[Intervento di Vera Lúcia de Oliveira nel corso della presentazione del libro La provincia oscura di Narlan Matos, il 26 aprile 2017 presso l’Auditorium dell’Ambasciata brasiliana a Roma. All’incontro hanno partecipato anche l'autore, Marco Testi e Alessio Brandolini]
Narlan Matos, Vera Lúcia de Oliveira e Marco Testi
Quando ho ricevuto il libro di Narlan Matos La provincia oscura (Edizioni Fili d’Aquilone, 2016), il titolo mi ha fatto venire in mente le prime parole proferite da Papa Francesco, appena eletto: “Vengo dalla fine del mondo”. E mi sono chiesta: perché “provincia oscura”? Il poeta si riferisce a un luogo fisico o a un luogo dell’anima? La “provincia oscura” riguarda il presente o il passato?
Narlan è nato a Itaquara, una piccola città nel cuore dello Stato di Bahia, in Brasile. Il nome “Itaquara” pare derivare dalla lingua tupi e significherebbe “tana di pietra”, concetto quanto più aderente al luogo. A questo punto, mi sono chiesta: la provincia oscura è Itaquara? Narlan afferma, infatti, che da lì ha origine, per lui, la poesia che, come si sa, sgorga da profondità arcane e misteriose.
Vorrei, con questo mio breve intervento, soffermarmi su alcune suggestioni che mi sono venute dalla lettura di questa bella antologia. Sono più domande che risposte. Il mio punto di vista è volutamente centripeto e interno alla lingua portoghese e alla letteratura brasiliana per cui vi ho letto e identificato parallelismi e corrispondenze poetiche con alcuni dei nomi più noti dell’universo lusitano. D’altronde Narlan scrive in portoghese e si presuppone che egli voglia dialogare con l’universo dei lettori di questa lingua, i quali hanno in comune un patrimonio culturale e condividono una tradizione e un canone artistico-letterario.
La poesia di Narlan mi ha riportato, ad esempio, ad alcune liriche di Lêdo Ivo (fra l’altro ho letto in un’intervista che si sono visti in diverse occasioni). Fra i due ho trovato non poche affinità, la prima delle quali è la potenza del verso lungo e spesso impetuoso che segue il ritmo interno della parola che sgorga quasi con violenza. A questi si alternano altri versi molto più condensati, in un movimento fra il contenimento della forza lirica e la sua espansione. E poi, come in Lêdo Ivo, c’è la nostalgia di un luogo che pare non esistere, un tempo/spazio che si è cristallizzato fra le pieghe dell’infanzia, fra le pareti della casa paterna, fra i corridoi, il cortile, il giardino ai quali egli sempre ritorna, come nella poesia “La casa paterna”:
na casa paterna cada porta é um labirinto
(...)
e onde sempre sou sem nunca haver sido
esse muro branco ao redor do imenso quintal
tão alto quanto as nuvens e já não posso escapar
o velho coqueiro desafiando a brisa
e os sabiás de Gonçalves Dias nos ninhos
(...)
repentinamente outros eus que julguei mortos
ressuscitam como fantasmas
como Lázaro ao sair da sepultura
assim sigo: eu dentro da casa e a casa dentro de mim
estou certo de que jamais sairei daqui vivo (p. 88)
[nella casa paterna ogni porta è un labirinto
(…)
e dove sono sempre senza essere stato
quel muro bianco attorno all’immenso cortile
alto come le nubi e ormai non posso sfuggire
la vecchia palma da cocco che sfida la brezza
e gli usignoli di Gonçalves Dias nei nidi
(…)
all’improvviso gli altri me che pensavo morti
risuscitano come fantasmi
come Lazzaro dal suo sepolcro
e vado avanti così: io dentro la casa e la casa dentro di me
sono certo che non uscirò mai vivo da qui]{1}
Questo tempo senza tempo del passato si presenta ricorrentemente e forse il poeta lo convoca per un bisogno intrinseco di esorcizzarlo tramite la parola poetica (lo vediamo, ad esempio, in “Cirandas / Girotondi”, p. 90). Ma se il legame con le radici della sua Itaquara sono forti, non pare esserci idealizzazione di quel tempo (dove non ci sono persone o comunque esse non si vedono o non sono viste) e serpeggia, già lì e già allora, il sentimento di essere sempre straniero. Lo vediamo in “Canção da minha rua / Canzone della mia via” (nella quale il poeta stabilisce un dialogo intertestuale con la nota “Canção do exílio”, di Gonçalves Dias), dove la Rua da Matriz, la strada della casa natia, pare l’unico luogo possibile dove poter essere, il posto che l’io lirico identifica come la genesi della sua poesia, ma, allo stesso tempo, dove non c’è nessuno, neppure lui:
Nasci na Rua da Matriz de Itaquara para nunca mais morrer
É dela que vem este riacho que nunca seca
É dela que vem a poesia que via em minha vida
Nesta cidade que apaga a todos com mãos de borracha
(...)
Estás comigo ruazinha
esta manhã que nunca vai anoitecer
tu me fizeste como sou
me inventaste com teu matiz, teu cariz
e só assim sou feliz, feliz e não triste
porque sei que estou aqui vivo
nesta cidade onde ninguém existe
neste cidade onde ninguém existe (p. 44)
[Sono nato in via Matriz de Itaquara per non morire mai più
È da lei che viene questo ruscello che non si secca
È da lei che viene la poesia che scorre nella mia vita
In questa città che cancella tutti con mani di gomma
(…)
Sei con me viuzza
questa mattina che non farà mai notte
tu mi hai fatto come sono
mi hai inventato con la tua tinta, la tua natura
e solo così sono felice, felice e non triste
perché so che sono qui vivo
in questa città dove nessuno esiste
in questa città dove nessuno esiste]
Ogniqualvolta il poeta si sposta per raggiungere quella sorta di spazio mitico, deputato alla poesia, ci si accorge che esso è assente delle figure che lo abitavano. Case, strade e piazze sono, infatti, dolorosamente vuote: “A mansão ficava calada e condizente comigo (…) // Uma prece revoava pelas esquinas vazias e tímidas” [La villa vetusta restava in silenzio e mi si confaceva (…) // Una preghiera volteggiava per gli incroci vuoti e timidi] (pp. 32-33). Ciò avviene perché la stessa città natale, Itaquara, “cancella tutti con mani di gomma” (p. 45). In compenso, e per contrasto, le memorie e il vissuto, giacché non intaccati dal tempo, si appiccicano alle cose e alla natura circostante, quasi come se non dipendessero da chi lì vive o ha vissuto. Il sentimento di appartenenza è dunque ambiguo e bifronte. Da una parte lo lega a un luogo e lo costringe a ritornare, dall’altra lo pone dinanzi a Krónos, che ingoia le sue stesse creature, lasciando talvolta, e quasi crudelmente, che sopravvivano a esse utensili, monumenti e città.
L’impeto di tornare, che è di ognuno, e il vuoto che ne deriva, portano il poeta alla constatazione che neppure lui è più in quella confluenza tempo/spazio dell’infanzia e della scoperta dell’io: “E eu sou essa mansão de três andares / quarenta quartos e vinte e cinco salas / - sem ninguém dentro” [E io sono questa villa di tre piani / Quaranta stanze e venticinque sale / - senza nessuno dentro] (pp. 56-57)
Narlan dialoga con molti autori in questa raccolta, soprattutto della letteratura brasiliana, come il citato Gonçalves Dias (in “La casa paterna”, come si è visto, il lirico del Romanticismo è esplicitamente citato). La presenza di Gonçalves Dias ci porta quasi obbligatoriamente a stabilire un parallelo fra i due poeti e alla condizione di esule vissuta da entrambi, sia pure, nel loro caso, trattasi di un esilio volontario e non certamente legato a motivi politici.
Narlan si avvicina pure ai poeti modernisti brasiliani del 1922, soprattutto all’iconoclasta Oswald de Andrade. Si veda, ad esempio, la poesia “Pós-colombianos” (p. 80), e la si paragoni con alcune collocazioni polemiche del “Manifesto Pau-brasil” e del “Manifesto da Antropofagia”, di Oswald de Andrade, pubblicati rispettivamente nel 1924 e nel 1928.
Al di là di questi riferimenti intertestuali, Narlan ha una sua propria e originale dizione, frutto dell’intrecciarsi fecondo di differenti tradizioni letterarie e culturali, come bene evidenziato da Giorgio Mobili e come avviene in genere per gli autori transnazionali.
Forse è dall’attraversamento di situazioni diverse e dall’intersecarsi di esperienze culturali eterogenee che trae origine l’estraniamento come elemento importante della sua poetica, dove l’io pare mai congiungersi veramente con il mondo, sia che si parli del presente che del passato. Nel testo “Imagens / Immagini”, subito all’inizio della raccolta, l’io lirico afferma: “Do outro lado do espelho / Não sou eu quem me sorri // (…) Espelho, espelho meu / Quem me olha do espelho não sou eu” (p. 18) [Dall’altro lato dello specchio / Non sono io chi mi sorride // (…) Specchio, specchio mio / Chi mi guarda dallo specchio non sono io”]
La vita sembra perennemente altrove e il poeta pare sradicato, separato dall’universo che lo circonda, sebbene profondamente inserito in esso, con un occhio aperto e una coscienza vigile. Possiamo dire che è proprio questa coscienza critica a impedire che egli si integri, che si includa nello spaventoso spettacolo che viviamo. Afferma, in “Hangar”:
Essa é a vida… a que nos faz predadores e presas
Depende apenas de quem esteja ao redor
É dela que quero fugir desesperadamente feito um louco
Escapar dessa morte que morro todos os dias pelas ruas
Sem ao menos saber mesmo quem é meu inimigo. (p. 62)
[Questa è la vita… è lei che ci rende predatori e prede
Dipende soltanto da chi sta attorno
È da lei che voglio fuggire disperatamente come un pazzo
Scappare da questa morte che muoio tutti i giorni per le strade
Senza neppure sapere chi sia il mio nemico]
Eppure il poeta vorrebbe accogliere e contenere in sé l’universo nella sua vastità: “Me pergunto quando é que isso tudo / Vai caber em mim.” (p. 67) [Mi chiedo quando tutto questo / Ci starà dentro di me].
Estraniamento e sradicamento avvicinano Narlan Matos alla poesia labirintica di Fernando Pessoa, con cui egli dialoga in vari momenti, anche citandolo esplicitamente, come nella lirica, “Elegia ao novo mundo / Elegia al nuovo mundo”. Qui vi si legge la parodia a una poesia pessoana molto nota, “Mar salgado”, presente nel libro Mensagem, l’unico che il poeta portoghese ha pubblicato in vita, nel 1934: “Ó mar salgado, quanto do teu sal / São lágrimas de Portugal!” [O salso mare, quanto del tuo sale / sono lacrime del Portogallo!] (PESSOA, p. 1987, pp. 164-165).{2}
I versi di Pessoa suonano come una sorta di controcanto critico alla storia del grande impero portoghese, spostando l’attenzione al costo in vite umane e alle sofferenze che il popolo lusitano ha dovuto pagare per l’allargamento del mondo allora conosciuto.
Narlan inverte ulteriormente l’ottica e riscrive i versi dal punto di vista di chi, in altri continenti, subì le conseguenze dell’espansione marittima e della colonizzazione europea: “oh mar salgado, quanto do teu sal são genocídios de Portugal” [o mare salato, quanto del tuo sale sono genocidi del Portogallo] (pp. 78-79). Dunque, ben più dei portoghesi, hanno sofferto i popoli che hanno subito la colonizzazione europea, in primis i milioni di indios sterminati e gli africani sradicati, comprati e venduti, come schiavi.
Ma il dialogo con Pessoa (e quale poeta di lingua portoghese potrebbe sottrarsi?) riguarda anche la complessità identitaria di un io che si frammenta e si disperde nel tentativo di autodefinirsi:
e me vejo e me perco e me encontro
para logo me perder de novo
(…)
já não estou em mim nem a paisagem em si
juntos somos outra coisa que não sabemos(p. 94)
[e mi vedo e mi perdo e mi trovo
per poi perdermi di nuovo (…)
io non sono più in me né il paesaggio in sé
insieme siamo un’altra cosa che non sappiamo]
Lo sradicamento si ripresenta dinanzi al paesaggio straniero al quale egli sente di non appartenere come, d’altronde, non apparteneva completamente neppure al paesaggio natio. Nella poesia dal titolo “Setentrional” (titolo emblematico per un poeta venuto dai tropici), egli afferma: “circulando a aurora setentrional / um estranho sentimento alheio / colore as açucenas e azaleias” [circolando l’aurora settentrionale / un sentimento di estraneità / colora i gigli e le azalee] (pp. 96-97). In questo scenario di “quintais estrangeiros” [cortili stranieri] (pp. 98-99), troviamo una diversa vegetazione, come narcisi, gigli, rose, meli in fiore, pioppi e animali come aquile, coyote, civette e uccelli migratori, ma sono luoghi anch’essi sospesi, apparentemente non abitati da nessuno, anche se le tracce di tante esistenze sono ovunque. È come se i residenti fossero già sommersi dal tempo e, in effetti, per l’io lirico “a vida é o puro exercício da perda” [la vita è l’esercizio puro della perdita] (pp. 106-107).
Lêdo Ivo affermava che la luce di Maceió e il grande oceano che lambisce quella città portuale lo hanno segnato per sempre, dettando una poesia fra le più luminose e travolgenti della letteratura brasiliana, dove le onde impetuose dell’Atlantico e l’ambiente marino sono onnipresenti. Narlan invece arriva dall’interno, da una terra di rocce e montagne rossicce del sertão baiano. A differenza di Lêdo Ivo, possiamo dire che la sua poesia è tellurica e, allo stesso tempo, aerea, come se le sue radici viaggiassero con lui e lo riportassero ogni volta a quella stessa terra dalla quale è partito. Tornando alla domanda iniziale e parafrasando il grande scrittore João Guimarães Rosa, che affermava che “o sertão é o mundo” [il sertão è il mondo], forse possiamo dire che, per Narlan Matos, Itaquara è sì la provincia oscura, ma Itaquara è il mondo. Da lì, infatti, è possibile scorgere anche le più remote stelle della Via Lattea (p. 118).
{1}Tutte le poesie citate sono del libro La provincia oscura, curato e tradotto da Giorgio Mobili, Roma, Edizioni Fili d’Aquilone, 2016.
{2}La traduzione è di Antonio Tabucchi.
BIBLIOGRAFIA CONSULTATA
- ANDRADE, Oswald de, 1990, A utopia antropofágica, São Paulo, Editora Globo e Secretaria do Estado da Cultura.
- MATOS, Narlan, 2016, La provincia oscura, a cura di Giorgio Mobili, Roma Edizioni Fili d’Aquilone.
- PESSOA, Fernando, 1987, Una sola moltitudine, volume secondo, a cura di Antonio Tabucchi, Milano, Adelphi Edizioni, seconda edizione.
Narlan Matos è nato nel 1975 a Itaquara, Bahia, in Brasile. È considerato uno dei poeti emergenti più importanti dell’America Latina. I critici sui lati opposti dell’Atlantico hanno sottolineato l’importanza della sua opera. A ventun anni esordisce con Signore e signori, l’alba!, vincitore nel 1997 del Prêmio Copene de Literatura (attuale Braskem) e pubblicato dalla Fundação Casa de Jorge Amado. Il suo secondo libro, Nell’accampamento delle ombre, gli ottiene il suo primo premio nazionale, Prêmio XEROX de Literatura Brasileira, nel 2000. Matos è invitato in rappresentanza del Brasile a vari festival internazionali. Nel 2002 è selezionato dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per rappresentare il Brasile all’International Writing Program dell’Università dell’Iowa.
Sulla sua poesia si pronunciano poeti leggendari come il russo Yevgeny Yevtushenko, lo spagnolo Juan Carlos Mestre, gli americani Robert Creeley, Lawrence Ferlinghetti e Michael Palmer – che diventa il suo traduttore negli USA – lo sloveno Tomaz Salamun. Il suo terzo libro di poesie, Elegia al Nuovo Mondo, pubblicato da 7 Letras, viene segnalato al Prêmio Internacional Portugal Telecom e lo consacra come autore di nuova avanguardia nella poesia latinoamericana contemporanea, meritando un importante articolo di Eleutério Santiago Diaz dell’Università del New Mexico. Diventa interlocutore di Noam Chomsky, che incontra due volte al MIT, e con il quale mantiene una vasta corrispondenza. Partecipa regolarmente a numerosi programmi letterari e festival internazionali negli Stati Uniti e in Europa.
Matos è stato tradotto in molte lingue, tra cui lo sloveno, lo spagnolo, l’italiano, il vietnamita, il cinese, il croato, il lituano, il giapponese, l’inglese, lo svedese e l’indù. La sua poesia è apparsa in rivista in Svezia, Lituania, Slovenia, Giappone e Cina. Nel 2014 la rivista italiana POESIA gli ha dedicato 13 pagine. Recentemente, a commemorazione di un ventennio di attività letteraria, sono state pubblicate, in Slovenia e Giappone, due antologie poetiche della sua opera, e la Radio Popolare di Croazia ha mandato in onda un programma di mezz’ora sulla sua vita e opera. Ha ottenuto un master dall’Università del New Mexico e un dottorato dall’Università di Urbana-Champaign. Attualmente Matos è professore al Montgomery College a Washington, D.C.
(Nella foto: Narlan Matos con il suo editore Alessio Brandolini)
veralucia.deoliveira@gmail.com
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