È uno dei titoli più belli di questi tempi, L’isola che sono diventato di Armando Santarelli, una raccolta di prose e riflessioni apparse negli ultimi anni su varie riviste. Ma non si tratta solo di suggestione dei titoli. L’autore di Le cipolle e altri racconti e Periferia della specie è uno dei pochi scrittori di racconti che ci siano rimasti. Il respiro delle sue novelle è abbastanza lungo da lasciar percepire un universo fatto di elementi fuori squadro e non allineati. Nel senso che la forte presenza di una ideologia, quella ambientalista, non si traduce solo in saggi sulla aggressività antropica o in azioni narrative in cui l’eroe affronta, pettorali in fuori, le minacce della distruzione in luoghi deputati della letteratura esotica contemporanea. Il Santarelli narratore celebrava nozze mai tradite con la casa madre del paese – il piccolo villaggio della montagna laziale, individuato e dettagliato, non mitizzato attraverso dislocazioni simboliche –, delle sue semplici bellezze, per chi le sa vedere, tuttalpiù con l’altra montagna, quella sacra che domina i suoi ricorrenti viaggi, l’Athos raccontato in La montagna di Dio.
Anche in questa raccolta di saggi e articoli domina una vocazione alla mistica antropologica che non permette all’autore conformismi di parte, ma penetrazione nelle profondità cui la pubblicistica dominante ha rinunciato da tempo. Il terrore del vuoto religioso, l’orrore degli sprofondamenti nell’essere, comunque lo si voglia concepire, hanno contribuito alla fondazione delle riserve indiane della ricerca di quello che Freud avrebbe chiamato l’unheimlich, oltre le quali c’è lo sfizioso rischio del corteggiamento salottiero del buddismo o del tao.
La libertà di Santarelli gli consente l’attraversamento dei limina stabiliti dall’atomizzazione di una libertà imposta dall’alto e supinamente recepita come conquista sociale. Di scegliere apparentemente tutto, soprattutto il superfluo e l’inerte che torna minaccioso attraverso nuove forme. La sua coscienza, talvolta assai dolente e straordinariamente partecipata, di un fraintendimento che spesso diviene corteggiamento delle cerimonie consumistiche che tanto – e dagli stessi personaggi – venivano derise anni fa, permette alle sue riflessioni di toccare luoghi interdetti alla rassegnazione corrente mascherata da battaglie civili e libertarie.
I temi trattati qui, la solitudine spacciata per libertà, la scienza e la natura, il paese –qui in senso di comunità – e la sua rifondazione in funzione di una sostenibilità di un progresso altrimenti suicida, sono attraversati da questa partecipazione emotiva. Questo lo autorizza, ad esempio nell’intervento che dà titolo al libro, a constatare ciò che altrimenti sembrerebbe scontato.
Ci sono persone che ordinano il pranzo da uno yacht che naviga in mezzo all’oceano, e vanno a ritirarlo in elicottero; nello stesso istante, i bambini africani continuano a subire sevizie e violenze, a combattere imbracciando dei kalashnikov, a morire di fame e di stenti.
L’isola che sono diventato è la prova provata che la scrittura non deve per forza estenuarsi in compiacimenti fini a se stessi o tentare combinazioni algoritmiche di sentenze che sembrino nuove e inaudite. C’è una realtà profonda nelle cose, sembra dire l’autore, che va cercata anche e non solo nelle contraddizioni e nelle apparenti sconfitte dei giorni. Altrimenti il livello di visibilità di quella zona comune si inabissa, lasciando spazio a penose esibizioni del sé, quando non acrobatici tentativi di trovare spazi nelle zone ancora utilizzabili della produzione.
La singolarità di Santarelli saggista è quella del non nascondimento dietro l’autorità fittizia dell’onniscienza. Non l’onniscienza narrativa ottocentesca di cui ogni vent’anni si celebrano funerali senza seppellirla peraltro mai, ma quella che automaticamente si insedia nell’immaginario del rapporto tra scrivente che per statuto narrativo sa e lettore che accetta questa subordinazione.
La sua peculiarità, assai poco frequentata da noi, se non da poche eccezioni tra cui il compianto Terzani, lo spinge ad affrontare paludi e scogli metaforici fino ad un certo punto enunciando direttamente le difficoltà e le impossibilità da mettere in conto di tale attraversamento. Così appare la tentazione del nulla, di fronte alla apparente insensatezza di alcuni exempla, e parallelamente aggalla la comprensione del perché molti intellettuali, medici, avvocati, artisti (ricordiamoci di Rimbaud, di Stevenson, di Gauguin), semplici abitanti della terra scelgano altre vie che non quelle del compra e fuggi, come i silenti monasteri athoniti o i ripari del silenzio e della dimenticanza di sé e degli altri: “Come mai il pellegrino occidentale è così affascinato dall’Agion Oros?”.
È qui che si pone la domanda sul perché molti se ne sono andati. E sul perché l’assenza consoli e inviti al rinnovamento di sé più di quanto non faccia la presenza e il magistero attivo.
Aveva ragione l’Abbà Isacco: più un uomo fugge dal mondo, più gli altri si sentono attratti da lui.
Un libro, questo, che serve a capire come la militanza attiva a difesa della natura, la sensibilità ai movimenti dell’anima, una nitida e nel contempo radicata visione dei tempi e degli spazi antropici possano convivere con le profonde domande sull’essere e i suoi limiti, e diventare profezia di nuovi possibili occidenti.
Armando Santarelli, L’isola che sono diventato, Edizioni Fili d’Aquilone, 2015, pagine 193, 15 euro.
Armando Santarelli è nato a Cerreto Laziale nel 1956 ma da tempo vive a Gerano (Roma).
Ha pubblicato Le cipolle e altri racconti (Sovera, 1998), Avifauna dei Monti Ruffi (in Monti Ruffi, Provincia di Roma - Assessorato all’Ambiente, 1998), Fisionomia dell'irriverenza (La Voce del Tempo, 2001), Periferia della specie (Robin Edizioni, 2006), La Montagna di Dio (Rubbettino, 2009).
Nel 2015 è uscito il libro di prose L’isola che sono diventato (Edizioni Fili d’Aquilone).
Per i tipi di Robin Edizioni è in corso di pubblicazione il suo primo romanzo, Padre per errore.
Relatore in numerosi convegni dedicati al tema della spiritualità, scrive per le riviste cattoliche «Tendopoli» e «Incontro per una Chiesa viva». Da anni collabora a «Fili d’aquilone».
testi.marco@alice.it
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