampio salone delle genuflessioni.
Nessuno pensa a implorare, a ringraziare, a essere grato, a testimoniare.
La santità si scoraggia in una sghignazzata.
Siano i simboli caotici dell’amore i primi oggetti che toccherò,
fortunatamente ignoriamo la voluttuosità e la carezza francese,
ignoriamo il perfetto goditore e la donna polpo,
ignoriamo gli specchi strategici,
non sappiamo portare la sifilide con l’eleganza flemmatica di un cigno,
ignoriamo che ben presto praticheremo queste mortali eleganze.

I corpi nella misteriosa pioggerella tropicale,
nella pioggerella diurna, nella pioggerella notturna, sempre nella pioggerella,
i corpi che aprono i loro milioni di occhi,
i corpi, dominati dalla luce, si piegano
di fronte all’assassinio della pelle,
i corpi, che divorano ondate di luce, esplodono come girasoli di fuoco
sulle acque statiche,
i corpi, nelle acque, come carboni spenti vanno alla deriva verso il mare.

È la confusione, è il terrore, è l’abbondanza,
è la verginità che inizia a perdersi.
I manghi putrefatti sul letto del fiume offuscano la mia ragione
e mi arrampico sull’albero più alto per cadere come un frutto.
Niente potrebbe fermare questo corpo destinato agli zoccoli dei cavalli,
inquietamente preso tra la poesia e il sole.

Scorto valorosamente il cuore trafitto,
inchiodo lo stiletto più acuto nella nuca degli addormentati.
Il tropico esplode e il suo zampillo invade la mia testa
attaccata duramente contro la crosta della notte.
La pietà originale delle aurifere sabbie
affoga sonoramente le giumente spagnole,
la tromba scompiglia le criniere più oblique.

Non riesco a guardare con questi occhi dilatati.
Nessuno sa guardare, contemplare, spogliare un corpo.
È la spaventosa confusione di una mano nel verde,
gli strangolatori che viaggiano sulla striscia dell’iride.
Non saprei popolare di sguardi il solitario corso dell’amore.

Mi fermo su certe parole tradizionali:
l’acquazzone, la siesta, il canneto, il tabacco,
con semplice gesto, a malapena in maniera onomatopeica,
con dimensioni titaniche passo sopra la loro musica
e dico: l’acqua, il mezzogiorno, lo zucchero, il fumo.

E combino:
l’acquazzone batte sul dorso dei cavalli,
la siesta legata alla coda di un cavallo,
il canneto che divora i cavalli,
i cavalli che si perdono con discrezione
nel tenebroso effluvio del tabacco,
l’ultimo gesto dei siboney{5} mentre il fumo attraversa la forcina
come il calesse della morte,
l’ultimo gesto dei siboney
e scavo questa terra per trovare gli idoli e farmene una storia.

I popoli e le loro storie in bocca di tutto il popolo.

All’improvviso, il galeone carico d’oro entra nella bocca
di uno dei narratori,
e Cadmo, sdentato, si mette a suonare il bongo.
La vecchia tristezza di Cadmo e il suo prestigio perduto:
in un’isola tropicale gli ultimi globuli rossi di un drago
tingono con imperiale dignità il mantello di una decadenza.
Le storie eterne di fronte alla storia di una volta del sole,
le eterne storie di queste terre feconde di buffoni e chiacchieroni,{6}
le eterne storie dei negri che furono
e dei bianchi che non furono,
o al contrario o come vi sembra meglio,
le eterne storie bianche, nere, gialle, rosse, blu
– tutta la gamma cromatica che esplode sulla mia testa in fiamme –,
l’eterna storia del cinico sorriso dell’europeo
arrivato per spremere le poppe di mia madre.

L’orribile passaggio circolare,
il tenebroso gioco dei piedi sulla sabbia circolare,
l’avvelenato movimento del tallone che scansa il ventaglio del riccio,
le sinistre mangrovie, come un cinturone cancerogeno,
fanno il giro dell’isola,
le mangrovie e la fetida sabbia
stringono i reni degli abitanti dell’isola.

Si alza soltanto un fenicottero in assoluto.

Nessuno può uscire, nessuno può uscire!
La vita dell’imbuto e sopra la panna della rabbia.
Nessuno può uscire:
lo squalo più piccolo rifiuterebbe di trasportare un corpo intatto.
Nessuno può uscire:
una coccoloba uvifera sulla fronte della creola
che languida si sventaglia su una sedia a dondolo,
e “nessuno può uscire” conclude spaventosamente nell’urto delle chiavi.

Ogni uomo che mangia frammenti dell’isola,
ogni uomo che divora i frutti, le pietre e l’escremento nutritivo,
ogni uomo che morde il posto lasciato dalla propria ombra,
ogni uomo che lancia morsi nel vuoto dove il sole si abitua,
ogni uomo, che spalanca la propria bocca come una cisterna, ristagna l’acqua
del mare, ma come il cavallo del barone di Münchausen
la vomita pateticamente dal suo retrobottega,
ogni uomo nella perfida impresa di ritagliare
i confini dell’isola più bella del mondo,
ogni uomo che cerca di far camminare la bestia percorsa da coleotteri.

Ma la bestia è pigra come un bel maschio
e ostinata come una femmina primitiva.
La verità è che la bestia attraversa ogni giorno i quattro momenti caotici,
i quattro momenti in cui la si può contemplare
– con la testa infilata tra le sue zampe – a scrutare l’orizzonte con occhio atroce,
i quattro momenti in cui si apre il cancro:
alba, mezzogiorno, tramonto e notte.
Le prime gocce di una pioggia acida colpiscono la sua schiena
finché la pelle assume la risonanza di due maracas abilmente agitate.
In questo momento, come un lenzuolo o un padiglione di tregua, potrebbe
dispiegarsi un piacevole mistero,
ma la valanga di verdi lussuriosi affoga i fradici suoni
e la monotonia invade l’avvolgente tunnel delle foglie.

La scia luminosa di un sogno partorito male,
un carnevale che incomincia con il canto del gallo,
la nebbia che copre con il suo gelido travestimento lo scandalo della savana,
ogni palma si espande insolente in un verde gioco di acque,
perforano, con un triangolo incandescente, il petto dei primi acquaioli
e la colonna d’acqua lancia i suoi vapori alla faccia del sole cucita da un gallo.
È l’ora terribile.
I divoratori di nebbia evaporano
verso la parte più bassa della fangaia
e un caimano passa tra di loro soavemente a occhio nudo.
È l’ora terribile.
L’ultima fuoriuscita della luce di Yara
spinge i cavalli contro il fango.
È l’ora terribile.
La spaventosa gallina cade come un bolide
e tutti bevono il proprio caffè.

Ma che può fare il sole in un paese così triste?
I compiti del giorno si avvitano al collo degli uomini
mentre il latte cade disperatamente.
Che può fare il sole in un paese così triste?
Con un lusso mortale i mietitori aprono ampi chiarori nel bosco,
la tristissima iguana balza barocca in uno zampillo di sangue,
i mietitori, che introducono cariche di chiarore, diventano ombrosi
fino ad acquisire la tinta di un sotterraneo egizio.
Chi può aspettare clemenza in quest’ora?

Confusamente un popolo fugge dalla propria pelle
e si addormenta con il chiarore,
la fulminante droga che può iniziare un sonno mortale
nei begli occhi di uomini e donne,
negli immensi e tenebrosi occhi di questa gente
dai quali la pelle entra verso non so quali strani riti.

In quest’ora, la pelle si espande come una scogliera
e morde il proprio limite,
la pelle si mette a urlare come una pazza, come un lurido orzo,
la pelle cerca di coprire il suo chiarore con foglie di palma,
con palme reali portate distrattamente dal vento,
la pelle si ricopre furiosamente di parrocchetti e pitahayas,{7}
assurdamente si ricopre di foglie di tabacco scure
e di resti di leggende tenebrose
e quando la pelle è soltanto una sfera oscura,
la spaventosa gallina depone un uovo bianchissimo.

Bisogna coprire! Bisogna coprire!
Ma il chiarore avanzato invade
perversamente, obliquamente, perpendicolarmente,
il chiarore è un’enorme ventosa che risucchia l’ombra
e le mani si dirigono lentamente verso gli occhi.

I segreti più inconfessabili sono detti:
il chiarore muove le lingue,
il chiarore muove le braccia,
il chiarore precipita su una fruttiera di guaiave,
il chiarore precipita sui negri e sui bianchi,
il chiarore percuote sé stesso,
va da un lato all’altro convulsamente,
comincia a esplodere, a scoppiare, a scheggiarsi,
il chiarore inizia il parto più orribile,
il chiarore inizia a partorire chiarore.
È mezzogiorno.
Un intero popolo può morire di luce come morire di peste.
A mezzogiorno il bosco si popola di amache invisibili
e, sdraiati, gli uomini sembrano foglie alla deriva su acque metalliche.
In questa ora nessuno saprebbe pronunciare il nome più amato
né sollevare una mano per accarezzare un seno;
in questa ora del cancro uno straniero giunto da lidi remoti
potrebbe chiedere inutilmente quali progetti abbiamo
o quanti uomini muoiono di malattie tropicali su questa isola.
Nessuno lo ascolterebbe: i palmi delle mani rivolti all’insù,
le orecchie otturate dal tappo della sonnolenza,
i pori murati con la cera di un elegante fastidio
e della mortale deglutizione delle glorie passate.

Dove trovare su questo cielo scoperto il tuono
il cui rombo fende, dall’alto in basso, il timpano degli addormentati?
Quale conchiglia paleolitica farebbe esplodere con il suo duro corno
il timpano degli addormentati?
Gli uomini-conchiglia, gli uomini-macao, gli uomini-tunnel.
Popolo mio, così giovane, non sai ordinare!
Popolo mio, divinamente retorico, non sai riferire!
Come la luce o l’infanzia non hai ancora un volto.

All’improvviso il mezzogiorno si mette in moto,
si attiva dentro sé stesso,
il mezzogiorno statico si muove, si bilancia,
il mezzogiorno comincia a levarsi in modo flatulento,
le sue cuciture minacciano un’esplosione,
il mezzogiorno privo di cultura, di gravità, di tragedia,
il mezzogiorno che orina verso l’alto,
che orina in senso contrario alla grande orinata
di Gargantua sulle torri di Notre Dame
e tutte queste storie, lette da un isolano che non sa cosa sia un cosmo risoluto.

Ma il mezzogiorno si risolve in tramonto e il mondo si profila.
Alla luce del tramonto una foglia di yagruma{8} ordina il suo velluto,
il suo colore argentato del rovescio è il primo riflesso.
La bestia lo guarda con il suo atroce occhio.
In questo frangente la pupilla si dilata, si estende come il mondo si perfeziona
fino ad afferrare la foglia.
Allora la bestia percorre con il suo occhio le forme seminate nel suo dorso
e gli uomini tesi contro il suo petto.
È l’unica ora per guardare la realtà su questa terra.
Non una donna o un uomo faccia a faccia,
bensì il contorno di una donna e di un uomo faccia a faccia,
entrano lievi nell’amore,
di modo che Newton corre via vergognato.
Una ghinea tintinna per indicare l’angelus:
abrus precatorious, anona myristica, anona palustris.

Una litania vegetale senza oltretomba si eleva
dinanzi agli archi floridi dell’amore:
Eugenia aromatica, eugenia fragrans, eugenia plicatula.
Il paradiso e l’inferno esplodono e resta solamente la terra:
Ficus religiosa, ficus nitida, ficus suffocans.

La terra che produce per i secoli dei secoli:
Panicum colonum, panicum sanguinale, panicum maximum.
Il ricordo di una poesia naturale, non codificata, sopraggiunge alle mie labbra:
Albero di poeta, albero dell’amore, albero del cervello.

Una poesia esclusivamente della bocca come della saliva:
Fiore di febbre, fiore di cera, fiore della Y.
Una poesia microscopica:
Lacrime di Giobbe, lacrime di Giove, lacrime d’amore.

Ma la notte si chiude sulla poesia e le forme sfumano.
In questa isola la prima cosa che la notte fa è svegliare l’olfatto:
Ogni aletta di ogni narice flagella l’aria
e cerca un fiore invisibile;
la notte si mette a macinare migliaia di petali,
la notte si attraversa di paralleli e meridiani di odore,
i corpi si incontrano nell’odore,
si riconoscono in questo unico odore che la nostra notte sa provocare;
l’odore comanda a bacchetta le cose che passano di notte,
l’odore entra nel ballo, si comprime contro la zucca,
l’odore esce dalla bocca degli strumenti musicali,
si appoggia ai piedi dei ballerini,
il gruppo dei presenti divora quantità di odore,
apre la porta e le coppie si aggiungono alla notte.

La notte è un mango, è un ananas, è un gelsomino,
la notte è un albero di fronte a un altro albero che non muove i suoi rami,
la notte è un insulto profumato sulla guancia della bestia;
una notte sterilizzata, una notte senza anime in pena,
senza memoria, senza storia, una notte caraibica;
una notte interrotta dall’europeo,
l’inevitabile personaggio di passaggio che lascia la sua illustre cacata,
tutt’al più, cinquecento anni, un sospiro nel giro della notte caraibica,
un’escrescenza vinta dall’odore della notte caraibica.

Non importa che si tratti di una processione, di una conga,
una parata, una sfilata.
La notte invade con il suo odore e tutti vogliono copulare.
L’odore sa strappare le maschere della civiltà,
sa che l’uomo e la donna si incontreranno senz’altro nella piantagione di banani.
Musa paradisiaca, proteggi gli amanti!

Non bisogna guadagnare il cielo per goderlo,
due corpi nella piantagione di banani valgono tanto quanto la prima coppia,
l’odiosa coppia che è servita a segnare la separazione.
Musa paradisiaca, proteggi gli amanti!

Non vogliamo potenze celesti, ma presenze terrestri,
che la terra ci protegga, che ci protegga il desiderio,
felicemente non portiamo il cielo nel volume del sangue,
sentiamo soltanto la sua realtà fisica
per via della comunicazione della pioggia quando colpisce le nostre teste.
Sotto la pioggia, sotto l’odore, sotto tutto ciò che è una realtà,
un popolo si fa e si disfà e lascia i testimoni:
una veglia funebre, un guateque,{9} una mano, un delitto,
sconvolti, confusi, fusi nella risacca perpetua
mentre fa lievi saluti, mostra i denti, colpisce i propri reni,
un popolo discende risoluto in enormi cumoli di sterco,
e sente come l’acqua lo circonda dappertutto,
più giù, più giù, e il mare che punge alle sue spalle;
un popolo permane con la sua bestia nell’ora della partenza,
a ululare in mare, a divorare frutti, a sacrificare animali,
sempre più giù, fino a conoscere il peso della sua isola;
il peso di un’isola nell’amore di un popolo.

(1943)





{1}La versione del testo è tratta da V. Piñera, La isla en peso, in Id., La vida entera, edición anotada por Y. Gómez, Lectorum, México, 2012, pp. 87-109.

{2}Antica società segreta cubana Abakuá, composta da negri e simile alla massoneria.

{3}Frutto dell’anona muricata.

{4}Albero originario dell’America Centrale, dei Caraibi, della Colombia e del Venezuela.

{5}Rappresentano la più antica etnia caraibica.

{6}In spagnolo cotorra significa “pappagallo”, ma anche “ciarliere”, “chiacchierone”. Qui abbiamo scelto di renderlo con “chiacchieroni”, essendo accompagnato dal sostantivo “buffoni”.

{7}Frutto di varie specie di cactus originarie delle Americhe.

{8}La cecropia peltata è un albero tipico di Cuba con proprietà medicinali.

{9}A Cuba è una festa contadina caratterizzata da canti e balli.

Traduzione dallo spagnolo di Carmelo Spadola




Virgilio Piñera (Cárdenas 1912 – La Habana 1979)
è stato uno dei massimi drammaturghi, saggisti, narratori e poeti cubani del Novecento. Membro degli intellettuali che gravitano intorno alla rivista «Orígenes», è considerato uno dei pionieri del teatro dell’assurdo in Ispanoamerica. Tuttavia, a causa della sua dissidenza politica e della sua dichiarata omosessualità, viene lentamente eclissato e riscoperto solamente agli albori del XXI secolo. Traduttore di Jean Giono e di Charles Baudelaire, durante il suo esilio volontario in Argentina, durato dodici anni e a periodi alterni, collabora con la rivista «Sur» e conosce lo scrittore polacco Witold Gombrowicz che lo nomina presidente del team di traduttori spagnoli del suo romanzo Ferdydurke (1947).
Autore di opere di notevole valore, che includono le poesie di Las Furias (1941) e de “La isla en peso” (1943), la pièce teatrale Electra Garrigó (1948), il romanzo La carne de René (1952) e i racconti di Cuentos fríos (1956), muore a causa di un infarto completamente abbandonato e dimenticato.

Bibliografia

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  • Cabrera Infante G., “En espera de Piñera total”, in Mi música extremada, Espasa Calpe, Madrid, 1996.
  • “Tema del héroe y la heroína”, in Vidas para leerlas, Alfaguara, Madrid, 1998.
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  • Piñera V., “El grito mudo”, in La poesía cubana en 1936. Colección, a cura di J. Ramón Jiménez, Institución Hispanocubana de Cultura, La Habana, 1937, pp. 211-212.
  • Cada cosa en su lugar, in «Lunes de Revolución», n. 39, 14 dicembre 1959.
  • Cuentos fríos. Racconti freddi, trad. it. di G. Lupi, Il Foglio, Piombino, 2017.
  • Il Ragazzo del Cobre. L’inferno e altri racconti brevi, trad. it. di G. Lupi, Il Foglio, Piombino, 2013.
  • La carne di René, a cura di G. Depretis, Il Quadrante, Torino, 1988.
  • La vida entera, UNEAC, La Habana, 1969.
  • Una broma colosal, con introducción de A. Arrufat, Unión, La Habana, 1988.
  • Virgilio Piñera, de vuelta y vuelta. Correspondencia 1932-1978, Unión, La Habana, 2011.
  • La vida entera, edición anotada por Y. Gómez, Lectorum, México, 2012.
  • Piñera Y., Los Piñera: el peso de una isla en el amor de un pueblo, Vitral, Pinar del Río, 1999.
  • Saínz E., La poesía de Virgilio Piñera: ensayo de aproximación, Letras Cubanas, La Habana, 2001.
  • Serna Arnáiz M., Lucidez, rigor y falta de respeto: la obra ensayística de Virgilio Piñera, in «Ínsula: revista de letras y ciencias humanas», n. 748, 2009, pp. 25-28.
  • Urías R., Una bromista colosal muere de luz y orden, in «Casa de las Américas», n. 180, vol. 30, maggio-giugno 1990, pp. 120-125.
  • Vitier C., Lo cubano en la poesía, Instituto del Libro, La Habana, 1970.
  • Zayas M., Mapa de la homofobia, in «Revista Encuentro», Madrid, 20/01/2006, reperibile anche in Cubaencuentro.


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