FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 48
gennaio/aprile 2018

Piccolo & Grande

 

IL GIOCO DELLE STORIE INVERSE

di Patrizia Passarelli



Mi chiamo Michol, ho 24 anni e lavoro in un’agenzia che organizza concerti. Quando dobbiamo preparare un festival ricevo email e richieste tra le più strampalate dai “nostri” musicisti che suonano musica contemporanea. Ogni tanto, prima dei concerti, li porto in giro per la città, a volte li accompagno alle loro residenze. Cavolo ci sono dei posti fighissimi a Roma che uno neanche lo sospetta. Quando li accompagni sembrano tutti dei tipi serissimi e mi fa strano pensare che quello lì, proprio lui, l’altro ieri mi ha chiesto, per il suo concerto (parole testuali solo che in inglese) “Pentola in forma di tronco di cono, alluminio, diametro 35. Frusta per dolci in acciaio con manico legno. Tubo in plastica flessibile diametro mm 15”. Faccio fatica a abituarmi a queste richieste e magari sarà insolito per una poco più che ventenne, ma a me Mozart piace tanto! Mi piacciono le cose “di una volta” e perciò mi piace pure un sacco stare con mio nonno, che mi ha insegnato ad amarle. Lui si chiama Giandomenico tuttoattaccato e certe volte mi sembra più attivo e energico di me. Infondo ha 71 anni che non sono poi tantissimi ma certo neanche pochi. Ho passato tanto tempo con lui quando ero piccola e mi diverto ancora a uscirci perché sa un sacco di cose e quando le racconta mi sembra di imparare senza studiare. Nonno è di Orvieto e parla buffo perché certe volte sembra un nobile d’altri tampi ma con l’accento un po’ burino. Giovedì scorso sono andata da lui, era in vena di chiacchiere e mi ha proposto di fare “il gioco delle storie inverse”. “E che roba è?” gli ho chiesto. E lui “È che io ti racconto una storia da ragazzi e tu una da nonni”. “Boh, nonno ma io non sono capace!”. “Dai pensaci e intanto comincio io.” E cominciò: ”Parola d'ordine: OLTECO. Questo è stato il mio primo impatto con il computer, anzi con quel che conteneva i prodromi di un computer o forse – se non ricordo male – una macchina da scrivere col video anzi un telex elettronico.” Dovetti interromperlo subito subito: “Nonno, fermati. Che roba è un telex e che vuol dire prodromi?” “Hai ragione, scusa. Prodromo è quello che viene prima, qualcosa come un precursore. Il telex invece era una macchina che serviva per comunicare a distanza con un’altra persona; come fate voi ora quando “chattate”. Prima di tutto si componeva, con il telefono, il numero dell’altra persona. Quando si prendeva la linea, ci si poteva scrivere usando una tastiera come si fa oggi, ma quello che scrivevi e ricevevi, appariva su un foglio di carta che era dentro la macchina. Questo, pensa, era già una macchina più moderna perché prima, quando si scriveva, usciva un nastro telegrafico tutto bucherellato che si doveva poi inserire in un “lettore”. Se ci penso sembra l’ottocento anche a me. Ma tu riesci a immaginarla?” mi chiese. “Ci provo e mi viene in mente l’immagine di un baule con una tastiera e un telefono a disco, come quello che hai in salotto”. “Brava, un po’ ci somiglia. Fatto sta che per richiedere la linea o collegarsi, si doveva prima inserire una parola d’ordine. Come fate voi con la password. Noi non eravamo abituati alle password e a me sembrava di entrare a far parte di una setta segreta, come fosse una una vera iniziazione. E quella password lì era OLTECO, così brutta da diventare indimenticabile, non ti pare? E infatti ancora la ricordo. Era impenetrabile, eppure non conteneva alcun mistero, semplicemente una parola vuota. Provai a scomporla, ne facevo anagrammi ma tutti risultavano banali. L'unico ad apparirmi divertente era ECOLOT ma solo perché, ripetendolo ad alta voce, mi faceva venire alla mente Camelot e i cavalieri della Tavola Rotonda. (Mentre lui continuava a parlare, io mi ripetevo nella mente ECOLOT, ECOLOT, ECOLOT…). Ricordi le storie di re Artù che ti raccontavo? Per il resto, nulla. Eppure – pensavo tra me – doveva esserci qualche riferimento. Chi ha stabilito che quella doveva essere la chiave d'ingresso, avrà pur pensato a qualcosa o a qualcuno prima di decidere che il nome doveva essere questo. Allora immaginai il nome di una divinità; si, una divinità Azteca o Maya per esempio, ma mi sentii subito colpevole per averle affibbiato una sorte così ingloriosa. Far finire un dio chiuso in una scatola di circuiti, anche solo per un attimo, mi parve una crudeltà. Col tempo mi rassegnai a quella procedura. Mi resi conto però che un po’ alla volta, eravamo noi a diventare un po’ vittime di quella scatola elettronica, altro che la divinità Maya. Mi spiego: come si poteva non riconoscere al computer gli innegabili vantaggi che presentava, le noie risparmiate, i tempi dimezzati? Noi eravamo abituati a scrivere con la penna, poi con la macchina da scrivere. Quando si sbagliava, si doveva riscrivere tutto. Eppoi – pensa – per la prima volta si aveva la possibilità di venire in contatto con soggetti sconosciuti, di collegarsi a mondi lontani. Tutti ci sentivamo ubriachi di novità. WEB: tu che sai l’inglese lo capisci meglio di me, no? Il computer conteneva una vera ragnatela planetare dotata di snodi di comunicazione transcontinentali, promesse di sogni ad occhi aperti. Ma tutto questo, proprio questo era quel che creava “la dipendenza”. Mio nonno disse quella parola allungando un po’ l’ultima lettera di ciascuna sillaba così da dargli insieme più importanza e profondità. “All’inizio avevamo tutti quell’atteggiamento distaccato di chi considerava il computer uno strumento a propria disposizione ma poi finivamo con l'esserne catturati, assorbiti come l’inchiostro dalla carta, come le mosche appiccicati a quella stessa ragnatela. Non siete un po’ così voialtri oggi? Sempre attacati al telefonino?”.

Se fossi stato un cane potrei dire che in quel momento lo guardai con le orecchie abbassate: “Eh nonno hai ragione. Io pure lo dico ma spesso questo coso t’acchiappa proprio.” Mentre lo dicevo, provai con un gesto furtivo a nascondere il telefono in tasca e lui fece finta di non vedermi. Ma lo so che fece solo finta.

Poi continuò: “Così, per entrare nel sistema bisognava usare la password, bisognava identificarsi – o, dico io, mascherarsi – con un codice. Usavamo programmi dai nomi impronunciabili e sentivo dire che si seminavano virus, si attuavano simulazioni, si viveva virtualmente, tutte cose insomma che suscitavano in me sensazioni niente affatto rassicuranti. Per conto mio, avevo l'impressione che ci fosse ancora così tanto da esplorare in noi che questa entrata nel mondo virtuale mi incuriosiva poco. Lo sai, gioia mia, io sono lento, riflessivo, troppo in contrasto con quei casini tecnologici: provavo a trovarci qualcosa per renderlo più vicino a me, immaginavo chessò di scrivere un articolo intitolato “La ricerca del tempo perduto al computer”. Impossibile: qui di tempo non se ne perdeva anzi si “ottimizzava”, si andava sempre più veloci; bisognava dotarsi di memorie sempre più espanse ed espandibili, memorie esterne addirittura, come se dovessimo cancellare le impronte della nostra vita passata, renderci eterni giovani e confinare i ricordi altrove perché quello che era stato o non serviva più o tutt’al più si poteva relegare altrove. Tutti a correre per inseguire risultati che subito si trasformavano in dati, per altri risultati che ben presto, e comunque sempre prima che io riuscissi a capire, erano già superati. Insomma, la velocità divorava tutto. O forse ero già troppo vecchio per stare al passo. Olteco non ha avuto grande presa su di me o meglio, sono rimasto al margine di quest’universo di adepti – anzi “follower” come dite voi – che si intendevano con un linguaggio… Parlavano di cliccare, formattare, editare, resettare, apgradare, quittare... loro. Certe volte facevo perfino fatica a pronuciarle quelle parole: mouse, bit, byte, ram, chip, mega, giga. Insomma, forse ora siete abituati, ma a te non sembrano sputacchi di parole più che parole? Si è sul punto di dire qualcosa e tutto si smorza, finisce lì; ram, e poi? Ramingo, ramarro, Ramsete, rampogna... no, ram e basta! Eppoi… Windows: si aprivano finestre su finestre senza mai un paesaggio, senza mai una corrente d’aria; si creavano menù per non soddisfare alcun palato; si navigava senza alcun vento, senza stelle a cui chiedere la direzione; si usavano reti che nessuna mano sapiente aveva annodato e che nessun pescatore, neanche il più invecchiato dal sole, saprebbe tirare. Eppoi ascolta, tu lo sai che io sono un vecchio ribelle. Tutti quei comandi mi danno l’orticaria: copia, muovi, archivia, elimina, inserisci, allinea, carica, associa, ordina, SALVA: lui, il computer, addirittura ci salva, con un solo tasto ci mette al sicuro. E noi, li come ebeti, finalmente ci sembra di essere al sicuro, come per dimenticare quanta fatica ci tocca patire per salvarci da quello ci capita ogni giorno e restiamo grati in eterno al nostro ‘ordinatore’ come lo chiamano i francesi.”

“Davvero nonno? E perché lo chiamano così?”.

“Perché mette ordine, o forse perché da ordini ma soprattutto perché difendono la loro lingua e non gli piace usare troppo le parole straniere. È il Napoleone che c’è in loro che si ribella! Un po’ come me che ti parlo di computer ma sono rimasto antico. Che dici tu? Era abbastanza moderna questa storia?”

“Beh, nonno tu sei romantico e io… il computer così non l’avevo mai pensato.”

“Ora tocca a te. Cosa t’è venuto in mente?”

“Beh mica tanto. La cosa più da “nonna” che so fare è la marmellata.”

“Brava. Mi sembra perfetta. Dai, raccontami la tua storia.”

“Allora: ero al lavoro, nell’ora di intervallo del pranzo. C’era un bel sole tiepido, un piccolo regalo dell’autunno romano. Sai uno di quei giorni di novembre un po’ freddi ma in cui mangiare all'aperto è ancora bello. Stavamo seduti al tavolino, un po’ zitti, un po’ sornioni, tutti col viso rivolto al sole. “Mi sono data alle marmellate” – dissi d’un tratto, così, per avviare una conversazione.

“Si vede che cerchi un fidanzato” ribattè uno, senza scomporsi, con gli occhi chiusi verso il sole. “Invidioso!” pensai “II fidazanto ce l’ho già e le marmellate non gli piacciono!” risposi piccata, ma lui non si arrese: “Si vede che cerchi un altro fidanzato!”. Non potei fare a meno di ridere e, cambiando discorso, mi chiesi se ci fosse qualcosa di vero in quell’umorismo, un po’ caustico, ti pare?” Anche il nonno rise “Beh, ma è sempre lo stesso Pietro, no?”

“Certo nonno. Non penserai anche tu che faccio le marmellate per prendere gli uomini per la gola?”

“No, no figurati. Dai continua”.

“Non so se sei d’accordo ma io credo che in fondo tutti noi siamo un po’ quello che mangiamo. Quando siamo curiosi del cibo, assaggiamo, proviamo, cuciniamo, in qualche modo c’entra una parte di noi. Così mi sembrò che fare le marmellate fosse un’esperienza metodica e quasi ritualistica, che poteva compensare l’incostanza che mi rendeva, in quel periodo, tanto lunatica. Le marmellate dunque entrarono a far parte delle mie consuetudini, all’inizio un po’ per caso: a settembre un’amica mi aveva regalato un cesto pieno pieno di fichi; troppi, persino per la mia golosità. Sai i fichi quelli piccoli, dolci, morbidi e pieni del sole del Sud, quelli che appena li assaggi ti fanno pensare “eh… i sapori di una volta”. Farli rovinare non si poteva; d’altro canto, uno tira l’altro e quello che rimase dopo i miei assalti ingordi era una porzione ridicola per una marmellata e per tutto l’impegno che richiedeva. Iniziai, come al solito, a mugugnare tra me e me, a pensare che quello ne sarebbe venuto fuori non poteva neanche da lontano competere con l’idea, piena di abbondanza, dei vasi di marmellata come li faceva la nonna, messi in fila sullo scaffale ad invecchiare per far aggiustare il sapore e far diventare il gusto più “rotondo” come dice lei. Ma ormai la tentazione si era insinuata e l’esperimento andava fatto.

In quel periodo, nonno, tutto mi sembrava complicato.” Mi interruppe: “Veramente anche ora è così. Di ogni cosa dici sempre “È un casino, è un casino!” “Si, hai ragione ma allora era davvero un concentrato di casino: Pietro che andava e veniva, il lavoro peggio di Pietro, i soldi poi… tutto avvolto da un mare di nebbia. Mi sentivo in balia di tutto, vulnerabile, fragile, e se provavo a parlare con qualcuno, ancora peggio. Chi consigliava una cosa, chi l’esatto contrario! Per ogni scemenza piangevo come una fontana. Mi sentivo un disastro e così mi convinsi che la ricerca della marmellata perfetta poteva aiutare a trovare una “stabilità” (pronunciai imitando il nonno quando aveva detto “dipendenza”). Consultai qualche libro ma nessuno consegnava alla mia fantasia un’immagine soddisfacente di marmellata: “Togliere dal fuoco quando raggiunge la giusta consistenza” – qual era la “giusta consistenza?”. Oppure “Far bollire il composto per 30 minuti”: forse in quel caso si sarebbe ottenuta la consistenza della marmellata da supermercato? Ma io volevo la mia marmellata, una cosa ben diversa. Eppoi, possibile che servisse tutto quello zucchero?

II mio disordine interiore straripava, contagiava le ricette: non volevo accettare delle proporzioni così definite, delle misure tanto ben calcolate. Non mi sopportavo più, da qualche parte dovevo pur iniziare e in fin dei conti, mi dissi, le istruzioni per l’uso, gli elenchi per gli ingredienti, le etichette sui barattoli erano tutte cose impagabilmente rassicuranti. Alla fine, come te con Olteco, mi arresi al ricettario e, ti dirò, la marmellata di fichi venne mica male. Certo, tutto si ridusse a quella roba minuscola che avevo immaginato, ma tanto bastò a darmi fiducia, a spingermi con più entusiasmo verso una nuova alchimia. Piano piano iniziai a scegliere la frutta meno casualmente: solo frutta di stagione e, cosa solo qualche volta possibile, di provenienza “speciale”: le pere della campagna di zia Anna, le albicocche della mia amica, i limoni del week-end a Ischia.

I miei malesseri un po’ passarono, non so se grazie alle marmellate ma questo piccolo spazio distendeva il pensiero, diventava una specie di zona protetta. Mescolare lo zucchero con un po' di quell’ansia, aggiungere la cannella a qualche tristezza, a volte rendeva l’umore meno spigoloso; sembrava che nelle maglie di quel setaccio in cui passavo i semi delle arance rimanesse impigliato anche qualche brutto pensiero. Da quella prima marmellata di fichi è passato un po’ di tempo e ho imparato a capire che non era del tutto indispensabile seguire il ricettario per filo e per segno. In fondo non era solo per spirito di ribellione e di disordine interiore ma – anche – per praticità che, per esempio, passai dall’uso della pentola di coccio, tonda, calda e familiare, al più freddo acciaio che aveva in compenso il pregio di non fare attaccare la marmellata al fondo e quindi di lavarsi con più facilità.

Anche il mio rapporto con la frutta è migliorato. Lo sai che non ne ho mai mangiata in grandi quantità, tante volte mi hai rimproverata per questo e solo in estate mi sembra rinfrescante e dissetante. Ma, durante il resto dell’anno, la frutta non mi attraeva. Sai quando ti dicono di “calmare la fame” in un pomeriggio invernale mangiando una mela? Mi si aggranchiva lo stomaco solo all’idea! La mela mi dava una tale sensazione di freddo che preferivo tenermi la fame.

Ora invece quelle mele le immagino trasformate, profumate di limone, con un bel colore d’ambra. Finalmente hanno un aspetto caldo, invitante. In più mi sembra che un po’ dei miei timori restino lì, racchiusi nei barattoli come segreti, e si addolciscono con le ciliegie o inaspriscono con i limoni.

Tutti i miei pensieri, mentre rimesto col cucchiaio di legno anche loro sono lì, insieme allo zucchero, quel vetro li protegge e quasi me li rende visibili. Magari un giorno, in cambio di tante dolcezze, quel vetro mi regalerà un po' della sua trasparenza e della sua leggerezza; e forse allora in quei profumi maturi, tra quei sapori ritroverò i gesti, la fatica, le piccole noie, la soddisfazione e magari, in mezzo a qualche seme sfuggito al setaccio, qualcosa di me di cui ridere sopra. Che dici nonno? È possibile?”.

Il nonno mi mise un braccio attorno alle spalle e mi strinse forte “Non lo so con certezza, gioia mia, ma credo proprio che tu sia sulla buona strada. Per ora posso dirti che la tua storia ‘da nonna’ mi è piaciuta davvero.”

“Ah!” continuò “Una cosa, prima, ho dimenticato di dire: nel mio computer c’era, in fondo in fondo, una parolina piccola piccola, messa lì, per ultima, quasi per non farsi notare: USCITA. Ti va, se si esce insieme e si prova, ancora una volta, a salvarci da soli? Che ne dici?”.

“Si va bene, ma le nostre storie?”

“Continueremo un’altra volta”.


patrizia.passarelli@fastwebnet.it