La poesia messicana contemporanea, una delle più ricche e svariate in tutto l’ambito ispanico, si è caratterizzata fin dalla formazione dei movimenti avanguardistici del Novecento per la presenza di voci segnate da una profonda vena filosofica. E in questo discorso riflessivo e analitico, sempre a partire da una lucida analisi dell’esistenza, predomina la riflessione sulla morte: dai capolavori Nostalgia de la muerte (1938) di Xavier Villaurrutia (1903-1950) e Muerte sin fin (1939) di José Gorostiza (1901-1973) all’opera tragicamente interrotta di José Carlos Becerra (1936-1970), morto in un incidente a Brindisi, alla vasta produzione di Octavio Paz (1914-1998), alle opere vicine all’ermetismo di Alí Chumacero (1918-2010) o di José Emilio Pacheco (1939-2014).
Nell’avvicinarci alla poesia più recente ancora è possibile trovare delle voci che contestano la leggerezza o il gusto per la trasparenza o la lingua volutamente colloquiale, come avviene in altre regioni del continente americano, e ci si imbatte in forme liriche che sfidano la logica e la coscienza, per stupirci con un linguaggio provocatorio, che prima sconcerta e solo in un secondo momento si rivela illuminante; così avviene, per esempio, quando si legge a Elsa Cross (1946), o a Carmen Boullosa (1954).
In questo contesto di altissima e complessa lirica di tendenza filosofica, inevitabilmente intrecciata con un linguaggio sperimentale, troviamo l’opera unica e rara di José Ángel Leyva (Durango, 1958).
Nella sua inevitabile, inaspettata e invadente filosofia, Leyva insiste senza scrupoli nella percezione disarmante dell’unione degli opposti: così il cuore, che sorpreso di sé stesso resta muto, resta anche sordo, come se lo stupore che toglie la parola – la voce – non possa non togliere insieme anche l’ascolto della voce. Gli opposti si uniscono nella sua visione del mondo, perché in fondo tutti i concetti – contrapposti e associati – rimandano ai due assoluti che reggono la nostra conoscenza e la nostra esistenza: la vita e la morte. Il mistero assoluto che essi incarnano è inoltre un paradosso, come la contrapposizione tra astratto e concreto, tra dubbio e certezza: ciò che rimane intatto è l’enigma, e cuore e ragione, logica e sentimento non possono che congiungersi – paradossalmente ma anche inevitabilmente – nell’accettazione ultima del mistero.
Nella raccolta che Leyva ha intitolato – seguendo il suo gusto di provocazione – Tres cuartas partes (cioè Tre quarti, o forse, meglio, Tre quarti dell’insieme), la poesia omonima comunica senz’altro il massimo mistero. E il poeta spagnolo Antonio Gamoneda, in armonia con le formule provocatorie dell’autore, invita il lettore con un’introduzione che chiama Frontispicio (Frontespizio), che in realtà è un’altra poesia scritta a partire da parole o sintagmi presi dal componimento Tres cuartas partes, nella quale ci rivela senza mezzi termini che dietro l’oscurità delle palpebre c’è la purezza insanguinata / dei tre quarti liquidi dell’uomo. Gamoneda ha capito il messaggio fondamentale dell’autore e vuole aprire il libro con questa certezza, con la quale inoltre dovrebbe incoraggiare il lettore: ha capito che siamo persi in un cosmo dove «l’assenza di dio», tuttavia, non ci sconfigge, anzi «scaccia la paura», perché siamo soli, ma la nostra solitudine conferma anche la nostra purezza.
La poesia di José Ángel Leyva è senz’altro spietata, cruda, lacerante. Eppure, in mezzo a queste dolorose conferme, a questo saperci – heideggerianamente – gettati nel mondo, emerge una luce («che viaggia nascosta nel cuscino»), che si solleva dalle fosse della terra, che deriva dalla morte stessa e quindi – comunque e sempre – ci illumina.
La poesia di Leyva è una sfida, non c’è dubbio. E percorrendo i suoi versi il lettore non può che assumere i propri limiti, l’essere non più che un’isola, ma con nostalgia del mare. E dato che attraverso queste letture impariamo a fare associazioni scandalose, come assimilare geografia e anatomia, allora acquistiamo l’imprevedibile – la scandalosa – certezza che l’isola sono io e il mare che mi manca è vicino a me e raggiungibile. Per Leyva, come aveva insegnato Quevedo, nascere è cominciare a morire, o detto con le sue parole «vivere è decadere fino a estinguersi». Capita che accettata la nostra condizione esistenziale, percepita e assunta la tenebra finale, resta soltanto la luce. E la poesia è proprio questa luce, capace di attraversare l’occhio chiuso e il cuscino della pigrizia. E noi siamo gli stupiti lettori che mediante paradossi, contrasti e provocazioni, accettando il linguaggio delle sfide, arriviamo per ultimo alla godibile pace dell’isola in mezzo al mare.
Le poesie che presentiamo qui appartengono al libro Tres cuartas partes, pubblicato da Mantis Editores (Messico, 2012), e costituiscono un anticipo del libro completo che verrà prossimamente pubblicato nella collana di poesia internazionale di Fili d’Aquilone.
DIECI POESIE DI JOSÉ ÁNGEL LEYVA da Tre quarti [Tres cuartas partes] Mantis Editores, Messico 2012
ASOMBRO
El corazón se sorprende
a veces de sus ruidos
y se queda mudo
completamente sordo
STUPORE
Il cuore si stupisce
talvolta dei suoi rumori
e ci resta muto
totalmente sordo
GEOMETRÍA DEL ENIGMA
Hiende la carne suavísima del óleo
Espolvorea la duda sobre un amplio horizonte de certezas
y signos enterrados
Escarba en su nervio visual hasta sentir
el eco de una piedra lejana que resbala del corazón a la cabeza
Hay algo que decir y callar al mismo tiempo
GEOMETRIA DELL’ENIGMA
Fende la carne così soave della tela
Spolvera il dubbio sopra un ampio orizzonte di certezze
e segni sotterrati
Fruga nel suo nervo ottico fino a sentire
l’eco di una pietra lontana che scivola dal cuore alla testa
C’è qualcosa da dire e da tacere al tempo stesso
TRES CUARTAS PARTES
Un puñado de tierra no es un hombre
Tres cuartas partes hacen del sueño la sustancia
el soplo cerebral de un fuego que se olvida
el temblor del ojo ante la carne
Fugaz imprime la gravedad del día
En pausas respira noches cargadas de rocío
iluminadas por antorchas y lámparas de ancestros
que pusieron a secar preguntas y piel tras el naufragio
No se seca —es verdad— la claridad de la experiencia
No hay certeza de ser ni de encontrar respuestas
La incertidumbre abre las válvulas del hambre
del dolor la comezón la tempestad el alba
Cuántas veces la mano suelta una señal de bienvenida y duelo
incapaz de sepultar o de esparcir el polvo de un corazón a otro
de detener las letras que se fugan del cuaderno de notas en la mesa
De la ignorancia a la pregunta los párpados se abren y se cierran
perplejos a esa luz que viaja oculta por la almohada
visible en lágrimas sin sal pendientes de la tierra
No son escombros de ayer sino las ruinas
de un porvenir hecho de olvido
una lengua desierta de confianza y aire
No prescribe la justicia si hay mañana
Se pueden ver con nitidez las plantas
de imágenes de un yo seguido de los otros
La multitud del sur buscando un norte
sin nada qué vender ni recibir a cambio
tan solo la raíz que pone vertical a la memoria
Sobra tiempo y sed para esperar la muerte
bajo el árbol sin hojas que da sombra
La ausencia de dios ahuyenta el miedo
El padre y el hijo activan la sinapsis
que deja ver la mutua soledad bajo los puentes
las tres cuartas partes líquidas del hombre
A Juan Gelman
TRE QUARTI
Un pugno di terra non è un uomo
Tre quarti fanno del sogno la sostanza
il soffio cerebrale di un fuoco che si scorda
il tremore dell’occhio davanti alla carne
Fugace incide la gravità del giorno
A intervalli respira notti cariche di rugiada
illuminate da torce e lampade di antenati
che misero ad asciugare domande e pelle dopo il naufragio
Non si asciuga – è vero – la limpidezza dell’esperienza
Non v’è certezza d’essere né di trovare risposte
Il dubbio apre le valvole della fame
del dolore il prurito la tempesta l’alba
Quante volte la mano lancia un segno di benvenuto e di dolore
incapace di seppellire o di spargere la polvere da un cuore all’altro
di fermare le lettere che fuggono dal quaderno di appunti sul tavolo
Dall’ignoranza alla domanda le palpebre si aprono e si chiudono
perplesse dinnanzi a quella luce che viaggia nascosta dal cuscino
visibile in lacrime senza sale e sospese sulla terra
Non sono rottami di ieri bensì le rovine
di un futuro fatto di oblio
una lingua disabitata dalla fiducia e dall’aria
Non lo stabilisce la giustizia se ci sarà un domani
Nitide si possono vedere le piante
immagini di un io seguito dagli altri
La moltitudine del sud che cerca un nord
senza niente da vendere né ricevere in cambio
soltanto la radice che mette in verticale la memoria
C’è tanto tempo e sete per aspettare la morte
sotto l’albero senza foglie che dà ombra
L’assenza di dio scaccia la paura
Il padre e il figlio attivano la sinapsi
che lascia vedere la mutua solitudine sotto i ponti
i tre quarti liquidi dell’uomo
A Juan Gelman
TRÉMULA
La palabra miedo es temblorosa
Será porque nació sin armas
No tiene dentadura ni fuerzas en los miembros
Carece de sombra y pelos que la envuelvan
Es una idea imprecisa en el vientre en la garganta
Aprieta los músculos y gime sin saber la causa
Vomita todo lo que aún no come
Se vacía antes de ser
En esa palabra agazapada anida el aire
la mirada interrogante que asoma la nariz
y huele el paso de luz en la floresta
OSCILLANTE
La parola paura è oscillante
Sarà perché è nata senz’armi
Non ha dentatura né forza nelle membra
È priva d’ombra e di peli che l’avvolgano
È un’idea imprecisa nel ventre nella gola
Stringe i muscoli e geme senza sapere la causa
Vomita tutto quello che ancora non ha mangiato
Si svuota prima di essere
In questa parola rannicchiata si annida l’aria
lo sguardo interrogante che tira fuori il naso
e annusa il passaggio della luce nella foresta
LA POESÍA
Pasaban los árboles veloces de mi infancia
El autobús me arrancaba de los ojos
uno a uno los pinos y las nubes
Devoraba el asfalto tembloroso de la sierra
Yo dije la palabra inútil
y vi la mirada de la muerte
Su tieso semblante y la rigidez
del aire que no pesa y no camina
¿De qué están sembrados los sepulcros
que no echan hacia fuera gusanos sino flores?
Toc toc toc
toc toc toc
Sonó mi cráneo o calavera hueca
Alguien llamaba desde el bosque
Pasaban las sombras de los árboles
y repetí con balbuceos la palabra aliento
Un velo en el cristal de la ventana
la colocó al revés y en forma de conjuro
Entonces las fosas de la tierra
dieron a luz mi propia lengua
LA POESIA
Passavano gli alberi veloci della mia infanzia
L’autobus mi strappava dagli occhi
uno per uno i pini e le nuvole
Divorava il tremulo asfalto del monte
Io dissi la parola inutile
e vidi lo sguardo della morte
Le sue sembianze tese e la rigidità
dell’aria che non pesa e non cammina
Di cosa sono seminati i sepolcri
che non buttano fuori vermi ma fiori?
Toc toc toc
toc toc toc
Suonò il mio cranio o teschio vuoto
Qualcuno chiamava dal bosco
Passavano le ombre degli alberi
e ho ripetuto balbuziente la parola alito
Una garza sul vetro della finestra
la mise rovesciata e in forma di scongiuro
Allora le fosse della terra
partorirono la mia propria lingua
FÓSILES
¿En qué momento la piedra se abrazó
a la forma del oído y no del odio?
¿Por qué la luz se le apagó a la fuente
en el segundo del desorden inicial
cuando el voraz reptil no pudo concluir
la destrucción del caracol?
¿Cómo pasó el ladrido de la muerte
sin deformar la perfección inmóvil
del espasmo brutal de la inconsciencia?
Algo pasó sobre los cuerpos semejantes
a la nada
El pez más veloz nunca dudó
ni preguntó por qué lo era
Nunca tampoco se detuvo a interrogar a dónde iba
Simplemente paró en la estación
calcado para siempre con la boca abierta
Quizás descubrió la eternidad de la apariencia
Tal vez su imagen perfecta en los espejos del vacío
FOSSILI
In che momento la pietra abbracciò
la forma dell’orecchio e non dell’odio?
Perché si spense la luce della fonte
nel secondo del disordine iniziale
quando il vorace rettile non riuscì a finire
la distruzione della lumaca?
Come passò il latrato della morte
senza deformare l’immobile perfezione
dello spasmo brutale dell’inconscio?
Qualcosa accadde sui corpi simili
al nulla
Il pesce più veloce non dubitò mai
né domandò perché fosse così
Nemmeno si trattenne a chiedere dove andava
Semplicemente si fermò alla stazione
calcato per sempre con la bocca aperta
Forse scoprì l’eternità della parvenza
Magari la sua immagine perfetta negli specchi del vuoto
AMORES
La fragua del tiempo aviva los rescoldos
del sueño que trajo maderas encendidas
Desnudos los dos en medio de una plaza
Olemos cada flor en la fosa de los hijos muertos
“No aprendieron hablar
solo dejaron su rumor de espera
En sus boquitas secas el amor es otra lengua”
Me dices con el vientre pegado al espinazo
A ti y a mí nos unen las historias
Respondo y paso la mano por tus cejas
Es hora de apagar las luces
el sol entró de lleno al cuarto
AMORI
La fucina del tempo ravviva le braci
del sogno che portò legni incendiati
Nudi noi due in mezzo ad una piazza
Annusiamo ogni fiore nella fossa dei figli morti
“Non impararono a parlare
lasciarono soltanto il loro rumore di attesa
Nelle loro piccole bocche rinsecchite l’amore è un’altra lingua”
Mi dici col ventre incollato alla spina dorsale
Io e te siamo uniti dalle storie
Rispondo e passo la mano sulle tue sopracciglia
È ora di spegnere le luci
il sole è entrato in pieno nella stanza
ISLA
Provengo de una isla interior
rodeada de nubes ardientes por la prisa
No tienen tiempo de llover aunque se caigan
o deshagan heridas por los cactus
Sus aguas mansas sugieren dunas móviles
Ruidos de un antes y un después de la emergencia
Esta ínsula sabe navegar a la intemperie
Me acompaña de noche al mediodía ve el ocaso
Habla conmigo al borde del silencio donde pierde
el rumbo y el horario de aves expertas en controlar la sed
en llevar y traer cristales de sal entre las patas
gotitas de agua que siembran en el sueño a picotazos
Esta isla interior no escapa al satélite al radar
a los curiosos que meten la nariz entre la niebla
para observar sus puertos sus montañas sus áridas costumbres
Añoranza de un mar que aprieta el viento
Vaivén de naves en mi ser aislado a la deriva
Arquetipos que vinieron a enterrar lejanas manos
como tesoros imposibles de hallar si se les busca
Están allí con sus señales de otras islas
que llegan y se van como los barcos
ISOLA
Provengo da un’isola interna
circondata da nuvole ardenti per la fretta
Non hanno tempo di far piovere anche se cadono
o si rompono ferite dai cactus
Le sue miti acque suggeriscono dune mobili
Rumori di un prima e di un dopo l’emergenza
Quest’isola sa navigare nelle intemperie
Mi accompagna di notte a mezzogiorno vede il tramonto
Parla con me sull’orlo del silenzio dove perde
la rotta e l’orario di uccelli esperti nel controllare la sete
nel prendere e portare grani di sale tra le zampe
piccole gocce di acqua che seminano nel sogno con il becco
Quest’isola interna non sfugge al satellite al radar
ai curiosi che infilano il naso tra la nebbia
per vedere i suoi porti le sue alture le sue aride abitudini
Nostalgia di un mare che stringe il vento
Viavai di navi nel mio restare isolato alla deriva
Archetipi che vennero a seppellire mani lontane
come tesori impossibili da trovare se li si cerca
Stanno lì coi loro segni di altre isole
che arrivano e se ne vanno come le barche
FIN DEL MUNDO
Muere la muerte en el sopor de la teoría
Caen los frutos anunciados de la ciencia
Ruedan por tierra sin árbol de la vida
Huele mal la rama plagada de preguntas
También se quiebra y precipita al suelo
junto al gusano fértil en cambio permanente
No ensombrece al sol ni compite con la fronda
El tiempo pudre la forma de raíz en otros pasos
No hay religión ni fe en las larvas que devoran
Vivir es caducar hasta extinguirse
FINE DEL MONDO
Muore la morte nella sonnolenza della teoria
Cadono i frutti annunciati dalla scienza
Rotolano per terra senza albero della vita
Manda cattivo odore il ramo piagato di domande
E pure si spezza e precipita al suolo
insieme al fertile verme che invece resiste
Non oscura il sole né compete con il fogliame
Il tempo guasta la forma della radice in altri passi
Non c’è religione né fede nelle larve che divorano
Vivere è decadere fino a estinguersi
PROYECTO
Erguida en sus dos patas la razón
devora uñas excrementos sangre
Caiga quien caiga se levanta
entre la duda matinal y el miedo
Desciende de un punto de luz
observador de estrellas
Roca y vísceras humeantes
olor en brama
cansancio de tierra en el olfato
en la garra y en las fauces
Largas cadenas de terror
corren nadan flotan vuelan piensan
PROGETTO
Eretta sulle sue due zampe la ragione
divora unghie escrementi sangue
E accada quel che accada si solleva
tra il dubbio mattutino e la paura
Discende da un punto di luce
osservatore di stelle
Roccia e viscere fumanti
aroma in calore
stanchezza di terra nell’olfatto
nell’artiglio e nelle fauci
Lunghe catene di terrore
corrono nuotano fluttuano volano pensano
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Traduzione dallo spagnolo di Martha L. Canfield
José Ángel Leyva è nato a Durango (Messico) nel 1958 ma da tempo vive nella capitale messicana. Poeta, narratore, giornalista, editore e promotore culturale. Dirige la casa editrice e la rivista letteraria La Otra. Ha pubblicato più di venti libri di poesia, narrativa, divulgazione scientifica e di saggistica.
Tra gli ultimi libri si segnalano: Catulo en el Destierro (Messico 1993 e 2006; Francia 2007; Colombia 2012); Entresueños (1996); El Espinazo del Diablo (1998); Duranguraños (2007); Aguja (Spagna 2009; Italia 2010; Messico-Quebec 2011); Habitantos (Colombia 2010); Cristales Sólidos (Colombia 2010); Carne de imagen (antologia, Venezuela 2011); Tres cuartas partes (Messico 2012); Destiempo (antología personale, Messico 2012); En el doblez del verbo (Colombia 2013); Lectura y futuro (Messico 2015) e Guillermo Ceniceros. Laboratorio de Formas (Messico 2018).
Suoi libri sono stati tradotti e pubblicati all’estero.
canfieldmartha@gmail.com
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