FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 46
aprile/giugno 2017

D'acqua o di fuoco

 

JOSÉ ENRIQUE RODÓ:
PENSIERO E VOCAZIONE DIDATTICA

di Martha Canfield



Nella storiografia letteraria uruguaiana José Enrique Rodó fa parte della cosiddetta «Generación del 900», che corrisponde a quella del ’98 in Spagna e a quella modernista in Ispanoamerica. Gli altri protagonisti del gruppo sono: Javier de Viana (1868-1926), Carlos Reyles (1868-1938), Carlos Vaz Ferreira (1872-1958), Roberto de las Carreras (1873-1963), Julio Herrera y Reissig (1875-1910), María Eugenia Vaz Ferreira (1875-1924), Florencio Sánchez (1875-1910), Horacio Quiroga (1878-1937), Álvaro Armando Vasseur (1878-1969) e Delmira Agustini (1886-1914). Tranne Carlos Vaz Ferreira, avvocato, professore e due volte rettore dell’Università di Montevideo, gli altri sono fondamentalmente autodidatti, frequentatori dei vari cenacoli dell’epoca, i più celebri dei quali erano il Consistorio del Gay Saber di Horacio Quiroga e la Torre de los Panoramas di Julio Herrera y Reissig. Tutti sono lettori di Nietzsche e di Baudelaire, anche se ne ricavano posizioni diverse e qualche volta opposte: Reyles e Rodó, ad esempio, pur rimanendo amici, si sono trovati spesso su posizioni contrarie, e il primo non accettò mai l’ottimismo rodoniano, pilastro fondamentale del suo saggio più famoso, Ariel (1900). Tutti avevano in comune l’attività giornalistica. L’elemento di discordia era la politica, divisa fra i due partiti tradizionali, il Blanco e il Colorado, uno conservatore e l’altro progressista, discordia che finì per far scoppiare una vera guerra civile.

Ciò che dà carattere di gruppo o di generazione letteraria all’opera di tutti, oltre il linguaggio, è sicuramente la ricerca della “modernità”. Tutti – anche quelli più attirati dagli elementi locali, come Javier de Viana, Horacio Quiroga e Florencio Sánchez – cercano di trascendere i limiti della letteratura “regionalista” o “criollista”, vale a dire quella che si basa sostanzialmente sulla creazione di stereotipi sociali del mondo creolo, per lo più rurale ma anche urbano, portando nella lingua letteraria i vari tratti dialettali. In genere ci riescono. Florencio Sánchez sarà considerato il fondatore del teatro rioplatense; Horacio Quiroga è stato indicato, insieme a pochi altri, come l’iniziatore della nuova narrativa ispanoamericana; Herrera y Reissig lascia un’eredità poetica fondamentale nella costituzione della poesia post-modernista e perfino avanguardista, essendo in buona misura fonte dell’opera di Ramón López Velarde, di Vallejo, di Neruda e di molti altri. Si può affermare che nella breve parte dell’opera che il poeta riuscì a preparare per le stampe prima di morire (consideriamo solo quella perché non sarebbe giusto tenere conto del resto) si presenta senza dubbio come uno che ha precorso i tempi e presentito le rivoluzionarie innovazioni che stavano per accadere.

Fra tutti loro, in mezzo a questa ricca generazione, forse unica nel panorama uruguaiano, la figura di Rodó spicca in quanto solo lui si impegna totalmente nella costruzione di una dimensione americana e solo lui costruisce il suo americanismo su scala universale.{1} Il posto che occupò in quel contesto fu, in effetti, molto rilevante. Il suo prestigio come prosatore era pari soltanto a quello di Darío come poeta. Tuttavia in Rodó si verifica una tragica regola che sembra accanirsi sui migliori scrittori uruguaiani: come Quiroga, come Florencio Sánchez, come Juan Carlos Onetti, Rodó dovette lasciare la patria con l’amarezza nel cuore, deciso a non tornare per un tempo che si augurava il più lungo possibile. Ma poi si ammalò gravemente e morì prima di tornare; gli altri invece partirono in esilio volontario e definitivo. È vero che alla sua partenza i suoi colleghi giornalisti organizzarono una manifestazione per salutarlo che diventò popolare e affollatissima, ma è anche vero che questa stessa manifestazione voleva in qualche modo riparare alla vergogna che il più famoso scrittore nazionale dovesse partire per l’Europa come corrispondente di un giornale argentino perché il suo governo l’aveva eliminato dalla commissione destinata a rappresentare l’Uruguay nelle celebrazioni spagnole per il Centenario delle Cortes di Cadice. D’altra parte, mentre Rodó si affermava sempre di più come maestro filosofo e come punto di riferimento per tutta l’America Spagnola, gli scrittori uruguaiani non lo consideravano nel suo giusto valore: o lo ignoravano (Quiroga, Carlos Vaz Ferreira), o gli erano decisamente ostili (Herrera y Reissig), oppure i suoi amici (come Carlos Reyles) non lo capivano e non condividevano le sue idee.

La generazione successiva a quella del Novecento, sorta fra il 1915 e il 1920 e conosciuta come Generación del Centenario, non fu iconoclasta, in parte forse perché quasi tutti i possibili bersagli erano morti: María Eugenia, Sánchez, Rodó e Julio Herrera gravemente malati, Quiroga suicida, l’Agustini uccisa. Il longevo Roberto de las Carreras fu rinchiuso in un manicomio all’età di 35 anni fino alla morte, senza che potesse recuperare mai più la memoria del suo passato. La Generazione del Centenario si propose quindi di creare una continuità con quella precedente e la sua espansione partì dall’accettazione dei contributi dei suoi maggiori, non senza cercare nello stesso tempo di superare l’ormai esausto repertorio del Modernismo, quindi accettando implicitamente le critiche che Rodó aveva fatto ai suoi contemporanei, specialmente agli imitatori di Darío. Eppure, in questo armonico trapasso fra una generazione e l’altra, Rodó rimase fuori: fu dimenticato, quando non aspramente travisato e criticato. Il suo idealismo sembrò retorico e datato, lo si accusò di non considerare il problema dell’indio americano, di incitare all’ozio nobile una società che doveva soprattutto lavorare per costruirsi un benessere ancora da venire. Oggi invece, tornando alla sua opera con meno pregiudizi, si può apprezzare come i suoi veri fondamenti etici ed estetici non siano mai tramontati. Perfino il suo stile, il culto del frammento così evidente nelle opere maggiori, Motivos de Proteo e El mirador de Próspero, si può considerare come un annuncio di un gusto letterario e filosofico che il Novecento ha fatto suo. Con un’ottica forse più lucida e profetica Alfonso Reyes aveva salutato quella tendenza rodoniana come l’inaugurazione di un nuovo tipo di letteratura, quella frammentaria, appunto, che abbiamo imparato ad ammirare nelle opere di scrittori di punta quali Roland Barthes, Jorge Luis Borges, Octavio Paz, e che più recentemente hanno aperto la strada alla microstoria o flash fiction.

D’altra parte, come sostiene Emir Rodríguez Monegal, «un comando non si esercita soltanto mediante la docile accettazione degli allievi; si esercita mediante la resistenza che solleva una personalità, mediante la reazione che lo spessore e la proiezione della sua opera producono, e l’opposizione a partire dalla quale i migliori costruiscono la propria risposta. In questo senso la superiorità spirituale di Rodó si esercitò non soltanto sulla massa generazionale, ma anche sui ribelli, sotto forma di stimolo e di provocazione, determinando con la sua mera esistenza il bisogno di altre direzioni spirituali».{2}

Se è stato così – e sicuramente lo è stato – bisogna aggiungere che il primo ad esserne soddisfatto – se avesse potuto vederlo – sarebbe stato lo stesso Rodó. Tutto il suo insegnamento, paradigmaticamente condensato nella frase con cui inizia Motivos de Proteo, e cioè «Reformarse es vivir…», propende per la formazione di una personalità adulta e responsabile, che sia in grado di fare scelte consapevoli e che non arretri mai nella ricerca della verità, neanche se le soluzioni intraviste venissero a contraddire le proposte del maestro più amato, serbate con devozione nella memoria dei discepoli. La parabola intitolata al filosofo Gorgia{3} lo illustra con precisione e grazia. Nella cena di addio, prima di avviarsi alla morte – in una cerimonia e in circostanze tutte inventate da Rodó, ma che nel riecheggiare l’Ultima Cena evangelica testimoniano il suo costante desiderio di trovare un punto di sintesi fra cultura greca classica e cultura cristiana –, Gorgia respinge la proposta dei suoi allievi che vorrebbero giurare eterna fedeltà a ognuna delle sue parole. Col rifiuto di Gorgia Rodó ha manifestato il suo ripudio del fanatismo, ma anche di coloro che si adagiano pigramente sul dogma. «La verità che io vi ho comunicato» dice Gorgia ai suoi discepoli, «non vi è costata nessuno sforzo […] come invece vi costerà quella che acquisirete voi stessi, dal momento in cui comincerete veramente a vivere». E continua: «Amate il mio ricordo, ma la mia dottrina non l’amate oltre, se ne trovaste un’altra più nitida». Il brindisi quindi, proposto dall’allievo migliore, accettato dal maestro e spesso citato perché emblematico del pensiero rodoniano, recita: «A colui che mi sconfigerà, con onore in voi».

Il breve racconto citato è una delle molte parabole che Rodó amava usare per illustrare il suo pensiero e che si trovano concentrate soprattutto in Motivos de Proteo. La parabola, racconto breve che ha come scopo illustrare un concetto e dare un insegnamento morale, è normalmente associata all’uso che se ne fa nei Vangeli. E sicuramente Rodó ne era affascinato per queste due ragioni: una perché dietro c’era l’insegnamento di Cristo, e poi perché per lui era fondamentale associare la riflessione filosofica agli esempi della vita quotidiana. Nella parabola inoltre lui riusciva a visualizzare l’armonia tra il pensiero cristiano e la filosofia classica, che emerge spesso dalla ricostruzione che lui amava fare di miti greci e di personaggi storici, come si vede nei due esempi che presentiamo in seguito: Mirando jugar a un niño e Hylas, entrambi tratti da Motivos de Proteo.

Quest’anno si compiono cento anni dalla morte di Rodó e gli omaggi, i convegni e le pubblicazioni destinati a ricordarlo stanno proliferando in Uruguay, in Spagna e in Italia, come dimostrano l’incontro organizzato da Tomás Mallo presso l’Ateneo di Madrid il 9 maggio scorso, il convegno organizzato a Palermo il 4 maggio dalla docente di Letteratura Ispanoamericana, prof. Giovanna Minardi, in collaborazione con l’Istituto Cervantes, e la giornata organizzata dall’Ambasciata dell’Uruguay e dall’Istituto Cervantes presso la Sala Gaudì a Roma il 5 aprile scorso.



{1}Era l’opinione di Emir Rodríguez Monegal, che condivido: si veda il suo imprescindibile studio introduttivo alle Obras completas, Aguilar, Madrid, 1957, p. 76.

{2}Emir Rodríguez Monegal, op. cit., p. 79.

{3}La despedida de Gorgias (Il congedo di Gorgia) è il brano CXXVII di Motivos de Proteo, in Obras Completas, cit., pp. 449-451.




JOSÉ ENRIQUE RODÓ, PARABOLE
(Da Motivos de Proteo, 1909)



GUARDANDO UN BIMBO CHE GIOCA

***

Spesso c’è un senso sublime nascosto dietro il gioco di
un bambino.
Schiller, Thecla. Voce di uno spirito

Il bambino giocava, nel giardino di casa sua, con un calice di cristallo che, nell’ambiente luminoso del pomeriggio, un raggio di sole rendeva cangiante come un prisma. Reggendolo in una mano, non con grande sicurezza, in quell’altra portava un giunco con cui batteva ritmicamente sul calice. Dopo ogni tocco, piegando la graziosa testa, restava attento, mentre le onde sonore, nate come da un vibrante gorgheggio di uccello, si staccavano dal ferito cristallo e si perdevano dolcemente nell’aria. Fece durare così la sua musica improvvisata finché, in uno slancio di volubilità, cambiò il motivo del suo gioco: si chinò a terra, raccolse nelle palme delle mani la sabbia limpida del sentiero, e piano piano la rovesciò dentro il calice fino a riempirlo. Finito questo lavoro, spianò, per precisione, la sabbia irregolare negli orli. Non trascorse molto tempo prima che volesse risentire la fresca sonorità del cristallo; ma questi, ammutolito, come se un’anima fosse emigrata dal suo diafano seno, non rispondeva altro che con un rumore di secca percussione al colpo del giunco. L’artista ebbe uno scatto di rabbia di fronte al fallimento della sua lira. Stava per versare una lacrima, ma la lasciò in sospeso. Si guardò intorno, come incerto; i suoi occhi umidi si fermarono su un fiore bianco e fastoso, che sull’orlo di un’aiuola vicina, si dondolava sul ramo più sporgente mentre sembrava respingere la compagnia delle foglie, magari in attesa di una mano coraggiosa. Il bambino si avviò, sorridente, verso il fiore; si sforzò per raggiungerlo; e poi, catturandolo con la complicità del vento che fece abbassare il ramo per un istante, lo strappò, lo sistemò graziosamente dentro il calice di cristallo, divenuto superbo bucchero, e fissò il debole gambo grazie alla stessa sabbia che prima aveva soffocato l’anima musicale del calice. Orgoglioso della sua rivincita, sollevò, il più in alto possibile, il fiore intronizzato, e lo portò in giro trionfalmente in mezzo alla folla dei fiori.


***

Saggia, ingenua filosofia! – pensai –. Dalla crudele sconfitta non riceve sconforto durevole, né si ostina nel tornare al piacere perduto; invece, dalle stesse condizioni che avevano determinato il fallimento, prende ispirazione per un nuovo gioco, una nuova idealità di nuova bellezza… Non si trova qui un vertice di saggezza per l’azione? Magari nel corso della vita tutti noi potessimo imitare il bambino! Magari davanti ai limiti che la fatalità impone ai nostri progetti, alle nostre speranze e i nostri sogni, potessimo fare tutti come lui!... L’esempio del bambino dice che non dobbiamo accanirci nello strappare suoni dal calice con cui ci siamo compiaciuti un giorno, se la natura delle cose vuole che esso ammutolisca. E dice poi che è necessario cercare, attorno a dove allora ci troveremo, un fiore riparatore, un fiore da inserire nella stessa sabbia che fece diventare muto il cristallo… Non dovremo rompere stupidamente il calice contro le pietre del cammino, soltanto perché ha smesso di suonare. Forse il fiore riparatore esiste. Forse è lì vicino… Questo ci insegna la parabola del bambino; e ogni filosofia virile, virile per via dello spirito che la stimola, confermerà il suo fertile insegnamento.


HYLAS

Hylas,{1} efebo dell’epoca eroica, accompagnava Ercole nel viaggio degli Argonauti. Arrivate le navi sulla costa della Misia,{2} Hylas scese a terra, per portare acqua da bere ai suoi compagni. Nel cuore di un fresco bosco trovò una sorgente, serena e limpida. Si chinò su di essa, e ancora non aveva fatto il gesto di sommergere, sotto il cristallo delle acque, l’urna che portava in mano, quando emersero graziose ninfe, che strappando la superficie delle onde, lo presero, prigioniero d’amore, e lo portarono nella loro incantata dimora. I compagni di Hylas scesero a cercarlo non appena capirono il suo ritardo. Lo chiamarono in giro per la costa e affaticarono inutilmente l’eco. Hylas non ritornò mai; le navi continuarono il loro percorso verso il paese del vello d’oro. Da allora divenne abitudine, tra gli abitanti della regione dove rimase il prigioniero d’amore, andare a chiamarlo nelle praterie e nei boschi all’inizio di ogni primavera. Quando sbocciavano i primi fiori, quando il vento iniziava a diventare tiepido e dolce, la gioventù rigogliosa si spargeva, vibrante d’emozione, nei dintorni di Prusium. Hylas! Hylas!, chiamava. Agili passi violentavano i misteri della foresta; sulle dolci colline si arrampicavano gruppi sonori; la spiaggia si ornava con ragazzi e fanciulle. Hylas! Hylas!, ripeteva l’eco da mille parti; e il sangue fervente arrossiva le gioiose guance, e i petti battevano di stanchezza e di gioia, e le curve di tanta allegra corsa erano come ghirlande intrecciate sui campi. Col morire del sole, l’indagine finiva senza frutto. Ma la nuova primavera richiamava ancora per la ricerca del bell’argonauta. Il tempo indeboliva le voci che avevano suonato con briosa armonia; inabilitava i corpi un tempo agili per correre sui prati e sui boschi; nuove generazioni consegnavano il leggendario nome al vento primaverile: Hylas! Hylas! Vano clamore che non ebbe mai risposta. Hylas non ricomparve mai più. Ma da una generazione all’altra, le forze giovani si esercitavano nella leggiadra finzione; l’allegria della campagna fiorita penetrava le anime, e ogni giorno di questa festa ideale si ravvivava, con la purezza ancora non appassita, una sacra irrequietezza: la speranza in un miracoloso rientro.
Mentre la Grecia esistette, il grande richiamo aleggiò una volta l’anno nel vento della primavera: Hylas! Hylas!


***

Ci sia l’Hylas perduto da cercare, nel territorio di ogni umano spirito; ci sia un Hylas per ognuno di noi. Mettiamo che lui non ricomparirà mai: che importa, se la sola ansia di cercarlo è già maturità e stimolo con cui si conserva il gusto della vita?



{1}Hylas. Figlio di Teiodamante, re dei driopi, fu compagno e scudiero di Eracle, e lo accompagnò nelle sue gesta alla ricerca del vello d’oro. Morì durante una sosta a Misia, trascinato dalle ninfe in fondo a una sorgente. In genere in italiano il suo nome si trascrive Ila, ma s’è preferito lasciare l’ortografia arcaica e ornamentale dei parnasiani usata dall’autore.

{2}Misia. Regione situata a nordovest dell’Asia Minore.


Traduzione dallo spagnolo di Martha L. Canfield




JOSÉ ENRIQUE RODÓ: NOTIZIE BIOGRAFICHE

1871: José Enrique Rodó nasce a Montevideo il 15 luglio del 1871, nel seno di una famiglia dell’alta borghesia. Suo padre, José Rodó Janer, era un commerciante catalano che si era trasferito in Uruguay trent’anni prima, dopo aver vissuto per un certo periodo a Cuba. Sua madre, Rosario Piñeyro Llamas, apparteneva a una famiglia aristocratica, stabilitasi nella vecchia Banda Oriental dell’Uruguay ai tempi della colonia spagnola. Il 5 ottobre il bambino, sesto figlio della coppia, venne battezzato con i nomi di José Enrique Camilo.

1875: Sotto la guida della sorella Isabel, a quattro anni José Enrique sa ormai leggere e scrivere correttamente e precocemente fa uso della ricca biblioteca di suo padre.

1882: Viene iscritto al prestigioso collegio privato Elbio Fernández. Lì, insieme al suo compagno Milo Beretta, fonda il giornale studentesco «Los primeros albores» (I primi albori). Collabora pubblicando biografie di Benjamin Franklin e di Simón Bolívar.

1885: A conseguenza di un fallimento negli affari, la famiglia subisce un degrado economico peggiorato in seguito dalla morte del padre. José Enrique è costretto a iscriversi ad un liceo pubblico e nello stesso tempo inizia a lavorare come segretario di un notaio.

1890: S’innamora della giovane Luisa Gurméndez; del fugace evento rimane una documentazione epistolare che rivela l’idealizzazione amorosa fatta da Rodó e la sua timidezza quasi patologica.

1891: Lavora come impiegato di una Banca, il Banco de Cobranzas.

1895: Insieme a Víctor Pérez Petit e ai fratelli Daniel y Carlos Martínez Vigil fonda la «Revista Nacional de Literatura y Ciencias Sociales», attraverso la quale sviluppa un importante lavoro di critica letteraria, con particolare attenzione alla letteratura spagnola e ispanoamericana. Nello stesso tempo inizia una intensa corrispondenza con molti personaggi intellettuali dell’epoca, tra cui lo spagnolo Marcelino Menéndez y Pelayo.

1897: Pubblica il primo fascicolo della serie La Vida Nueva, con due saggi: El que vendrá (Colui che verrà) e La novela nueva (Il nuovo romanzo). In questo periodo soffre un’importante crisi interiore, di cui rimangono tracce nell’epistolario con l’amico Juan Francisco Piquet.
Il 25 novembre esce l’ultimo numero della «Revista Nacional de Literatura y Ciencias Sociales».

1898: Il 9 maggio viene nominato titolare della cattedra di Letteratura presso l’Università di Montevideo, incarico che manterrà per tre anni. Collabora con il giornale politico «El Orden» (L’Ordine), con articoli sempre segnati da una posizione moderata. Tuttavia, l’intervento degli Stati Uniti nella guerra di Cuba desta in lui un netto rifiuto, che sarà l’inizio della sua visione critica e dei suoi sentimenti antinordamericani.

1899: Pubblica il secondo fascicolo della Serie La Vida Nueva dedicato a Rubén Darío, sulla cui opera poetica lavora fin dal 1897. Il saggio viene molto apprezzato e diffuso. Lo stesso Darío, malgrado le critiche implicite, decide di inserirlo come prefazione alla seconda edizione di Prosas Profanas, pubblicata a Parigi nel 1901.

1900: Nel mese di febbraio si pubblica Ariel, terzo volume della serie La Vida Nueva. Il successo è enorme e immediato. L’opera si diffonde velocemente in tutto l’ambito ispanico e pochi mesi dopo esce la seconda edizione con una prefazione molto elogiativa dello scrittore spagnolo Leopoldo Alas, “Clarín”.
Il 19 giugno Rodó viene nominato Direttore della Biblioteca Nazionale di Montevideo.

1901: Si dedica intensamente all’attività politica dentro il Partito “Colorado” e collabora con il giornale «El Día», di José Batlle y Ordóñez, candidato alla presidenza e futuro presidente dell’Uruguay due volte (1903-1907 e 1911-1915). Batlle è inoltre un prestigioso esponente del radicalismo latinoamericano contemporaneo e durante la sua seconda presidenza vennero approvate importanti leggi sociali, tra cui l’assistenza dello stato a tutte le classi sociali, il divieto di lavoro dei minorenni, il massimo di otto ore per la giornata lavorativa, il divorzio per la sola volontà della donna.

1902: Rodó risulta eletto deputato per Montevideo. Per questo decide di dimettersi dalla cattedra di letteratura e di dedicarsi esclusivamente a quella che lui ritiene la sua “missione” politica.

1904: Dopo un lungo conflitto tra i due partiti politici tradizionali dell’Uruguay, il Partito Colorado (progressista) e il Partito Blanco (conservatore), scoppia la guerra civile. Questo sconvolge spiritualmente Rodó, come provano i suoi interventi al Parlamento e la corrispondenza con l’amico Juan Francisco Piquet e con Miguel de Unamuno.

1905: Inizia per Rodó un periodo di profonda crisi personale, che dura quasi due anni e che gli farà conoscere perfino la tentazione del suicidio. Presenta le dimissioni come deputato, con il che peggiora la sua situazione economica, già abbastanza difficile.

1906: Il 5 luglio, con una lettera aperta al quotidiano «La Razón», critica la decisione del governo di ritirare i crocifissi dagli ospedali pubblici, dando così inizio ad un lungo dibattito che più tardi sarà pubblicato completo, con tutti gli interventi, nel volume Liberalismo y Jacobinismo. Pur mantenendo sempre una posizione agnostica, Rodó ammirava la figura di Gesù e, seguendo in parte la linea di Ernest Renan, considerava fondamentale il suo insegnamento come base della nostra cultura. Inoltre, poiché la parola di Cristo è un richiamo all’amore e alla pietas nei confronti di ogni prossimo, non accettava che la sua immagine in un luogo di sofferenza, come gli ospedali, potesse considerarsi offensiva nemmeno per coloro che non erano credenti o professavano un’altra religione.

1907: Incomincia a lavorare come corrispondente del prestigioso quotidiano «La Nación» di Buenos Aires. Gli viene riproposta la cattedra di letteratura ma lui non accetta perché sente come dovere primario occuparsi dei problemi sociali e politici del paese.

1908: Risulta nuovamente eletto come deputato per Montevideo e rimane in carica fino al 1911, lavorando intensamente ad una serie di progetti di politica culturale. Scrive la relazione Il lavoro operaio in Uruguay.

1909: Pubblica Motivos de Proteo che si esaurisce velocemente. Il suo nome è ormai molto conosciuto e gode di una grande fama, essendo ritenuto un vero maître à penser e uno dei più raffinati prosatori di lingua spagnola.

1910: Il 14 aprile risulta eletto Presidente del Círculo de Prensa di Montevideo.
Il 17 settembre viene inviato in Cile, insieme a Juan Zorrilla de San Martín, come rappresentante ufficiale per le feste del Centenario dell’Indipendenza. Davanti al Congresso cileno tiene un discorso in cui espone la sua teoria dell’unità ispanoamericana.
Il 29 ottobre fa approvare una legge che elimina le tasse doganali per i libri stranieri. Come autore della legge viene ringraziato pubblicamente dai librai di Montevideo, i quali inoltre gli consegnano, in solenne cerimonia, una pergamena, il cui testo verrà pubblicato dopo in riproduzione anastatica dalla famosa rivista «Caras y caretas» di Buenos Aires.
Tuttavia, dal punto di vista psicologico, non tutto va bene per Rodó. Una crescente depressione, in parte dovuta alla situazione politica uruguaiana, sorge dalla sua corrispondenza, in particolare quella che mantiene con lo scrittore e critico letterario uruguaiano Hugo D. Barbagelata.

1911: Per la terza volta viene eletto deputato e questo terzo mandato dura fino al 1914. Diventa leader della frazione “colorada” che critica diversi punti della posizione del presidente Batlle y Ordóñez, soprattutto la formazione collegiale del potere esecutivo, da lui effettivamente introdotto in Uruguay.
Rodó non trascura l’attività culturale ma il lavoro politico e sociale restano per lui le priorità.

1912: Questo è un anno particolarmente difficile per lui. Avrebbe dovuto far parte della commissione ufficiale inviata a Cadice dal governo per i festeggiamenti del Centenario della Costituzione creata dalle Cortes de Cádiz quando iniziavano in America i movimenti indipendentisti; ma inaspettatamente Rodó viene sostituito. Questo gli provoca una profonda e amara delusione, dato che significa inoltre dover rimandare ancora il suo tanto desiderato viaggio in Europa.
Il 4 ottobre l’Accademia della Lingua Spagnola lo nomina membro corrispondente. Poco dopo è nominato redattore politico del «Diario del Plata», appena fondato con l’intenzione di riunire militanti del Partito Colorado in opposizione ad alcune scelte di Batlle y Ordóñez.

1913: Pubblica El mirador de Próspero, opera in cui raccoglie saggi, articoli di critica letteraria e conferenze, una miscellanea molto rappresentativa del suo pensiero.
Pubblica Bolívar, che più tardi riunirà con altri saggi, il quale viene subito molto apprezzato. Il Ministro degli Affari Esteri, in atto solenne, gli consegna una nota e una stilografica d’oro da parte degli intellettuali venezuelani, insieme con una lettera della famiglia Bolívar in cui lo ringraziano per il suo studio sul Liberatore.

1914: Scoppia la Prima Guerra Mondiale e questo lo turba profondamente. Lascia il «Diario del Plata» perché non condivide la germanofilia del giornale ed entra come redattore di un altro giornale, «El Telégrafo». Scrive articoli, manifesti e racconti a favore della causa degli alleati; dirige una sezione intitolata La guerra alla leggera.

1915: Vista la popolarità e l’apprezzamento critico ricevuto dai suoi saggi, Rodó decide di riunirne alcuni di essi con il semplice titolo di Cinco ensayos: Montalvo, Ariel, Bolívar, Rubén Darío e Liberalismo y Jacobinismo; invia il volume a Madrid dove viene subito pubblicato dalla casa editrice América. La crisi personale e le lotte politiche interne generano in lui un desiderio sempre più forte di allontanarsi dal paese. Così inizia a progettare un lungo soggiorno europeo, malgrado questo presentasse non poche difficoltà dovute alla sua precaria situazione economica.

1916: La rivista argentina «Caras y Caretas» lo nomina corrispondente letterario ed è precisamente grazie a questo incarico che Rodó riesce finalmente a partire e a realizzare il suo agognato viaggio in Europa. Le cronache del viaggio saranno raccolte nel volume postumo El camino de Paros. La notizia che l’aiuto gli venga fornito dal paese confinante e la conferma che il famoso scrittore non abbia ottenuto in patria quello che senza dubbio meritava commuove il mondo intellettuale uruguaiano. Come conseguenza si presentano, sia alla Camera dei Senatori che alla Camera dei Deputati, diversi progetti di incarichi possibili per lui, in particolare uno, che è quello di nominarlo Maestro di conferenze; ma lui non accetta.
Il 13 luglio il Circolo della Stampa organizza una grande manifestazione per salutarlo alla vigilia del suo viaggio, manifestazione che finisce per essere un’impressionante sfilata popolare di saluto e di affettuosa solidarietà.
Il 14 luglio Rodó s’imbarca sulla nave Amazon e parte verso l’Europa. La nave si ferma a Santos, Rio de Janeiro, Bahia, Recife e nell’isola di San Vicente.
Il 1º agosto sbarca a Lisbona dopo aver organizzato una visita al Presidente della Prima Repubblica Portoghese, che si era costituita nel 1910 con la fine della monarchia. Quasi d’incognito viaggia a Madrid e va a trovare Juan Ramón Jiménez, con il quale aveva da lungo tempo un amichevole rapporto epistolare.
L’8 agosto passa da Barcellona per conoscere la terra dei suoi antenati paterni.
Il 12 agosto attraversa velocemente il territorio francese fermandosi brevemente a Marsiglia.
Il 17 agosto arriva a Genova e da lì viaggia a Montecatini in Toscana. È ormai molto malato e ricorre alle famose terme dove spera di migliorare i suoi problemi renali e d’insufficienza cardiaca. Vi trascorre quasi un intero mese e poi prosegue l’intenso itinerario programmato, visitando Livorno, Pisa, Lucca e Pistoia.
Il mese di ottobre lo passa a Firenze, dove attraverso l’arte rinascimentale sente realizzato il suo sogno di armonizzare il classicismo con il cristianesimo, idea che sarà la spina dorsale del suo Diálogo de bronce y mármol, scritto durante il soggiorno fiorentino e pubblicato postumo nel 1918, ispirato a due famose sculture, il David di Michelangelo in marmo e il Perseo di Benvenuto Cellini in bronzo, a partire dalle quali ripropone l’idea platonica della bellezza.
Dopo Firenze, visita Bologna, Parma, Modena, Milano e Torino.
Il 20 dicembre arriva a Roma; della Città Eterna rimarrà un testo speciale, Una impresión de Roma, che sarà poi inserito in Motivos de Proteo.

1917: Il 21 febbraio si trova a Napoli e visita Sorrento, Capri e Castellamare. Scrive Nápoles la española.
Il 3 aprile arriva a Palermo e si stabilisce presso il Grand Hotel et des Palmes. È gravemente malato, fa una vita molto ritirata e non vede praticamente nessuno. Ma le poche persone con cui rimane in contatto notano il suo abbandono e la trascuratezza – rara in lui – del suo aspetto fisico.
Il 30 aprile viene ricoverato nell’Ospedale di San Saverio, che ormai non c’è più.
Il 1º maggio muore alle 10 del mattino. La diagnosi è di tifo addominale e di nefrite.
Il corpo imbalsamato viene provvisoriamente sistemato nel Cimitero di Santa Maria dei Rotoli a Palermo, fino al successivo rimpatrio.

1920: Nel mese di febbraio i suoi resti vengono portati a Montevideo e il giorno 27, dopo essere stati esposti nell’anfiteatro dell’Università, vengono sepolti con solenne cerimonia ufficiale nel Cimitero Centrale. Il discorso funebre è a carico di Juan Zorrilla de San Martín.


BIBLIOGRAFIA

Opere di José Enrique Rodó

  • La novela nueva, 1897
  • El que vendrá, 1897
  • Rubén Darío, 1899
  • Ariel, 1900
  • Liberalismo y Jacobinismo, 1906
  • Motivos de Proteo, 1909
  • El mirador de Próspero, 1913
  • El camino de Paros, 1918
  • Epistolario, 1921
  • Nuevos motivos de Proteo, 1927
  • Últimos motivos de Proteo, 1932
  • Obras completas, ed. Emir Rodríguez Monegal, Aguilar, Madrid, 1957

Traduzioni in italiano

  • Ariele, a cura di Martha Canfield, trad. di Diego Símini, Alinea, Firenze, 2000
  • Sulla strada di Paros, trad. e postfazione di Rosa Maria Grillo, introduzione di Fernando Aínsa, Oedipus, Cava de’ Tirreni, 2001

Studi critici

  • Castro Belén, El mundo de José Enrique Rodó (1871-1917), Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, 2010
  • Rodríguez Monegal Emir, Introducción General a J. E. Rodó, Obras Completas, Aguilar, Madrid, 1957, pp. 17-136
  • San Román Gustavo, Rodó en Inglaterra, Asociación Amigos de la Biblioteca Nacional, Montevideo, 2002
  • Vaccaro José, Rodó a los treinta años de su muerte, in Obras Completas, Ediciones Antonio Zamora, Buenos Aires, 1948, pp. 9-40

  • canfieldmartha@gmail.com