Spesso la terra, il bosco, la radura, il prato hanno attirato gli scrittori più delle relazioni umane e delle azioni. Gail Spilsbury, americana di Boston, non fa eccezione: ha vissuto alcuni anni in Sabina, dove si è dedicata alla produzione di un prodotto tipico di questa terra, l’olio d’oliva. Poi è tornata nella sua America, senza poter resistere a quel mal d’Europa, a quel virus europeo cui alludeva il suo connazionale Henry James. Un sintomo è la stesura di quattro storie raccolte in Quartetto sabino.
Quale Sabina emerge in questi racconti? Certamente una terra diversa rispetto agli spazi metropolitani, un luogo vergine che incatena chi sa cogliere il suo Genius Loci e che instilla il desiderio di tornare per risolvere quel “conflitto internazionale” se vogliamo tornare ancora una volta a James, ad uno degli archetipi che regnano non solo qui. Nello scrittore però il conflitto era tra innocenza americana e stanca raffinatezza europea. Qui le cose si sono rovesciate. I cowboys sono i contadini della Sabina alle prese con la dura terra, che si costruiscono le case da soli, che sorvegliano il bestiame, portatori di una visione sana della vita. I raffinati pittori, musicisti, danzatori con accenti e sfumature che come vedremo ricordano alcuni tipi di Scott Fitzgerald, vengono da fuori.
Sembrerebbe fatta, allora. La geografia dei valori si è rovesciata, spontaneità sabina contro decadenza anglo-americana.
Non è proprio così, e, per comprenderlo, dobbiamo andare a fondo nella lettura di Quartetto sabino, soprattutto nella strutturazione dei punti di vista: la Spilsbury non prende apparentemente posizione, (nel secondo capitolo vi è un dialogo che mette in evidenza la parzialità di ogni punto di vista e il pericolo della loro assolutizzazione) anche se poi alla fine emerge il senso profondo che lega i quattro racconti che compongono Quartetto sabino: la consapevolezza del fatale ritorno e la già serpeggiante – in anticipo – nostalgia del passaggio in Italia, per parafrasare il romanzo di Forster, che non a caso ha scritto due romanzi ambientati nel Belpaese, Where angels fear to tread (1905), che potrebbe essere tradotto Dove gli angeli temono di mettere piede, se non fosse diventato Monteriano nella edizione italiana, oltre al celebre Camera con vista. L’occhio – e lo spirito – di Quartetto sabino però è esterno, i personaggi ci vengono presentati uno ad uno dalla voce narrante, la narrazione quindi guarda da fuori i protagonisti, pur entrando nella coscienza di alcuni di loro, soprattutto la protagonista e portavoce autoriale Julie.
In Quartetto sabino troviamo personaggi che incarnano tipi: la protagonista Julie, viandante è amante della solitudine, forse perché sa di dover tornare nella patria fisica, ma che già rimpiange il luogo da lei costantemente attraversato, e non è un caso che il titolo del primo capitolo sia “La custode di Monte Donato”. Ma troviamo anche il ruolo attanziale del seduttore, incarnato da William, o da Randy, una sorta di santone musicale che cerca nell’accentramento dell’attenzione altrui una giustificazione ad una vita in debito di gratificazioni. Emerge anche la seduzione narrativa – che come si sa ha sempre una componente autobiografica – del compagno possibile. Appare anche l’aiutante, nella persona dell’amica che tenta a volte maldestramente di intessere legami, o dell’uomo altruista che veglia senza esserne richiesto sull’incolumità della protagonista. Ma quello che interessa di più, per sondare il punto di vista altro, è la disposizione narrativa dei personaggi sabini, che esprimono, lo abbiamo già anticipato, la forza primigenia, lo spirito della terra, la costruttività, ma anche, come vedremo in seguito, lo spirito della comunità, della festa insieme.
In realtà non tutti i protagonisti appartengono al genere umano, perché si fanno largo nel tessuto narrativo incarnazioni di forze che derivano dalla terra e dal Genius Loci: una sorta di prosopopea, figura di personificazione di elementi astratti in persone parlanti, come nel caso di Leopardi e della sua personificazione della natura nel Dialogo della natura e di un islandese: qui però le creature della terra non parlano direttamente, ma la loro energia si insinua nei personaggi o viene enunciata dalla voce narrante, o anche da soggetti collettivi, come nel caso della comunità sabina da cui emergono persone, uomini e donne, contrassegnati dallo spirito del luogo, fatto di capacità fattiva, interazione con la natura, appartenenza alla comune.
Un altro elemento personificato anche se non direttamente in un attante è lo spirito della festa: la comunità internazionale che si trova in Sabina assume talvolta i caratteri della solitudine e di una decadente inazione come, lo abbiamo anticipato, in alcuni romanzi di Scott Fitzgerald: uno di essi, Williams, è presentato con la sua “rilassata sazietà”. In Quartetto sabino però c’è una festa diversa da quella costruita ad hoc per stupire del Grande Gatsby, per fare un solo esempio: quella sabina, di festa, celebrata nella piazza del paese, riporta una sensazione di vita autentica. E ricorda, tra l’altro, una frase di un romanzo di uno scrittore italiano colpevolmente (per la critica militante) poco conosciuto, Tommaso Landolfi, La pietra lunare, che enuncia la differenza tra la festa in città e quella in paese: “Ella – scrive Landolfi parlando della protagonista Gurù, aveva un senso acuto della festa, la quale tanto scuorante nelle città, non manca invece, in un paese, di un certo lievito, se si riesce ad esserne avvolti”. Prendiamo il nostro romanzo: “Julie osservava gli ospiti che riportavano piatti colmi al proprio tavolo. La gioia del banchetto riempiva l’atmosfera (…) Per la stragrande maggioranza, si beavano di restare a tavola per ore, come se il tempo e il mondo esterno fossero spariti”. E più avanti arriva una precisazione certamente generica, se non fosse che proviene dal punto di vista diverso dei personaggi: “In generale la gente non andava alle feste con l’intenzione di ubriacarsi come si faceva negli Stati Uniti. Ci andava per incontrarsi, per socializzare”.
Un altro elemento che lentamente si profila nei racconti è la storia del luogo. Una storia fatta da uomini, con le loro lotte, le contrapposizioni, la rivalità tra le comunità medievali, che fa da pendant disforico alla potenza positiva e pacificatrice della natura. Non è un caso che sulla bellezza della terra sabina incomba una necropoli e la memoria di un villaggio distrutto nel XIV secolo. In una sorta di circolarità fatale lo spirito della terra entra in contatto con quello della storia, si scontra con esso e con esso nello stesso tempo deve necessariamente fondersi, divenendo il tutt’uno della Necessità dello spazio-tempo.
La natura sabina è poi il protagonista ostensivo, sempre sottinteso, che emerge in tutta la sua bellezza semplice e per questo ancora più affascinante. Il suo spirito è espresso dalla mediazione del narratore onnisciente che visita la mente dei suoi personaggi, ivi compreso la potatrice del suo punto di vista, Julie: “Nel corso del giorno, quando interagiva con l’ipnotica bellezza della valle e con la comunità era diverso”.
C’è però, come in James, come in Forster, qualcosa che impedisce la piena comunione tra lo straniero e la nuova, antica terra che sembrava attendere un misterioso ritorno. Essa si individua in quello che i Greci chiamavano l’Anànke, la divina necessità, qui incarnata nell’anticipazione ansiosa di un ritorno che si insinua come un impalpabile muro. Nei personaggi aleggia la necessità ineludibile di un voltarsi verso la patria naturale, il luogo della nascita fisica, ma poi ancora di un ritorno, in un moto incessante e senza soluzione di continuità. In essi appare già l’aura di quello che è etimologicamente il dolore-del-ritorno, quella nostalgia della terra adottiva, scelta, e forse per questo di una sostanza psichica affine a quella della terra natìa: “Julie si rendeva ben conto che un giorno se ne sarebbe andata e sarebbe tornata nel suo paese, dalla sua famiglia, anche se nel suo intimo si sentiva più a casa in Italia”.
Come non andare ad alcuni episodi di Virgina Wolf in cui il flusso di coscienza scorre implacabilmente e va oltre i luoghi per diventare parte integrante della psiche e quindi della vita dei personaggi? Ma non solo i “classici” novecenteschi: anche oggi ci sono scrittori, guarda caso americani, come Wendell Berry, che attraverso lo spazio finito dei luoghi intravedono una comunione più profonda con le generazioni di persone che si sono succedute in questi luoghi. Come anche era accaduto in Vernon Lee e nel suo Genius loci – una raccolta di saggi di viaggio che vanno da fine Ottocento agli anni Venti – in cui si alludeva a quel camminare che non è altro che un “atto di indugiare sulla soglia, non notati, di persone sconosciute verso le quali ci si sente tuttavia amici e quasi familiari (…) entrando con lo spirito nella casa la cui soglia non attraversiamo mai fisicamente”.
Non è un caso che Julie sia una pittrice: i racconti di Quartetto sabino esprimono forse un suo desiderio inconscio, quello di cogliere in un quadro l’essenza del luogo e il suo spirito. Speranza e tormento nello stesso tempo, perché, come Pirandello aveva ben intuito, non è possibile fermare in un istante, sia pure l’istante di un’opera d’arte, il fluire del tempo e della memoria. In fondo Julie sente intimamente questa impossibilità di divenire un tutt’uno con lo spirito del luogo, la stessa condizione umana lo vieta, pena la perdita dell’individualità e della coscienza, seppure dolente, che fa un uomo e una donna e fa anche l’artista. Lo sprofondamento nell’indifferenziato è il rischio di chi vuole guardare troppo oltre e andare oltre lo stesso ordine della creazione. Per questo la protagonista si limita a passare attraverso i personaggi, senza cedere alle loro lusinghe o amicali, amorose, o legate alla sicurezza di una protezione virile. È come se sapesse in partenza la propria non appartenenza e la propria estraneità alla limitatezza di singoli punti di vista.
Gail D. Spilsbury, Quartetto sabino, traduzione di Riccardo Duranti, Fuorilinea, 2019, 178 pagine, 16 euro.
testimarco14@gmail.com
|