FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 53
settembre/dicembre 2019

Immersioni

 

OSSIGENO

di Matteo Moscarda



Lo so che questa storia l’ho già raccontata, ma rimane la più interessante tra quelle che potrei raccontare, e dubito che ne avrò mai di più interessanti. E poi non l’ho mai raccontata come si deve, e sappiamo tutti che a rendere interessante una storia non è la storia in sé quanto il modo in cui si racconta, e io credo di aver finalmente trovato il modo giusto per raccontare una storia, che non consiste nel tentare di renderla più interessante, bensì nel limitarsi a riferirla, e nel modo più semplice, perché una storia semplicemente riferita, rispetto a una abilmente enfatizzata, ha dalla sua una minor distanza dall’orrore della verità.

Per farla breve, era l’agosto del 2011. A maggio avevo chiuso una relazione di tre anni con una ragazza inglese. Il problema è che prima della rottura avevamo organizzato un viaggio a Ustica, dove suo padre avrebbe dovuto sposarsi in seconde nozze, e il mio ruolo in quel matrimonio era fondamentale, poiché avrei dovuto fare da interprete con il prete, e quindi decidemmo di non comunicare a suo padre che c’eravamo lasciati, una cosa che in un altro momento gli avrebbe fatto fare i salti di gioia, ma che in quel frangente, col matrimonio di mezzo, l’avrebbe mandato in bestia.

Il mio ex suocero era un collerico. Sua figlia sosteneva che avesse un principio di Asperger o di Tourette, o comunque qualcosa di patologico che ne giustificasse gli scatti d’ira. Una volta l’ho visto schiantare una caffettiera bollente contro la lavastoviglie soltanto perché il caffè non usciva, e perché a caricarla era stata sua figlia, che gli aveva così rovinato il piacere di un vero caffè italiano, a lui che è inglese ma ha una vera caffettiera italiana, un vero forno da raclette, un intero jamón serrano, e così via. A me poi mi odiava, e in nessun modo io riuscivo a dargli torto, perché è ovvio che un uomo odi la persona che nell’80% dei casi rovinerà la vita di sua figlia, e perché nel nostro caso la percentuale saliva al 98%: ai tempi avevo trent’anni ed ero ancora disoccupato, mentre la mia ex stava completando gli studi di medicina e avrebbe presto cominciato a lavorare partendo da uno stipendio di duemila sterline. Suo padre poi aveva il culto dell’uomo vincente, e lo era lui stesso: chirurgo nell’esercito, ricco, erudito e rispettato, panzuto ma possente, non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e detestava gli smidollati. Dall’alto del suo successo sognava il meglio per sua figlia, per quanto poi coi figli avesse un rapporto conflittuale, perché da un lato pretendeva il massimo da loro, e dall’altro era con loro che dava il peggio. Fino a quindici anni prima li picchiava spesso, non così spesso quanto picchiava la moglie, ma comunque abbastanza, ed era andata avanti così finché suo figlio non l’aveva minacciato con un pugnale da sub, convincendo la moglie a chiedere il divorzio. Quel divorzio però l’aveva reso ancora più forte: in Inghilterra è normale essere divorziati, se non sei divorziato sei strano, sei un po’ sfigato, anche perché, nella maggior parte dei casi, se divorzi poi ti metti con una più bella e più giovane, e infatti anche il mio ex suocero adesso stava per sposare una più bella e più giovane, e anche per questo ci teneva che il suo secondo matrimonio fosse indimenticabile. A lui piaceva l’immersione, e allora aveva deciso che per il suo matrimonio dovevamo tutti essere in grado di fare immersione, perché il suo matrimonio sarebbe stato celebrato due volte, prima in chiesa e poi sott’acqua, in un ambiente nel quale lui si muoveva con leggiadria, rispetto alla terraferma, dove invece era brusco e pesante.

Fu così che, prima di partire, io e la mia ex seguimmo un corso intensivo di scuba diving. D’altronde chiunque può fare immersione, l’immersione non richiede alcuna abilità, non ti è nemmeno richiesto di saper nuotare. Tutto ciò che devi fare è eseguire alla lettera la sequenza di montaggio dell’equipaggiamento: verificare il respiratore, ancorare la bombola al gav, chiudere le fibbie, indossare le zavorre, e così via. Certo, se sbagli un passaggio rischi un barotrauma, e ci sono mille imprevisti da considerare (può finirti l’ossigeno per una perdita, può scapparti il respiratore, puoi rimanere impigliato nelle alghe o così via), ma in generale,fare immersione rimane una cosa stupida, un’illusione di onnipotenza, perché è innaturale per un essere umano sopravvivere così a lungo a venti metri di profondità, così come è innaturale volare su un camion alato di 25 tonnellate, o mangiare la carne, per via dell’intestino troppo lungo e dei denti troppo fragili, che ci costringono, a differenza di ogni carnivoro naturale, a cuocere la carne per renderla digeribile. Ma poche cose sono più innaturali dell’immersione, come dimostra il fatto che, per immergersi, è necessario imparare a compensare, una cosa che il nostro corpo non riesce a fare spontaneamente. La compensazione, in condizioni di forte pressione esterna, serve a salvaguardare l’integrità dell’orecchio medio, che – diversamente da trachea, laringe e seni paranasali – non è elastico e rischia pertanto di implodere. A me la compensazione è risultata subito facile, mentre la mia ex, che pure eccelleva in qualsiasi altra cosa, ha avuto problemi fin dall’inizio.

Eppure due mesi dopo la rottura ci siamo ritrovati a Ustica per fare immersione, insieme a suo padre, la sua futura seconda moglie, il secondogenito e la sua fidanzata. Le prime volte ci siamo limitati a cinque metri di profondità, ma già lì, nonostante in piscina avesse superato le sue difficoltà, la mia ex faticava a compensare, perché quando fai immersione in mare, diversamente che in una piscina, devi compensare costantemente, ogni 30 secondi sei salito o sceso di un metro, e a ogni livello di profondità la pressione cambia, e quindi non basta saper compensare, ma bisogna anche monitorare il gav e adattarsi costantemente al nuovo livello, e la mia ex, per qualche motivo, non riusciva a coordinare queste attività: premeva il naso, gonfiava le guance e aggrottava la fronte, tentando di mantenere la calma nonostante soffrisse in modo evidente, perché sott’acqua la pressione può diventare un punteruolo nel cervello e quando non si riesce a compensare si prova un dolore non tanto acuto quanto spaventoso, dal momento che minaccia l’implosione del timpano.

Nel frattempo la futura moglie del mio ex suocero non faceva altro che indicare, indicava un pesce, indicava un’attinia, una due tre volte, anche perché sott’acqua non è che puoi fare molto altro, puoi avanzare con una leggera flessione delle pinne, e puntare qualcosa, col dito, una due o tre volte, ma niente di più, perché non è etico interagire con il fondale, ma soprattutto perché un’eccessiva attività motoria accelera il consumo dell’ossigeno e aumenta il rischio di barotraumi. E allora mio suocero si è messo a indicare pure lui le attinie, una, due, tre volte, non perché gliene fottesse niente delle attinie, ma perché non sopportava di vedere sua figlia che faticava a compensare, una cosa che riuscivo a fare persino io, e probabilmente a quel punto preferiva puntare le attinie mentre la figlia gli moriva alle spalle. D’altronde odiava un po’ anche lei, per il solo fatto che stava con me. Trovava inconcepibile che sua figlia, futuro medico come lui, frequentasse un disoccupato. All’inizio si era dimostrato conciliante, mi aveva concesso qualche ma in seguito non ha mai sprecato occasione di sottolineare il mio ruolo debole all’interno della coppia. Negli ultimi mesi, poi, non aveva più nascosto la sua insofferenza, in modi a volte minacciosi: arrivati a quel punto non potevo escludere che ci avesse chiesto di organizzare quella vacanza con l’unico scopo di eliminarmi. E quel giorno lì, sott’acqua, il fatto che fossimo tutti più lenti di lui, questo fatto cominciò ad angosciarmi. Così, per tenermelo buono, quando la mia ex è finalmente riuscita a compensare, e ci ha raggiunti, l’ho presa per mano e l’ho accompagnata a rasentare il fondale, puntando le attinie con il dito, una, due, tre volte, e cercando lo sguardo di approvazione di mio suocero. Lui ha annuito, e l’ultimo quarto d’ora è filato liscio, e lui ci ha persino scattato una foto. Poi, quando ormai mancava poco all’appuntamento nella pianura con l’istruttore e l’officiante, io mi sono fatto cogliere dalla spavalderia, ho preso la mia ex per le mani e l’ho invitata a simulare alcuni passi di rock’n’roll sospeso nell’acqua. Lei mi ha guardato terrorizzata, eppure mi ha assecondato, e ha fatto uno o due movimenti, ma effettuata la giravolta si è sentita male, e ha ricominciato a compensare freneticamente, con un’espressione dolorante. Mio suocero mi ha fissato con disprezzo, ma poi la mia ex, pallidissima, si è ripresa, mi ha fatto cenno di non farlo mai più e si è messa a seguire gli altri verso la pianura.

È stato a quel punto che sono uscito dalle cose. Ero l’ultimo, li ho guardati mentre si allontanavano, senza più girarsi a cercarmi, e allora ho smesso di nuotare, ho respirato profondamente e ho iniziato a scendere. Ormai sapevo come fare, volevo farlo per l’ultima volta, prima della cerimonia. L’ossigeno l’avevo, la tecnica pure, volevo stare un attimo da solo, esplorare quel pianeta silenzioso, senza indicare pesci o attinie, senza compiacere nessuno. Mi sono voltato per l’ultima volta e non li ho più visti, probabilmente avevano già raggiunto la pianura. Ho controllato il gav, ed ero a dodici metri di profondità, solo, sospeso su una verde collina sottomarina, con le braccia conserte e le gambe attraversate da una corrente gelida: sotto di me il buio, un baratro nero che inghiottiva il resto della collina e le attinie e i coralli e i banchi di orate e le infinite altre cose del mare. Ho continuato a scendere. Prima di trovarmi a venti metri di profondità, con tre tonnellate di acqua sulla testa, non avevo mai riflettuto sul fatto che il rubinetto dell’ossigeno si trova all’apice della bombola, e che se qualcuno avesse deciso di venirmi dietro e di chiuderlo, considerati i legacci del gav e la mia lentezza, non avrei mai fatto in tempo a riaprirlo. Ma d’altronde, perché avrei dovuto? L’immersione è un preludio della morte. Sott’acqua siamo tutti pallidi e gonfi come cadaveri, lenti e vulnerabili. E chiunque sia stato in punto di morte sa bene che, tra tutti i pensieri angoscianti, s’insinua sempre la serpe del sollievo. A quel punto ho sganciato la cintura con le zavorre e l’ho osservata affondare nel nulla. L’abbandono della zavorra è l’ultimo dei modi per alleggerirsi e risalire, eppure io non sono risalito di un centimetro. Non sapevo più cosa fare, non ricordavo più le procedure, avevo perso il comando del gav e mi sentivo anestetizzato. Ricordo di aver pensato che forse erano i sintomi di un barotrauma, e che non mi sono preoccupato.

Poi, laddove la collina sottomarina emergeva ancora dal gorgo nero, sbiancata dagli ultimi raggi del sole, è comparsa un’ombra, un’ombra alle mie spalle, piuttosto larga, sempre più scura. Con le ultime energie sono riuscito a voltarmi e l’ho visto, l’ho guardato negli occhi mentre allungava la mano verso la mia bombola, all’altezza del rubinetto, e allora gli ho sorriso, gli ho sorriso in ogni caso, che stesse per salvarmi o per uccidermi era irrilevante, gli ho sorriso perché era anche lui un essere umano, e in quanto tale innocente, come qualsiasi essere umano, che a conti fatti è soltanto il prodotto di un contesto socioculturale, e che non ha in sé alcuna colpa, è un’anima intrappolata in un corpo magari orrendo o malvagio, ma è comunque profondamente, intrinsecamente buono, e pertanto ho sorriso al mio ex suocero, a venti metri di profondità, sott’acqua, e dopo non ricordo più niente, ma d’altronde non c’è più nulla da raccontare, se sono qui a raccontarlo.


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