FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 42
aprile/giugno 2016

Residenze

 

LE CITTÀ ERANO TUTTE VENEZIA

di Annamaria Ferramosca



area domestica con segnali

in ombra queste dita    inumate nella carta
l’imprecisione del profilo dei monti oltre il vetro
nella nebbia il valico che frana    quei visi
esposti all’insulto dei naufragi

avevi spalle robuste
e la sana ironia che alleggerisce il giorno
voce rassicurante    siamo avanti    avanti
avanzano incredibili orizzonti    la tavola di mendeleev
saltellante di vuoti e pieni    il silicio
l’occidente di shengen    con
gli urti gentili delle genti
tra cesti di speranza

nell’orto che brilla s’indovina
la radice geologica dei passi
avanzano    s’allungano di sete
verso il cuore del pozzo in seccume
riarsa la terra pesta    carta
dimenticata    come i graffiti sulla roccia
smunti    arresi

questa fine della casa che si offre
cerchio di fuoco allo scorpione

il televisore di là rimasto acceso


esterno con pioggia interno con acquario

è l’ora delle
prove di attraversamento distratto
nessuna attenzione a strisce pedonali
zigzag sul bagnato senza ombrello
senza documenti né borsa né portafoglio
schizzare via dalla giunglamercato

obliquando rallento prendo fiato
rispondo alla domanda muta
del venditore ambulante - è da un po’
che mi fissa perplesso -
sai la fine mi tiene d’occhio e voglio
andare senza direzione    come i bambini
fare splash nelle pozzanghere
se vuoi se hai tempo    appena
il tiglio smette di gocciolare
ti racconto una stupida vita
come stupisce come istupidisce

sai non si vede non si vede nessuno
nessuno è reale    piove sempre
nella pioggia sbavano i segnali
ma le pagine accidenti quelle sono
insperate di bellezza
disperante bellezza inarrivabile
poi i lampi i lampi
dall’oltre indecifrabili
martellano le tempie

e l’umano l’umano nausea
mi fa barcollare ma non mi arrendo
calpesto limiti recinti codici
e non mi perdono    ché anch’io sono umana
mi lascio vivere
un vivere piccolosemplice che almeno
un po’ faccia coesione
un rimpicciolirmi come
di seme tra semi

ora che mostro viso e braccia aperte
sento accendersi le voci
più libero il pianto più intense le carezze
apro armadi nel petto e
vado per salti    voglio dimenticare
zaino zavorra virgole de-finizioni
tanto so che l’altrove
mi tiene d’occhio

e dorme la mia bambina delle meraviglie
ancora irrubata dal mondo
intatta nel suo pianeta
cosa devo farci io con questo spudorato pianeta
cosa devo farci con il terribile che infuria
con le solite frasi il solito sgomento
con la spes ultima illusione
cosa devo farci pure con la poesia

tanto so che la nave
sta trascinando al largo
nel muto acquario dove ci si ritrova
come all’origine    nudi    oh finalmente
originali    miseramente
splendidi nel nulla


inversione sull’appia antica

non sono i miei passi che calpestano
le orme millenarie
qui accade un’inversione
è questa via che mi attraversa
con le sue dita quadre di basalto
dai talloni fino alla fronte

capovolto il tempo
s’accostano le ombre mi parlano
il tono sommesso e familiare come fossero
amici di sempre incontrati al bar
l’aria benevola    ridiamo
nel ricordare le passate storie    ma
siamo indulgenti visto che
sentiamo di trovarci finalmente
nel chiaro nel vero
in questo tempo oltre il tempo    visto che
siamo in tremore sull’ultima soglia
ascoltandone il rombo

alberi ed erbe s’incurvano
annuiscono
alle soste disseminate di dubbi
riconosciamo i semi lasciati in terra
le loro pupille perplesse
ci dicono di cose come
l’oriente il suo rassegnarsi al tramonto
il pulviscolo che siamo il suo ignaro agitarsi
e quelle nostre eliche perfette    ignare
la loro instancabile offerta della copia

chiamiamo vita questa gioiosa cecità
e ancora ci ritroviamo    siamo noi
giovani anziani tribuni imprenditori
schiavi matrone martiri lenoni
la posa un po’ meno statuaria
un po’ più accigliati    rassegnati
lunghi i silenzi    poi
come in un abbraccio
scoppia la risata cosmica

la piccola Nicole mi mette sulla testa
una corona di foglie di piantaggine


terra dei silenzi e dei nomi

dove cade l’ultima luce
là sulla terra della riservatezza
dove non oso accostarmi
un profilo drammatico
s‘incurva sui bordi del silenzio

ha occhi penetranti matematici
mentre continua la sua caccia al tesoro
così spontanea così lucida
senza ombra di premeditazione

eppure da tempo non mi lancia più
i suoi eureka felici
come le note di fisarmonica
quando improvvise scoppiano
durante i matrimoni
donna che accogli nutri conservi
il seme la bella carne
in sequenze memorabili
oggi stralunata ti aggiri
nel laboratorio imminente del tramonto
uomo che resti vigile dominus
pugnale innestato a ordinare
ri-ordinare eliminare
ecco ti spengo non ti registro

per fortuna restano i sogni
a illudere a rammemorare
restano tracce di linguaggi
di manufatti di macchinari
con la loro usurata grammatica
a dire l’irrevocabile

ecco il futuro claudicante
che viene a salutare
(il destino che già ci occhieggiava
nei nomi)


le città erano tutte venezia

a Nicole

bello vederti bere l’aria al mattino
mentre salti sul mondo
e s’accendono le arance
ti svegliano svelano
solo a te mondi scintillanti

ammutolisco
sulle frasi che lanci
verso la mia geometria disfatta
mi fai il segno del silenzio
io piccola alunna tu maestra
mi metti seduta    spossessata di storia
sotto l’arco di un tempo abbagliante

vedo con le pupille lunari dei gatti
torcersi i meridiani
sotto i tuoi passi di conchiglia
emergono dal tuo mare
isole che non raggiungo
scopro il segreto delle città conosciute
erano simili sì simili ovunque
erano tutte venezia
con il vaporetto dell’ultima corsa

romamor che muore
mi appiattisce d’asfalto
distesa sono un’altra
un’altra lunga storia che sprofonda

ti tengo strette le mani
mia bambina degli oceani
affondiamo insieme
abbracciando la dolce terra

di sopra il rogo si spegne
tu insegui saette di luce
e rondini di un cielo vivo
sei già risalita già bevi
l’aria del mattino


nella luce che declina

fatemi luce non vedo più il percorso
brancolo sul mio profilo    non mi riconosco
non ti riconosco

respiro cenere    piove dal cielo
dove l’umano è in fumo
piove dal suo fumo
cenere di boschi e d’anime
piove tenace l’errore

arrivi a me dal mare
senza giustizia né perdono
confinato nel campo dove
tuo figlio non riesce a giocare
ha negli occhi domande raggrumate
padre perché questa rete
padre voglio tornare    non m’importa morire
per guerra o fame
qui più atroce l’indifferenza

homo insipiens    tuo l’ideogramma
coltello sulla gola    t’immoli
per un cielo del nulla
dilegua con te un cammino millenario
si spalanca l’abisso
nella luce che declina


una casa che prima non c’era

una mano che scrive
semplicepotente gesto
capace di parlare al tempo
mano che scrive ostinata
prima del nuovo diluvio

scrive di cose quotidiane
eterne e inesorabili come
una nascita una fioritura
una casa che prima non c’era
o la festa dei geni quando si mescolano
o l’entusiasmo quando insieme inseguiamo utopie
(lasciavamo graffiti sulle rocce
i nostri cerchi i fuochi    le impronte
di mille mani)

mano che scrive    ostinata
a fermare il tremore


aprile-maggio 2016



La silloge è inedita.



ferrannam@gmail.com