FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 46
aprile/giugno 2017

D'acqua o di fuoco

 

LONTANANZE ED ALTRI RITORNI
Poema bianco di Pasquale Panella

di Marco Testi



Sportelli aperti e chiusi, un belato solitario, collinare, un nitrito in pianura, no: cerniere. Il gorgoglio del vino da un collo di bottiglia in un bicchiere, sorsi.

Il percorso tra la quotidianità di oggetti che rimandano non più il senso del vuoto, ma una presenza profonda fatta di voci interiori, proiezioni che diventano manifestazione viva quanto noi, e parte di noi, di assenze che hanno lasciato un segno inquieto nell’universo della stanza; l’ascolto interiore di un impalpabile invito mai dichiarato che arriva in città e che spinge a prendere la macchina ed andare via, fuori, un attimo, magari, così, senza – una volta tanto – una ragione pratica e economicamente utile; lo scambio di parti, o di generi, direbbero i più fiscali attualisti, il gioco di parole e di sensi, come se la letteratura, anche quella apparentemente più lineare e denotativa non fosse un protocollo tra contraenti (“il rischio dello scrivere è uno solo: essere letti”): questo è ancora oggi il senso, una parte anzi di senso, di Poema bianco di Pasquale Panella in edizione Ebook, a quasi dieci anni dalla sua pubblicazione in libreria.

Un poema al femminile, perché il gioco permette uno scambio di parti, nel senso di: vediamo ora, la parte amata, e dalla parte amata; uno sguardo sull’altro e contemporaneamente dall’altro, che si diverte a inquadrare la scena dalla zona estranea e nello stesso tempo saputa, perché alla fine è sempre la sua voce che parla. Il gioco continua, come ammonisce Lucio Saviani, per un libro del quale, guarda caso, Panella, ma dieci anni dopo, avrebbe scritto il poemetto conclusivo.
In Poema bianco spira, ancora oggi, l’aria dell’apparire della quotidianità, della vicinanza, del senso della distanza, dell’attesa: “quando il telefono non/ squilla/ sei sempre tu/ che non mi chiami”. L’agguato (e i sensi di colpa) della cultura con la C è sempre dietro l’angolo, il peccato d’origine, se non fosse che l’ammissione di impossibilità e di impotenza – di fronte a ciò che continuiamo a chiamare così – è lì a due passi.

Sì, è vero, sembra dire Poema bianco, la letteratura è dietro la porta, e non ci si può far molto, e forse non è un malaccio: “(fallo tu)/ Diventa marinista/ (sennò che poeta sei)”. L’attacco non è alle fonti della propria storia, a quella letteratura che ci ha permesso di divenire e pensare, ma alla parcellizzazione, all’accademia che ne ha fatto una serie di ismi chimici suddivisibili in segmenti:

      Perché il cervello non è,
      non è a quadroni azzurri
      non è a quadretti rossi
      non sbatte come i piatti
      per poi fermarsi sparso come i piatti rotti.
Il rischio del solipsismo e dell’autoreferenzialità è spesso enunciato in queste pagine in cui la sintassi non imprigiona il senso, non lo costringe ad architetture o a volute immaginifiche: del resto grandi autori dalla scrittura mimetica erano capaci di celare il sottosuolo dietro un periodo apparentemente oggettivizzante e normativo.

L’espressione del disagio e dell’essenzialità dell’amore è qui condensato in modo davvero inusitato, se ne intravedono i confini nel rischio della presa di possesso e dell’assedio dell’altro affinché ceda le armi, non, come sarebbe ora che si (re)iniziasse a pensare – e fare –, che rimanga se stesso in un rapporto che apra all’altro, non che diventi l’altro.
Uno dei nuclei portanti del poema è proprio questo: il rischio. Quello di essere eccessivamente distanti, o troppo vicini. La distanza aiuta a guardare l’altro ma diviene anche possibilità della alterità assoluta e raggelante, la forma della statua che incute ammirazione e timor panico ma che non potrà mai essere soggetto d’amore.

La possibilità del dopo, del senza, qui emerge senza eccessive mediazioni retoriche, se non quelle di un indiretto che una volta si sarebbe chiamato libero, divenuto parte integrante e non discontinua di un monologare necessario, non appiccicato dalla retorica.
Il rischio del poi si esprime nelle fantasie del dopo, nella percezione dolente che la nostra immaginazione diviene altro che non la vita effettiva di chi ci ha accompagnato per un tratto di strada. Anche l’abusato (ma che vuol dire, se è vero?) motivo di amore e morte è qui necessario, nel senso di assoluto accadere:

      Morire insieme è il primo
      Progetto sovversivo di chi
      Si innamora da vivo
      Viene in mente a tutti, non
      Facciamo i modesti che siamo
Se il demone citazionale è sempre dietro l’angolo, quello del già comunemente detto è talmente presente che viene preso subito – e costantemente – di petto, per esorcizzarlo. L’immaginazione, soprattutto di una parte della storia, quella della fine, è espressa in versi leggeri, consapevoli di ingombranti prossimità e percentuali di ripetitività indeterministica, coscientemente vicini a miliardi di simili, anche se poi è il contesto a farla da padrone.

La presenza della nostalgia, della mancanza, della lontananza non solo fisica, è immersa in un sistema di segni organico e coerente, non piatta esposizione di sentimenti da diario intimo. L’assenza emerge non come incidente di percorso, ma come possibilità, talvolta come sostanza: e se fosse lei la chiave per avvicinarsi senza ustioni terminali al senso ultimo della cosa, dell’amore e quindi del nostro esserci? Il rischio delle parole è qui vissuto per quello che è.

      Il pensiero se la cava,
      dicevo,
      con le sue parole facili facili
      Perché il pensiero
      A un certo punto parla
      Come da un’altra stanza
      Intellettuale
      Quando il discorso
      Sugli opposti è tale
      Che l’uno vale l’altro.
La tentazione di chi legge è il dubbio che in fondo ci sia un messaggio che passi attraverso l’umano esserci-per-l’altro e vada apparentemente lontano. Una lontananza che però riguarda ancora la nostra presenza e la nostra capacità di amare e accettare l’amore dell’altro: un discorso che ti avvicina – se consapevolmente o no non importa – alle profonde riflessioni sul fondamento dell’arte, del suo graduale perdere di vista l’essenza per divenire mimesi pura priva del centro elementare. Ed elementare è una parola importante per capire alcuni ritorni apparentemente insensati, e auspicati da un genio dello studio iconologico come Florenskij:
      Perché c’è stata la pittura
      astratta?
      Per farla finita
      Con ogni prospettiva.
E d’altronde l’autore stesso ha precisato nel già accennato poemetto alla fine di Ludus mundi di Saviani che “la creatura umana solo con semplicità/ può sfiorare l’infinito”.

Al termine di questa nuova – Italo Calvino, non da solo, sapeva che ogni rilettura del medesimo libro è un libro diverso – lettura di Poema bianco si ha l’impressione di aver fatto un lungo viaggio dentro un pezzo della poesia – e non solo di questa – del nostro tempo, che, come ogni forma significativa, ci abbia portato un po’ lontano, facendo finta di giocare con le parole e però pure con il lettore, come prescritto dal gioco narrativo, nulla altro che un patto sottinteso, a volte troppo. Anche se, dobbiamo dirlo, non bisogna né essere colti, né tantomeno digiuni di lettere, per avvertire la circolarità tellurica di un cursus preciso, riconoscibile tra mille, quasi prosastico e nel contempo nostalgico di aure poetiche più antiche, di Provenza e di Firenze, che porta dentro il grande tema del senso, della parola, di una prossimità che deve essere sorvegliata per non divenire imposta, e insieme, di una scrittura che deve essere presa per quello che è: un pezzo di mondo, di senso, di storia. È proprio il senso, non la sua spasmodica ricerca, ma l’accettazione del suo necessario accadere e del suo divertito affermare e negare, che fa ancora oggi di Poema bianco un libro godibile e inquieto. Non pone parole finali, né teorizzanti inizi, ma le cose per come e quando accadono. Non le vuole catturare con la reticella, ma vivere mentre accadono assieme a noi, miraggi o meno.


Pasquale Panella, Poema bianco, edizione Ebook, euro 3,99, SPedizioni, 2017.


Le altre opere citate in questa recensione sono:

  • Ludus Mundi. Idea della filosofia, di Lucio Saviani, con un poemetto di Pasquale Panella e una prefazione di Aldo Masullo, Moretti & Vitali, 2017.
  • Lo spazio e il tempo nell’arte, di Pavel Florenskij, Adelphi, 1995.

  • testi.marco@alice.it