Un taglio longitudinale, profondo fino alla falda freatica dei ricordi. L’acqua partorita dalle nubi penetrava goccia a goccia e calava su di una rachitica semenza. Per tre anni la stessa sequenza, tre anni come un lungo istante ho vissuto. Poi mi è spuntata qualche memoria in forma di basilico sulla testa. Foglie minuscole, l’odore persistente. Nonostante l’esuberanza della vegetazione qui, nella cordigliera occidentale, il basilico nei vasi dei quartieri residenziali di Cali ha foglie microscopiche. Così, microscopico, il passato. Il mio nome, da dove vengo, quanti anni ho, con chi sono sposato. Un mantra ripetuto ogni giorno in sessioni terapeutiche da cui ne uscivo come l’omino nei quadri di Magritte, che non si sa se è fatto di evanescenza, di nuvole, di atmosfere fiabesche o macabre, carico di una mela di ricordi, un fardello che carico e scarico ogni giorno.
Adesso, qui seduto alla panchina, attendo il moderno autobus della città, il Mio. La pianta di basilico è rigogliosa, i ricordi accomodati come in una biblioteca da poco ordinata secondo la classificazione Dewey. Adesso rido assieme a mia moglie quando sulle dita di una mano illustra, proprio come io ero solito fare, che due figli sono suoi, due miei e uno di entrambi. Come avrò potuto mai dimenticare cinque figli per tre anni?
Sfrecciano taxi e auto. Dei ragazzini penzolano da un bus che da un momento all’altro potrebbe prendere a correre a folle velocità o svoltare bruscamente, non prestano attenzione ai richiami di un poliziotto in sella ad un motore.
Il Mio sta tardando, non so bene a che ora dovrebbe arrivare, ma sono sicuro che sta tardando. Non ho fretta, sono partito con un certo margine d’anticipo sull’orario dell’appuntamento con la mia amica Anaclara. Inoltre. Inoltre il ritardo mi dà la possibilità di mostrare ad una coppia le vestigia archeologiche che ho sulla fronte: un sistema di terrazzamenti degno della migliore architettura incaica. Lui mi chiede se posso prestargli la tessera Mio, lei scuce già 3600 pesos, io gli prometto di passare la mia tessera alla macchinetta obliteratrice e mi metto a capo di un breve tour tra le scolpite terrazze della mente.
Proprio quando sono sul punto di cominciare, arriva il Mio ed interrompere violentemente l’escursione. La coppia chiede informazioni all’autista e mi liquida con un grazie... per i biglietti del Mio!
Mi esilio in un sedile, lato finestrino. Vedo sfilare un carretto trainato da un vecchio uomo con una scatola su cui c’è scritto Bananen, perché le nostre banane sono sul carretto globale ed è più facile che ci mettano un’etichetta in Germania e le rivendano qui in Colombia che si cominci seriamente a fermare tutto lo sfruttamento che c’è attorno ad esse. Anche cos’erano le banane l’avevo dimenticato. Ricordo che in terapia me le mostrarono in foto all’interno di un power point, il giorno dopo non sapevo riconoscerla e allora decisero che era meglio mostrarmi la frutta, ma ancora al terzo giorno nulla e quindi pensarono bene di solleticare la memoria del palato. Fu l’aiutante della terapista a suggerirlo. Aveva preso a cuore il mio caso e fu lei stessa a prepararmi delle banane fritte molto deliziose. Al quarto giorno, sperando in un’altra razione, credo finsi di non ricordare. Ahimè mi ritrovai a retrocedere allo stadio del riconoscimento via algide slides.
Lungo la carrera 6 intanto il circo va avanti. Ho sempre ammirato i giocolieri agli incroci delle grandi arterie di Cali. Loro sono capaci di allestire uno spettacolo coinvolgente, regalarti un collier di denti bianchissimi in forma di sorriso, un gracias, qué le vaya bien e nascondere qualsiasi tensione, malanimo, affanno, anche quando nel cappello teso qualcuno lascia appena 100 pesos. E di farlo tutto perfettamente sincronizzato coi semafori. Io gliene scucirei molti di più solo per godere dello spettacolo dei loro denti.
Sono quasi sempre ragazzi afrodiscendenti molto abili e intelligenti, costretti a cercare di sbarcare il lunario restando per strada col sole cocente o coi nubifragi, o più spesso con entrambi nel nostro inverno da cambiamento climatico. Sono così in gamba che non ho smesso mai di pensare ad un paio di cosette su di loro. La prima. Se la giocoleria diventasse sport olimpico, vinceremmo sempre una medaglia e non dubito del colore del metallo. La seconda. La più pragmatica. Dovremmo scegliere i vigili del traffico tra i giocolieri della città.
Mi tocca scendere, o meglio smaterializzarmi nel minor tempo possibile da quel parallelepipedo con ruote, sornione solo fino a quando restavo nel suo stomaco. Credo che tra qualche anno potrò prendere unicamente taxi per muovermi in città. Meglio non pensarci per adesso. Questa volta ho egregiamente passato la prova, saltando una pozzanghera e aiutando una signora a montar su col suo passeggino. Mi distende pensare che andrò a casa di Anaclara, è un covo di artiste attempate da cui riemergo sempre con nuovi stimoli ed energie.
È un’amica pittrice di Anaclara ad aprirmi. Appena la porta si chiude dietro di noi ho la sensazione che tutta la frenesia di Cali, amata e detestata, riesca a stare dietro a quel diaframma di legno e cemento in cui mi sto riparando. Quest’oggi ci sono quattro nuove amiche di Anaclara e sperimentiamo una sessione di acroyoga, ne sono molto eccitato. A seguire ci sarà sicuramente spazio per le mie terrazze della mente, che bel racconto sfodererò.
Mentre mi tolgo le scarpe per raggiungere il tappetino sono perplesso, non sarò troppo vecchio per l’acroyoga? Qui dicono che mi faranno volare, temo per la mia dentiera. Taccio. Ma no, lo dico. Ragazze, mi cadrà la dentiera? La risata è fragorosa.
L’acroyoga è una bella scoperta. Viene proposto di fare una sessione di meditazione di una mezz’oretta. Sono d’accordo, creerà il clima giusto per le mie terrazze della mente. Espiriamo profondamente e riapriamo gli occhi, siamo visibilmente sul pianeta chiamato distensione. Prendo la parola e incomincio a sottolineare i benefici prodotti dalle attività svolte, anche per il mio caso. Sì, perché quelle che vedete sulla mia fronte sono, come amo definirle, le mie terrazze della me... Ma la porta sbatte fragorosamente. Il diaframma forato.
L’assedio alle terrazze è a mano della nipote di Anaclara. Solitamente sta con la madre, ha però deciso di restare due settimane a casa della zia. Come lei ama il bambù e dipingere. Tra le mani, avvolto in una magliettina grigia, si dimena qualcosa di nero. È un uccello, non so bene a quale specie appartenga, somiglia molto ad un corvo. Lo posa sul pavimento e fa un giro su se stesso, una trottola macabra. Ha qualcosa di rotto.
Ti accompagno da un veterinario che conosco, lo studio è ancora aperto. Sono proprio io a sacrificarmi, visto che il fortino di pace è stato assaltato, meglio mettersi a capo dell’azione.
Mi rimescolo al caos di Cali, prendiamo un taxi. Il veterinario che conosco è il migliore della città, il suo studio si trova però dall’altra parte della città. Bisogna attraversarla tutta e proprio nell’ora di punta. Che gran fortuna! La nipote di Anaclara accarezza la bestiola e le sussurra qualche parolina dolce. Io socchiudo gli occhi per non stancarli di tanto traffico attorno, non credo mi appisolerò.
Si staccava una foglia, poi un’altra di un verde intenso, una corona di rugiada le copriva. Ogni foglia un pezzo di vita, ogni infiorescenza un sogno, una visione, una capriola dell’esistere. La pianta giaceva in un vaso e non più nella terra in cui, una notte di luna piena, un taglio longitudinale, profondo le aveva fatto giungere alimento. Da quel momento non furono più le cariche nubi ad abbeverarla bensì le lacrime di una donna. La sua pelle di cacao la facevano bella come una dea, ma le sue guance erano rigate da lacrime come quelle stesse foglioline di basilico lo erano di rugiada. Era tenace e combattiva, per questo le sue lacrime le aveva potute vedere solo la piantina. Ogni lacrima fortificava la pianta che diventava sempre più fitta di foglie e verdeggiante. Ogni pianto era un racconto destinato a seccarsi nel giro di un tramonto.
La ragazzina mi scuote, certo che mi ero appisolato alla fine! La brutta notizia è che lo studio era chiuso per lutto e noi con la bestiola tremante tra le mani avevamo invano preso parte alla salsa matta che ballano di sera le strade di Cali. E ci toccava ancora un altro ballo.
Il traffico è già più agevole e in una quarantina di minuti mi ritrovo daccapo protetto da quella sottile membrana di legno. Erano andate tutte via e dovevamo vedere che fare con l’uccellino ferito. Sono animali molto fragili, non solo le loro ossa quanto il loro animo. Se soffrono molto, per un nonnulla muoiono di tristezza. Penso ai miei genitori. Mia madre era morta di tristezza, venti giorni dopo la morte di mio padre, per fortuna ormai entrambi abbastanza anziani. Penso anche a quando io avevo avuto l’età della nipote di Anaclara e avevo incontrato un canarino per strada. All’inizio l’entusiasmo di poterlo salvare poi, poco a poco, l’impotenza nel constatare che ogni azione era vana, non aiutava anzi avvicinava sempre di più il canarino a quella tristezza letale.
Non devo raccontare nulla di tutto ciò alla nipote di Anaclara, devo però anche ammettere che mi ritrovo in uno stato di impotenza aumentata. Sapevo come controllare se avesse fratture, lo faccio. Nulla. Sapevo che potevamo darle dei tocchetti di frutta o del mangime che Anaclara aveva in casa. Sapevo che potevamo riempirle un vaso d’acqua. Lo faccio. Sapevo che forse sarebbe stato necessario somministrargli via becco delle gocce di acqua e zucchero. Sono costretto a farlo. Non avrei voluto però sapere il finale.
Anche questa volta, a distanza di cinquant’anni, non ero riuscito a salvarlo dalla tristezza. E a nulla valeva, adesso, la mia fanfara di parole sulle terrazze della mente. La fanfara sempre pronta a suonare. Era stata per molto tempo il mio jolly. Dopo un silenzio come una prateria scossa da un vento che ulula incessante per tre anni, avevo anch’io la mia grande storia. Ero uno smargiasso e questa volta avevo la possibilità di rimpicciolirmi.
È finita, la sua breve esistenza è finita. Non sapevo quali altre parole scegliere. Anaclara era lì nella stanza, ma aveva lasciato a noi due lo spazio intimo degli ultimi istanti. Credo che quella donna fosse capace di capire cose che non si dicevano eppure stavano nei polmoni, nei cuori.
D’istinto presi per mano la nipote di Anaclara e uscimmo. Era molto tardi adesso, poche macchine e qualche neon di locali. Ci incamminammo verso il parco dei frangipani, i petali si sfogliavano anche di notte. Decidemmo insieme che sarebbero stati la tomba dell’uccellino. Con una grazia rara da raccontare dividemmo la tristezza.
Anche le terrazze della mente si riempirono di petali di frangipane, vidi il profilo di un omino che prese a dormire sotto quelle coltri profumate. Adesso, invece di accomodare pietre ora dopo ora, riposava con un sorriso appena dipinto sulle labbra.
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