Le nuove generazioni danno più peso all’esperienza che all’erudizione, all’etica vissuta piuttosto che alla cultura libresca, all’esempio che non alle idee astratte.
Indaffarati, il nuovo libro di Filippo La Porta dice anche qualcosa di più di ciò di cui parla nelle sue centosettanta pagine. Dopo averlo letto abbiamo un motivo in più per comprendere perché le nuove subalternità, i nuovi operai dequalificati, il proletariato del terzo millennio votino Trump e non democratico, perché le destre si avvicinino al potere alla faccia del politicamente corretto, anzi, proprio a causa di questo. L’autore non appartiene culturalmente all’antagonismo populista, il che rende ancora più pregnante il suo libro, perché la percezione avviene dall’interno di quella concezione del mondo messa oggi in crisi.
La Porta afferma che i giovani non sono così deficienti come una parte dei media li va descrivendo, anzi: è proprio perché hanno di fronte a sé lo spettacolo desolante di una intellighenzia verbosa e autoreferenziale, che per sovrapprezzo predica bene e razzola male, che cercano di stare alla larga dai loro modelli e dalle loro letture. Se vedono in tv intellettuali che propongono un modello di narcisistica autoreferenzialità, per poi agire in modo completamente diverso dalle loro affermazioni, non c’è da meravigliarsi che i ragazzi si sentano autorizzati a percorrere altre strade. Se nei talk show e nei salotti televisivi strappano l’applauso robotizzato – anche quando parte da mani umane – la scena madre, l’insulto, l’accapigliamento, allora non dobbiamo sorprenderci se i meno avvertiti seguono quella strada di autoaffermazione nella giungla mediatica o che i più indifferenti e/o critici si rivolgano al cellulare, alla rete, ad altre persuasioni, direbbe Michelstaedter.
Ma non solo una questione di becerume, afferma La Porta. Si prendano gli intellettuali che non fanno altro che proporre una loro immagine standardizzata, si prendano case editrici che dovrebbero mettere in circolazione libri educativi, che davvero dicano la realtà nelle sue sfaccettature, ed invece inseguono mode e propongono sequel in modo tale da cortocircuitare pseudovalori e protagonismi di pessimo livello: si prendano insomma coloro che dovrebbero costruire su fondamenta condivise (non nei talk-show) e che invece continuano ad infierire su una cultura di per sé già ferita, e avremo – scrive La Porta – un panorama chiaro del perché i giovani sono – o appaiono – oziosi, menefreghisti, schiavi dei media più pericolosi per l’intelligenza costruttivamente critica.
I giovani, ma non solo loro, dice (giustamente) l’autore, non è che siano rincitrulliti: è che non si fidano più delle parole, e allora per contagio estensivo, qualsiasi tipo di parola, da quella letteraria a quella latamente culturale è sinonimo di truffa, incoerenza, ipocrisia. I ragazzi, almeno la parte più avvertita di loro, guardano alla persona. La studiano per capire se essa è quello che dice, o invece bleffa. Guardano insomma, per La Porta, ad una identità che il più delle volte è schizofrenica, perché l’homo mediaticus dice una cosa e ne fa un’altra.
Il libro non si ferma ai giovani: affronta tutta una cultura, compresa quella del suo autore, che ha privilegiato la furberia, il corteggiamento delle mode politiche, in qualche modo l’asservimento ai tic correnti. Eppure la letteratura, quella che non insegue i venticelli dell’oggi, è fondamentale per la trasmissione profonda del senso, perché “il romanzo moderno è stato una mediazione indispensabile con il mondo antico”, visto che
ci siamo accostati alla mistica attraverso Dostoevskij, al Vangelo attraverso Tolstoj, alla Bibbia attraverso Melville e Thomas Mann, a Omero attraverso Joyce, all’Oriente sapienziale attraverso Hesse e Isherwood.
Se la letteratura perde questa funzione, perché i media, la critica (che ha le sue buone responsabilità) e gli editori abdicano al ruolo di selettori e promotori della riflessione autentica, allora avremo un vuoto culturale e ovviamente politico e sociale per qualche tempo. Non è uno scandalo, – Nietzsche e Vico ce lo insegnano, ognuno a modo suo –, che vi siano delle ciclicità non ripetitive nella storia umana e non solo umana.
La Porta arriva al cuore della questione letteratura, e per questo si appoggia – paradossalmente, ma fino a un certo punto – su autorità letterarie. L’autorità del Flaubert di Madame Bovary (ma pure quello di Bouvard e Pécuchet ci andava giù pesante) e del don Chisciotte di Cervantes è incontrovertibile. Se ci aggiungiamo anche la Karenina, e perché no, la Marina di Malombra, e alcune considerazioni di Svevo e Pirandello, oltre che l’impossibilità a fare qualsiasi scelta dell’Ulrich dell’Uomo senza qualità, ci accorgiamo che essa nasconde dei pericoli. Può favorire falsi miti, o lo sprofondamento nell’impotenza a vivere, nella disperazione. Ma fa parte del gioco. Crea anticorpi, permette di superare impetuosi gorghi della vita anche se altre volte può indurre all’apatia o alla ridicolaggine. La letteratura è anceps come le cose umane. Anche il messaggio religioso, se assolutizzato da una parte o affievolito da eccessivi condizionamenti secolari dall’altra, può essere, e lo sperimentiamo purtroppo ai giorni nostri, pericoloso.
Il senso radicale di Indaffarati di La Porta consiste in un frontale e nel contempo ragionato attacco ad una cultura che ha tradito gli ideali e allontanato i giovani, perché basata sull’effetto, sulle parole, e non sulla causa, la realtà, una realtà heisenberghiana, sia chiaro, non assolutizzata perché ne siamo parte integrante, incapaci di vederla in toto. E il suo richiamo alla Grecia del quinto secolo prima di Cristo è suggestivo:
Dunque occorre un impegno preciso, tenace a custodire e proteggere il passato. Ma poi quell’ampio quadrilatero, recintato e polveroso, si riduce a spazio inerte se ognuno di noi non continua la battaglia di Socrate contro i sofisti e se ogni generazione non prova a piantare di nuovo l’ulivo della pace, come ha fatto la dea Atena, per fondare la sua città.
Al di là dei punti di riferimento soggettivi, Indaffarati ci aiuta a riflettere sul nostro stato culturale, sui nostri figli e su noi stessi. È per certi versi una autocritica di una generazione che ha conosciuto a sua volta conformismi e complicità, in grado di devitalizzare sia per via indiretta che per mimesis le lezioni indirizzate al futuro. La miscela mirabile di sogno, ideali, frustrazioni, impossibilità, energia, menzogna e verità di cui è fatta la letteratura può qualche volta decadere e diventare vuota e pericolosa manifestazione di impotenza e di vanità infere.
Filippo La Porta, Indaffarati, Bompiani, 2016, 170 pagine, 12 euro.
Filippo La Porta (Roma, 1952) è critico letterario e saggista, collabora con il «Domenicale» del «Sole 24 ore» e con il «Messaggero»; ha inoltre una rubrica sul settimanale «Left».
Tra le sue numerose pubblicazioni nell’ambito degli studi letterari ricordiamo La nuova narrativa italiana (Bollati Boringhieri, 1995 e nuova edizione 1999), Non c’è problema. Divagazioni morali su modi di dire e frasi fatte (Feltrinelli, 1997), Dizionario della critica militante (con Giuseppe Leonelli) (Bompiani, 2007), Maestri irregolari (Bollati Boringhieri, 2007), con cui ha vinto il premio De Lollis di Chieti, Un’idea dell’Italia. L’attualità nazionale nei libri (Aragno, 2012) e Pasolini (il Mulino, 2012).
testi.marco@alice.it
|