L’abolizione della mediazione affidata al sostrato colto autoriale è una delle caratteristiche della narrativa di Lucrezia Lerro. Le sue voci narrate sono percorse da una propria autorità assertiva: non vengono esposte da una realtà seconda, quella autoriale, ma sembrano emanare direttamente dalle scaturigini affettive (Il rimedio perfetto), dall’immaginario infantile – fino ad un certo punto – (La bambina che disegnava cuori) o della solitudine inesorabilmente artigliata dal delirio paranoide (Sul fondo del mare c’è una vita leggera). La penetrazione nei labirinti spesso oscuri dell’anima profonda, quella che giace prima del regime diurno della logica, stavolta è dentro la donna “vittima” della sua mestrualità. Il sangue matto (2015) del titolo mondadoriano è proprio il sangue ciclico del corpo femminile che qui diviene ossessione, pena, senso di colpa, segno di un marchio originario.
Anche qui come altrove, il linguaggio narrativo è direttamente agganciato alla psiche delle sue protagoniste: donne delle più svariate estrazioni sociali che non si confessano, come si sarebbe tentati di dire comunemente, ma si impongono direttamente in una sorta di lacerazione degli statuti narrativi. Il flusso di coscienza non viene né colto nella sua pre-grammaticalità, come nei noti exempla primonovecenteschi, né regolato e ordinato in sistemi logico-referenziali più strutturati. Aggalla da distanze che sembrano inattingibili, se non che la scrittura della Lerro riesce a mostracene nello stesso tempo la loro prossimità al quotidiano, con improvvisi flash, rimorsi che sembrano non avere apparente motivo, considerazioni sul proprio esiguo, se non spirante, conto in banca. Come avviene comunemente nelle subitanee accensioni dentro l’immaginario nostro o della persona costretta ad appiattirsi su di noi nelle frenate del tram.
Appena una non sta bene (in quella circostanza stavo bene, tant’è che avevo appena finito di mangiare qualcosina), dico, se una non sta bene, con la scusa del mestruo questi fottuti ti mettono ko.
Alcuni elementi fanno da leit-motiv: non solo il ciclo femminile, che talvolta parla in prima persona in una inusuale personificazione, ma anche la psicoanalisi, che assume però una dimensione tutta sua, talmente a parte da divenire in alcuni episodi inserto inerte, una sorta di obbligo contemporaneo non si sa quanto pertinente alla veridicità attanziale o alle convinzioni autoriali. Tranne quando questo motivo indotto non diviene primario grazie alla sua dislocazione non più nei generi, nei tic della borghesia in cerca di sostituzioni della confessione cristiana, nelle ricette dell’oggi, ma nella necessità di essere-per-l’altro: il riferimento al Jung di “Solo il medico ferito può guarire” diviene il cuore medesimo della narrazione, quella “sacrosanta verità” che è alla base del rinnovamento personale, dello scambio simbolico e del rapporto veridico (e spesso salvifico) con l’altro.
Si diceva della personificazione del sangue che diviene a sua volta voce narrante. Una voce che rappresenta la fisicità abissale, l’evento ineludibile, la necessità pura che soggiace al di qua di ogni manifestazione del pensiero, ogni sofisma intellettuale ma anche ogni superfetazione difensiva.
Mi insinuo mensilmente nella tua vita, mi fingo amico, ma lo sono? In metro non ci sali, non riesci a respirare sottoterra. Con i tacchi ti accetti di più, alcune volte. Dove andiamo? Dove vado? Dove va questa gente arrabbiata di prima mattina? Tu non esci senza mascara perché l’uomo dei sogni potresti incontralo per strada e con un colpo di ciglia conquisteresti il suo cuore. Ma quale uomo dei sogni?
Questa narrazione corale, fatta di una polifonia di voci dolenti non è però l’agiografia del dolore inevitabile, la registrazione del definitivo non-senso dell’esistenza. Se mai ne rappresenta non l’accettazione, ma l’invito a camminare, visto che ci siamo, e a mettere in mora il nostro sguardo sul mondo. Oltre le letterature che hanno banalizzato i valori vitali come il concepimento, l’avvio di una strada comune, qui si concretizza l’invito a fare il proprio destino nel sì che cambia luce alle cose e a se stessi. Non è un caso che il titolo di una sezione sia “Il corpo dice sì: un’altra vita”.
Fino a qualche anno fa mi dicevo: “Un figlio, io? Ma se a malapena riesco a badare a me stessa!”. E invece eccomi sul divano a casa, con il mio bel pancione; sono sette mesi che non ho il mestruo, che i mei fastidi ormonali si sono trasformati in vita nuova. Da quando il mio corpo ha detto sì all’amore, alla vita, alla rivola ormonale, la mia quotidianità è cambiata.
Lucrezia Lerro, Il sangue matto, Mondadori, 2015, pagine 163, 12 euro.
Lucrezia Lerro è nata a Omignano, in provincia di Salerno, nel 1977, vive e lavora a Milano.
Sue poesie sono apparse su “Nuovi Argomenti”, nell’“Almanacco dello Specchio” (Mondadori) e nell’antologia Nuovissima poesia italiana (Oscar Mondadori).
Nel 2005 ha pubblicato per i tipi di peQuod Certi giorni sono felice (2005, Selezione Premio Strega 2006; poi riproposto nel 2008 nei Tascabili Bompiani) e nel 2010 la raccolta di poesie L’amore dei nuotatori. Per Bompiani ha pubblicato i romanzi: Il rimedio perfetto (2007), La più bella del mondo (2008), La bambina che disegnava cuori (2010), Sul fondo del mare c’è una vita leggera (2012) e per Mondadori: La confraternita delle puttane (2013) e Il sangue matto (2015).
testi.marco@alice.it
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