Distinguere il rumore di una scarpa da un’altra, il passo svelto e impaziente di un ragazzo da quello lento di un vecchio, lo scricchiolio del brecciolino sotto un tacco femminile o il rumore sordo di un piede immerso nella pozzanghera: a questo dedicava le sue intere giornate. All’infinita varietà di suoni, di rumori e di profumi che si infiltravano dal lucernaio della stanza da letto. Si perdeva in quel mormorio irritante che andava man mano ad amplificarsi in eco sulle pareti dove la rassegnazione le colmava.
Non era fuggita via quel giorno. Aveva dieci anni, era al supermercato con sua mamma a comprare gli ingredienti per una torta, una rapina e il proiettile aveva deviato su di lei, incidendo sulla tempia una ferita profonda. Ora aveva dinanzi a sé uno specchio nero che non rifletteva più nessuna illusione.
Cieca. Troppo semplice dire: non vedente. Quando il sangue abbandona il colore dell’iride, quando l’immagine è suggerita, quando percepisci il calore sul viso e ti chiedi quale sia la fonte che lo emana è la privazione. Privazione e basta, incondizionata.
Ora adulta e divorziata era tornata a vivere nella casa materna, spogliandola di ogni inutile orpello tranne quadri di fotografie appese alle pareti che lei stessa aveva incorniciato intuendone il ricordo.
Quella mattina si svegliò prestissimo. Il tempo quando si è ciechi raddoppia l’ansia accorciando la premura. Scostò le lenzuola e si sedette sul letto. Avvertì il metallo della sponda del letto, quando a fatica, alzandosi, tentò di raggiungere il bagno. Però prima si infilò un guanto di cotone leggero, la ceramica del lavandino sotto le mani insicure le impediva spesso di afferrarla, e poi con il bastone affrontò il pavimento scivoloso, maledetto marmo, che veniva perlustrato da piedi nudi, impauriti, già lividi. Ventinove anni, cuoca per diletto, viveva con una misera pensione di invalidità.
Grandi passi ridotti a fare i conti con la dipendenza assoluta da un bastone che ad ogni movimento scandiva il tempo con il suono arrugginito del ferro che lo rivestiva. Finito di essere in bagno percorse il lungo corridoio sfiorando le foto che lo contornavano. Un rituale mattutino che le dava il senso della stabilità che nulla nella notte, notte solo per gli altri, fosse mutato.
Raggiunse la cucina, l’aspettava una crostata di mele da confezionare per una festa di compleanno. Si mise prima su il caffè e quando fu pronto lo sorseggiò con estrema cautela vicino al lavabo, attenta a non farlo cadere, nulla era più odioso che versare anche una sola goccia sul pavimento. Poi si mise al lavoro.
Prese una mela, grande sotto le dita, una buccia consistente e porosa. Con le unghie grattò via le piccole impurità. Con un coltellino asportò la scorza ed i semi. La tagliò a fette sottili. Un ispessimento sul pollice le dava la giusta misura. Ne sbucciò abbastanza e le mise in una teglia a mollo con succo di limone. Tutto era pronto. Farina, zucchero, uova, erano sul tavolo dalla sera prima.
Lo ricordava il bambino, la sua figura; occhi imprigionati in lenti spesse, tenute insieme da un filo leggero di metallo che a stento riusciva a contenere. Era sempre stato un litigioso, si scazzottava con chiunque lo urtasse anche involontariamente. Ora frequentava la quinta B della scuola elementare. La scuola di fronte alla sua casa. A metà mattina, durante la ricreazione, si sedeva a prendere il secondo caffè sul suo balconcino e lo sentiva mentre in giardino, solitario, attribuiva suoni e colori ad insetti ed oggetti indefiniti, forse solo per lei.
Era lui che le raccontava fiabe, quando presa dalla disperazione implorava che qualcuno la levasse dal mondo. Il buio non ha mai voluto avere intimità con nessuno. Tirava calci al muro per sentirne il dolore ed eliminare pensieri scuri. E lì, Luca, il bambino dagli occhi malati, figlio di una vicina di casa, rideva e raccontava di mostri e robot. Nelle urla di un gioco l’insofferenza cambiava la veste.
Era arrivato il suo decimo compleanno. E con il compleanno anche la partenza. Si sarebbe trasferito. Un appartamento a poche centinaia di metri da Lei. Una distanza enorme. Un’altra mutilazione.
Condiva le sue mele e il pensiero si fermò all’unico maschio che per ringraziarla le aveva sfiorato una guancia sussurrandole: Emma, sei bella. L’innocenza di un pensiero alimenta la speranza. Non poteva permettersi di sognare. I colori non svaniscono e si tramutano in spilli.
Poca farina, sfuggita al controllo di un ordine ovvio, arrivò ai piedi. Non se ne accorse e scivolò, cadendo malamente a terra. L’orientamento era debole. A tastoni cercò una gamba del tavolo. Sottomettersi, raggiungere compromessi con se stessa e con la casa, era l’umiliazione più grande. Ribollì di una rabbia sana, scaraventando tutto quello che le mani potevano raggiungere. Non le fregava più nulla della torta e di quel dannato ragazzino.
Si rialzò a fatica e con violenza menò il bastone su ogni parete raggiungendo il bagno. Doveva levare l’odore di sangue che sentiva dal piede. Si doveva essere ferita con qualche arnese o qualche stupido spigolo. Doveva lavarsi, lavarsi piedi e mani e ricominciare. Tornare in cucina e riprendere. Confezionare la torta, perché anche non volendo la giornata continuava.
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