FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 42
aprile/giugno 2016

Residenze

 

LA CASA DELLE FATE

di Cinzia Marulli



*

Si ferma il tempo
nel percorso che m’avvicina
in questo luogo risiedi
qui – dove la vita passa nell’attesa.

Il candore della tua pelle m’accarezza
quella pelle tornata bambina
ora che invochi me
come fossi io tua madre.


*

Dove mi hai portato, figlia?

Qui, in questa nuova casa, mamma.

Ma dov’è la mia camera da letto?
dove sono tutte le mie foto?

Ma lì sei sola, chi ti guarda?
qui sarai accudita e starai in compagnia.

Ma in compagnia di chi?

Non lo so, mamma.

Va bene figlia, io rimarrò qui a morire.
Tu copriti prima di uscire che prendi freddo.


*

C’è il camino acceso che illumina
l’inverno
nel volto antico delle bambine
sono tutte sedute – quasi in circolo –
sulle rughe della loro vita
gli occhi aperti che cercano
attenzioni
aspettano i visitatori – i figli indaffarati
il cuore grande dei nipoti
mangiano i dolci
portati per convenienza
vorrebbero volare come ballerine
ma hanno bisogno di aiuto
anche per bere un sorso d’acqua
ognuna a raccontare la propria storia
a nascondere i dolori
sono belle tutte insieme
sono belle e tristi le bambine
e la Signora Morte neanche si nasconde
mentre le guarda
per decidere chi portare via per prima.


*

C’erano anche i giorni belli
nella casa delle fate
i giorni dove il sole entrava dalle finestre
e i sorrisi delle bambine diventavano perfino
veri

anche le ossa smettevano di dolere
e i ricordi sembravano quasi inutili

erano i giorni delle visite
delle passeggiate corte un metro
delle pastarelle
dei “mangiane poche che altrimenti ti fanno male”
ma tu lo sai che a ottant’anni non ti importa del
diabete
ti vuoi bere la vita, tutta quella che ti rimane
e goderti ogni cosa
che poi si torna a letto, in mezzo all’urina che esce
dall’incerata.


*

Giace così la fata
con lo sguardo fisso al soffitto
la notte – tutta – è tempo eterno
e non c’è voce o carezza che lambisca le lenzuola.

È silenzio.

Forse è meglio il sonno, quello vero
che quest’anima giovane è prigioniera
e mentre l’urina dilaga non c’è più la forza di girarsi
girarsi soltanto
su quel lato che apre la vista al sogno.

Ma il tempo, quel tempo che sembra infinito
lascia il posto al chiarore del mattino

si sentono i primi rumori, la casa si sveglia
arrivano le signorine, si cambia il letto,
s’asciuga l’incerata.
Finalmente il bagno, il pettine a rimettere in ordine le cose
la sedia con le ruote grandi
e di nuovo tutte assieme nella sala
la colazione col tè e le fette biscottate
quelle secche che impastano la bocca.

Poi quella maledetta televisione che ciarla
come fossero tutte sceme le fate,
come se non avessero passato la vita a salire le scale.
Arriva il pranzo con l’antipasto di pasticche
che fanno gli occhi tristi
e il purè di patate mollo come le giornate tutte uguali.

La minestrina a cena e poi di nuovo a letto
e la fata con gli occhi aperti fissi al soffitto
e la notte – tutta – è tempo eterno.

Eppure, eppure. Una carezza, solo una carezza.


*

Bella la fata, come una bambola
col vestito azzurro a fiori e la pelle finta di cera

e davanti alla Signora Morte mi fa l’occhietto e dice:
voglio un costume rosso per andare al mare
e un grande cappello di paglia.


*

Sss – dormono le fate
sotto lenzuola di talofen
con gli occhi spalancati nel buio

ti cerco, mamma, nelle mie notti insonni
dove la coscienza graffia e morde


*

È cieco il cammino
nel verso obliquo del destino
non ci sono luoghi dove racchiudere
il passato
dove nascondere le piaghe rarefatte
nelle rughe

È qui – in questo niente
che si consuma ciò che resta
– l’alito dolce del finire –

Negli anfratti distanti
dove la vita si è fermata
a guardare.


*

L’attesa del pranzo
mentre le mani scavano tra ricordi invisibili.

In questa giornata liquida
respiri e giaci
e ti addormenti
sognando il principe azzurro che ti abbraccia
e tu lo desideri ancora.


*

Eppure questo cielo grigio
mi sembra pieno di sole

non è l’acqua della pioggia
a bagnarmi le costole
ma il colore acre della tua assenza

perfino il cigolio della sedia a rotelle
è una musica cara
che abbraccia il ricordo.

Mi piacerebbe toccare la tua anima
accarezzarla di crema
come la pelle
calda e rosa che cedeva alle mie cure

questa tua anima
che vorrei guardare negli occhi
e ascoltarne la voce.

Ma tutto tace
e questo silenzio
è un filo trasparente che ondeggia nel vuoto
e non ci sono piedi da poterne stare in bilico

ma forse è precipitando
che c’è la pace
in quel dolore che c’è
e che ci deve essere.



La silloge è inedita.



marullicinzia@libero.it