Innanzitutto una doverosa precisazione: l’articolo che segue non ha pretese di originalità, basandosi principalmente su libri ed articoli giornalistici prodotti da altri. Il mio intento è stato quello di indagare, e riflettere in poche pagine, uno degli aspetti più controversi della religione musulmana, ovvero il fanatismo e la violenza che caratterizzano sia l’Islam storico, sia una frangia minoritaria, ma crescente e pericolosa, dell’Islam contemporaneo.
Per quanto riguarda il Corano, mi sono avvalso di una traduzione, quella curata dal professor Federico Peirone, docente all’Istituto di Orientalistica dell’Università di Torino, in cui le più delicate questioni ermeneutiche, come lo stesso studioso ha teso a precisare, “sono state trattate in chiave islamica, in modo da vedere con occhio di simpatia il pensiero originale del testo sacro dei musulmani”.
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Non c’è libro, convegno, studio dedicato all’Islam in cui non venga apertamente pronunciata una dichiarazione che, riguardando una religione, può apparire paradossale: non esiste l’Islam, esistono diversi Islam, quello del Corano e quello della teologia islamica medievale, quello “ufficiale” degli ulema e quello mistico delle confraternite sufi, quello fondamentalista dei Fratelli Musulmani e quello laico di Stati come la Tunisia, quello radicale dei wahabiti sauditi e quello dei musulmani che credono fermamente nella tolleranza e nel rispetto per qualsiasi forma ed espressione religiosa.
Certamente, differenze e contrasti nel modo di interpretare i testi sacri e di vivere la propria fede sono presenti in tutte le religioni. Ma la cesura fra i diversi Islam sopra delineati riguarda un tratto particolare (e gravido di conseguenze) di questa religione, ovvero il suo manifestarsi, ancor oggi, come una confessione che persegue l’obiettivo di sottomettere a sé l’intera Umanità, che condanna di eresia il cristianesimo e l’ebraismo, che ha tra i suoi seguaci militanti che vogliono instaurare uno Stato teocratico usando le armi, o che aderiscono al jihad della guerra con azioni terroristiche.
In realtà, è indubbio che la stragrande maggioranza dei musulmani rifiuti l’Islam radicale dei fanatici del jihad aggressivo e violento, e consideri la propria religione non meno pacifica del cristianesimo e del buddismo. Attualmente, nel mondo si contano più di un miliardo e mezzo di musulmani; il Califfato e le organizzazioni terroristiche islamiste non raggruppano più di cinquantamila membri, ovvero lo 0,003 per cento dell’Islam. È chiaro che non si può, a causa di una versione distorta e assolutamente minoritaria dell’Islam, denigrare la religione di miliardi di musulmani. E tuttavia, l’escalation dell’islamismo (ovvero dell’Islam più oltranzista e bellicoso) sta provocando in tutto il mondo un senso di rigetto contro l’Islam in generale, rigetto che comincia a coinvolgere persone e ambienti da sempre favorevoli all’integrazione sociale e al rispetto di ogni forma religiosa.
Il 12 ottobre 2002, a Bali, in Indonesia, il sanguinoso attentato dell’organizzazione Jemaah Islamiya provoca 202 morti.
Nel 2004, le bombe poste nella stazione ferroviaria di Atocha, a Madrid, causano 191 vittime e 2057 feriti.
Nel luglio 2005 arrivano gli attacchi contro la Gran Bretagna ideati da musulmani che lì vivono da due generazioni.
Nel 2006 le azioni terroristiche provocano stragi in India, Sri Lanka, Egitto, Turchia, Russia, Filippine.
Nel 2007 il Pakistan registra più di 400 attentati commessi da unità combattenti talebane, con il tragico bilancio di più di 3.600 morti.
Nel solo anno 2011, l’organizzazione jihadista nigeriana Boko Haram, nota per i numerosi attacchi contro chiese cristiane, si rende responsabile di più di 450 omicidi.
Nel 2014 arriva la guerra per la costituzione di un Califfato islamico dell’Iraq e della Siria, e le macabre decapitazioni di reporter e cooperanti occidentali, alcuni dei quali, come lo scozzese David Haines e l’inglese Alan Henning, lavoravano come volontari in Organizzazioni umanitarie.
Il 2015, infine, vede l’atroce attentato nella sede del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, le stragi avvenute in Tunisia, Kuwait e Somalia, e le ripetute esecuzioni di cristiani ad opera di cellule islamiste legate all’Isis o ad Al-Qaeda.
È importante precisare che gli attentati terroristici di matrice islamica sono diretti in maggioranza contro dei correligionari; le statistiche dimostrano che il contrasto fra sciiti e sunniti miete più vittime degli attacchi contro obiettivi occidentali. Ma questo, ovviamente, non fa che aggravare il problema, confermando la crescente e abnorme pericolosità del terrorismo perpetrato nel nome di Allah e le preoccupazioni di chi pensa che l’Islam sia una religione fisiologicamente conflittuale e violenta.
L’atteggiamento intollerante e aggressivo di una parte dell’Islam non disdegna di manifestarsi nei suoi luoghi di culto. Sul Giornale del 18 settembre 2006, il giornalista Marcello Foa riportava il severo giudizio di Hani al Nakshabandih, editorialista di Elaph, uno dei giornali panarabi più letti su Internet: “Nei sermoni del venerdì insultiamo cristiani ed ebrei, chiedendo a Dio di distruggerli. In ogni scuola inculchiamo ai nostri alunni che i cristiani sono impuri e andranno all’inferno. In ogni casa cresciamo i nostri figli insegnando che cristiani ed ebrei sono i nostri principali nemici e che dovremmo ucciderli, altrimenti loro ammazzeranno noi.”
Per rimanere in Italia, prima che fosse arrestato nel luglio 2007, Korchi el Mostapha, imam della moschea di Ponte Felcino (Perugia), trasmetteva questi insegnamenti ai figli di musulmani accolti civilmente nel tessuto sociale locale: “Voi bambini musulmani siete superiori ai cristiani, e il giorno del giudizio andrete in paradiso, mentre i cristiani bruceranno all’inferno. Dovete far capire agli altri che siete superiori. Dovete colpire i bambini italiani finché non esce loro il sangue. Dio ci protegga dagli americani, dagli ebrei e dai cristiani. Dio li distrugga e li renda deboli, Allah è con noi”.
Com’è possibile parlare di Dio in questo modo? E soprattutto, come si può pensare di uccidere in Suo nome?
Prima di addentrarci nella questione di maggior rilevanza che l’Islam pone al mondo contemporaneo, è doveroso ricordare che anche in nome della Chiesa cristiana sono state commesse violenze di ogni tipo (le crociate e le persecuzioni contro gli ebrei, le cacce agli eretici, il massacro di popolazioni “pagane” ecc.) spesso con la connivenza, o addirittura con la piena approvazione delle Autorità ecclesiastiche. Ma non c’è dubbio sul fatto che questa strana concezione del missionariato – che prevede anche il ricorso alla violenza – non avrebbe mai potuto trovare una giustificazione nel libro sacro del Cristianesimo, il Vangelo. Se è vero che sono esistite una Chiesa e una società cristiana intolleranti e combattive, si deve anche riconoscere che ciò non è ascrivibile ad una possibile interpretazione in tal senso del Nuovo Testamento, il cui messaggio è agli antipodi del militarismo e della violenza. Nonostante gli errori, le confusioni e le deviazioni imputabili alla Chiesa, non si può non riconoscere che dal Vangelo, sorgente primaria della fede cristiana, emerge con chiarezza l’essenza del Cristianesimo, ovvero Gesù e il suo modello di vita, il suo messaggio d’amore e di fratellanza universale.
È del tutto lecito, invece, porci l’interrogativo se la pretesa dei movimenti islamisti di trarre (anche) dal Corano la legittimità delle loro azioni violente, trovi effettivamente un qualche riscontro nel libro sacro dell’Islam.
Preliminarmente bisogna ricordare che per i musulmani il Corano è parola di Dio dettata alla lettera e senza intermediazione umana. Maometto è solo il veicolo di trasmissione della volontà divina, che gli viene comunicata dall’Arcangelo Gabriele. Dunque, il Corano è Allah stesso, increato al pari di Allah, e non è ammesso interpretarlo come un testo linguistico, come ebbe a sperimentare il teologo e intellettuale egiziano Nasr Hamid Abu Zayd (1943-2010), che pagò a caro prezzo la sua libertà di pensiero. Docente di letteratura araba all’università del Cairo, Abu Zayd sosteneva la necessità di un’interpretazione socio-storica del testo coranico, effettuata secondo i moderni criteri dell’ermeneutica, in modo da distinguere il senso ultimo del messaggio divino dalla forma storica che esso assunse per poter essere comunicato agli uomini. Ebbene, a causa di queste posizioni, nel 1992 Abu Zayd fu accusato di apostasia; giudicato colpevole in base alla cosiddetta “legge della vergogna”, il suo matrimonio fu annullato in primo grado nel 1994, e definitivamente nel 1996, costringendo l’intellettuale e sua moglie Ibtihal Yanis a lasciare l’Egitto.
Impressionanti alcune sue testimonianze raccolte in Una vita con l’Islam, pubblicato dalla casa editrice il Mulino nel 1994. “Da noi si parla molto di scienze coraniche, ma dietro questa parola si nasconde solo il timore che questa disciplina possa essere coltivata come una vera scienza. Nella mia facoltà si insegnavano poesia, filosofia, storia, islamistica. Molti studenti rifiutavano ogni novità: non accettavano la discussione, la ripudiavano (…) Se durante una lezione accennavo a una poesia d’amore poteva accadere che un diciottenne si alzasse per dire che nell’Islam le poesie d’amore erano proibite (…) Invece di assolvere al mio compito e quindi di discutere della struttura e del contenuto di una poesia, dovevo trovarne il titolo di legittimità all’interno dell’Islam. Dovevo scendere a un livello che non è degno di un’Università, il livello del permesso/vietato. Potete facilmente immaginarvi le reazioni se durante i miei corsi sul Corano dicevo per esempio: ‘Il Corano è un prodotto della sua cultura’.”
Oggi, i sostenitori di una rilettura del Corano aperta alla moderna esegesi interpretativa si vanno moltiplicando. Nel pregevole Dialogo sull’Islam tra un padre e un figlio – opera che ha il merito di chiarire alcune fra le più dibattute questioni relative alla religione islamica – lo studioso di religioni Dag Tessore scrive: “Il messaggio profondo del Corano è certamente parola di Dio, sapienza divina, ma essa, penetrata nel cuore di Muhammad, fu poi da lui espressa in parole umane: le singole parole arabe del Corano, quindi, di fronte all’assoluto di Dio, sono solo fragili e imperfetti tentativi di esprimere il Divino”.
Molti altri riformisti e modernisti lavorano per scardinare il rigido edificio eretto dagli ulema classici intorno al libro sacro dell’Islam. Il compianto intellettuale algerino Khaled Fouad Allam, già docente presso le Università di Trieste e di Urbino e da sempre impegnato a favore del dialogo fra la cultura islamica e l’Occidente, riferendosi al noto discorso di Papa Ratzinger a Ratisbona, così scriveva su la Repubblica del 13 settembre 2006: “Il Santo Padre solleva dunque un immenso problema riguardo alla reale posizione del Corano di fronte alla questione della violenza. Il problema è veramente complesso, perché il testo coranico non può considerarsi un semplice libro: ha bisogno di uno strumento per essere chiarito e interpretato. Già il celebre Averroè nel suo trattato dal titolo L’accordo fra religione e filosofia affermava: ‘Esistono nella legge divina (Corano) dei passaggi che hanno un significato esteriore, e la cui interpretazione è obbligatoria per gli uomini nella dimostrazione razionale, e che essi non possono interpretare alla lettera’.” “Il problema dunque”, concludeva Fouad Allam, “non è tanto ciò che è contenuto nel testo coranico, ma come gli esseri umani si ispirino ad esso, alla rivelazione.”
Purtroppo, osserva Tessore, “è molto raro che un musulmano legga il Corano senza essere preindirizzato dall’esegesi tradizionale”. E nell’esegesi tradizionale il Corano ha natura “increata”, è parola incorrotta di Dio, immutabile e ininterpretabile. Anche Alessandro Bausani, nel notissimo L’Islam, lascia pochi dubbi in proposito: “L’ispirazione del Corano, secondo la teologia islamica, è nettamente “letterale”, è una vera e propria dettatura dell’angelo (…) Nell’Islam non si è mai sviluppato un liberalismo teologico di esegesi del testo sacro quale si è sviluppato nel mondo cristiano (ora persino nel più ortodosso) che ammette cioè una certa libertà personale dell’autore delle sacre linee, che è ispirato da Dio, ma non è direttamente Dio (…) Il Libro Sacro, letto, assaporato, meditato, imparato a memoria da ogni pio musulmano ha influito sulla vita della comunità forse quanto nessun libro sacro ha mai fatto”.
In Il seme del terrore, Malise Ruthven, professore all’Università di Aberdeen (Scozia) e autore di opere importanti sull’Islam e la sua cultura, riporta la testimonianza di Ralph Bodestein, compagno di università di quel Muhammad Atta che era a capo del commando terrorista che schiantò il Boeing 767 dell’American Airlines contro la Torre Nord del World Trade Center: “Atta non poteva accettare che esistessero più modi di leggere il Corano, più modi di essere un buon musulmano. Non riuscì mai ad ammettere che c’erano delle contraddizioni o delle difficoltà. Riconoscerne anche una sola avrebbe condotto al crollo di tutta la struttura del testo sacro”.
“Questa forma mentis”, commenta Ruthven, “non mi è sconosciuta: in Gran Bretagna l’ho ravvisata nei musulmani colti quando ho indagato sul caso Rushdie. Un giovane insegnante di biologia che incontrai a Bedford aveva pronunciato parole pressoché identiche. Il Corano era perfetto, inviolabile, vero nel senso in cui è vero un manuale scientifico”.
Torniamo così alla cruciale domanda postaci in precedenza: se questo è il modo in cui molti musulmani intendono il messaggio coranico, è nel libro sacro dell’Islam che i più radicali e intransigenti fra di essi trovano la giustificazione per ricorrere all’aggressività e alla violenza?
“Bisogna riconoscere”, dice Padre Samir Khalil Samir, insigne filosofo e teologo, docente e visiting professor in varie Università e uno dei massimi esperti cattolici dell’Islam, “che nel Corano c’è un’apertura alla tolleranza, ma anche un’istigazione alla violenza. Bisogna riconoscere che il terrorismo non nasce soltanto da motivazioni socio-politiche, ma anche da un’interpretazione di passi innegabilmente violenti del testo coranico”.
È difficile contestare le parole di Padre Samir. Nel Corano esiste un meraviglioso brano relativo alla tolleranza che ogni professione religiosa dovrebbe nutrire nei confronti delle altre: “A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica; ma ciò non ha fatto per provarvi in quello che vi ha dato. Gareggiate, dunque, nelle opere buone, perché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia”.
Ci sono molti altri versetti che fanno appello a mezzi pacifici per diffondere la fede. Per esempio, quello della sura XVI (125-127): “Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore, ché il tuo Signore conosce meglio di chiunque chi dalla sua via si allontana, meglio di chiunque conosce i retti”; e quello, notissimo, della sura II, 257: “Non vi sia costrizione nella fede”.
Purtroppo, nel Corano esistono versetti di tutt’altro tono, che autorizzano la lotta e la violenza per la difesa e la diffusione della fede. Le parole contenute nella sura IX, 5, nota come il “versetto della spada”, ne costituiscono l’esempio più noto: “Quando poi saranno trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostatevi ovunque in imboscate. Se poi si convertono e compiono la Preghiera e pagano la dècima, lasciateli andare, poiché Dio è indulgente e clemente”.
Scrive Dag Tessore che “questo versetto fu rivelato – pare – in un ben preciso contesto di battaglia contro le tribù arabe, ed è quindi un’esortazione a combattere quei nemici (che erano, in quella battaglia, dei miscredenti, cioè arabi pagani). Prendere questo versetto da solo e farne una regola di validità generale e perpetua sarebbe assurdo, proprio perché fu rivelato in un preciso contesto concreto e in funzione di quel contesto. Eppure è proprio questo che è accaduto nella storia dell’Islam (…)”.
È dello stesso avviso il professor Reuven Firestone, uno dei massimi esperti mondiali di studi ebraici ed islamici. Maometto, osserva Firestone in Jihad: The Origin of Holy War in Islam, dovette affrontare situazioni molto difficili durante la sua missione profetica, perciò Dio fece scendere su di lui delle rivelazioni che lo aiutassero nei momenti più incerti e delicati. I versetti del Corano rivelati nel periodo meccano, quando Maometto versava in uno stato di debolezza e di vulnerabilità rispetto ai suoi oppositori, consigliano di rimanere pazienti e di evitare lo scontro fisico; al contrario, dopo l’emigrazione a Medina – ovvero quando la comunità musulmana era diventata più forte e coesa – Dio concesse al Profeta di difendersi anche col combattimento.
Resta il fatto che la sura IX, 5 contiene un’esplicita esortazione ad uccidere; e che nel libro sacro dell’Islam troviamo altri versetti che ammettono comportamenti violenti. Nella sura II, 190, il Corano recita: “Combattete sulla via di Dio contro chi vi combatte, ma non andate oltre”. Se una tale prescrizione può rientrare nel campo di quella che, in qualsiasi società umana, è riconosciuta come una legittima difesa, insomma una guerra difensiva, il versetto seguente, la sura II, 191, gronda una violenza chiara e implacabile: “Ammazzateli dovunque essi si incontrino! Fateli uscire da dove essi vi hanno cacciato! La persecuzione è più forte della strage. Non combatteteli presso la moschea haram, a meno che essi vi diano battaglia in quei paraggi: ché se in verità vi attaccano, uccideteli! Questa è la fine degli infedeli!”
Nella sura IV, 89, troviamo: “Vorrebbero far di voi degli infedeli come loro, vorrebbero che voi vi abbassaste al loro livello. Fate attenzione a non crearvi tra loro degli amici, se prima non emigrano nel sentiero di Dio. Se si girano indietro, prendeteli, fateli morire ammazzati ovunque essi si trovano, e tra loro non cercate né amico né soccorritore”.
Ricordando ancora una volta che il Corano, secondo la teoria ufficiale, è parola increata e inimitabile, e che il suo messaggio ha sostituito tutte le precedenti rivelazioni divine, la conclusione di questa prima riflessione appare scontata: se esistono musulmani, di ogni livello culturale ed estrazione sociale, che si rifanno al libro sacro dell’Islam per giustificare l’uso della forza, è perché il Corano contiene versetti che autorizzano la violenza, a differenza del Nuovo Testamento e di altri libri sacri (come ad esempio gli antichi testi del buddismo e del giainismo) che bandiscono ogni forma di lotta e di ricorso al combattimento.
C’è da aggiungere che l’atteggiamento bellicoso di una parte dell’Islam trova una forte motivazione nel comportamento dello stesso Maometto. La shari’a – il corpus sistematico delle norme religiose islamiche – prescrive che, oltre all’osservanza del Corano, i musulmani debbano seguire la condotta di vita del Profeta e rifarsi ai suoi hadith (i brevi racconti che riportano alcuni aneddoti su Maometto e i detti da lui pronunciati al di fuori della rivelazione). Ora, non c’è dubbio sul fatto che Maometto, come testimoniano anche i suoi più antichi biografi, sia stato protagonista di razzie, guerre e altre azioni cruente. Quanto agli hadith, fra quelli attribuiti con certezza al Profeta ve ne sono alcuni in cui l’autorizzazione alla violenza è dichiarata palesemente, come il seguente: “Mi è stato ordinato di fare la guerra contro le genti finché non professino che non c’è dio all’infuori di Allah e che Maometto è il suo profeta, compiano la preghiera e diano l’elemosina. Se fanno ciò, risparmierò le loro vite e i loro beni”. E questo: “Chi muore senza aver mai fatto guerra e senza essersi mai proposto di farla, morirà come un falso credente”.
Non c’è da stupirsi, dunque, che la formazione e il consolidamento dell’Islam abbia coinciso con una massiccia attività militare, iniziata nel VII secolo dai successori di Maometto, Abu Bakr e Umar, e protrattasi sino al XIII secolo. Le rivelazioni medinesi avevano concesso al Profeta di combattere; quando la comunità seguitò a crescere, nuove rivelazioni ampliarono il raggio d’azione dell’Islam, finché si arrivò a concludere che la guerra contro i non musulmani poteva essere fatta in qualsiasi momento e ovunque.
Il biografo inglese di Maometto, W. Montgomery Watt, aggiunge un’altra motivazione all’aggressività del primo Islam. Secondo questo studioso era inevitabile che le energie delle tribù arabe, precedentemente impegnate nei conflitti intestini, dovessero rivolgersi verso l’esterno: “Quando le varie tribù dell’Arabia si consolidarono in un unico gruppo socio-politico forte e fondamentalmente unito, l’enorme energia che prima si consumava in faide tribali, incursioni e tentativi di dominare altri clan non trovò più sfogo (…). Questa enorme energia aveva bisogno di uno sbocco e l’unica possibilità era quella di veicolarla verso l’esterno, contro l’estraneo, colui che non apparteneva all’affiliazione ormai extraparentale della umma (la comunità musulmana)”.
Certamente, dal punto di vista storico si può ammettere che nell’atteggiamento di lotta e di conquista da parte dell’Islam rientri, oltre a un’aspirazione ideologica, la tradizione del mondo antico. Il Regno di Israele, il Sacro Romano Impero, il Papato di Gregorio VII, il Giappone nel periodo dell’Impero Antico, lo Stato Teocratico Cristiano di Bisanzio, rivelano tutti la tendenza a passare dal locale all’universale. Allo stesso modo, alla morte di Maometto i musulmani cercarono di affermare l’Islam come religione dominante in tutto il mondo. Ma è il mezzo usato per la sua diffusione a distinguere l’Islam da altre religioni: perché è stata la guerra – il jihad offensivo – il principale strumento per universalizzare la religione musulmana e instaurare un impero mondiale.
Quando la prima, grande espansione islamica si arrestò, il mondo rimase diviso in dar al-islam (la casa dell’Islam) e dar al-harb (la casa della guerra). Accettando l’assunto secondo cui l’obiettivo ultimo dell’Islam è la sua universalizzazione, il dar al-islam era teoricamente in conflitto perenne con il dar al-harb. Il jihad, riflettendo i rapporti di guerra fra musulmani e non musulmani, era – e per l’Islam più intransigente è ancora – lo strumento statale per trasformare il dar al-harb in dar al-islam.
Entriamo così nel tema del jihad, questione davvero complessa e importante, che va inquadrata nella giusta luce.
Il commento introduttivo di Federico Peirone alla sura IX del Corano da lui tradotto è un buon punto di partenza: “Il semantema gihad (battaglia, combattimento), deriva dalla prima forma (vocalizzata) del verbo gahada (sopportare, soffrire, sacrificarsi); dalla stessa scaturisce la terza forma verbale, che significa esattamente combattere”.
L’etimo ci aiuta a comprendere che in effetti il jihad, come aveva lasciato intendere lo stesso Maometto in uno noto hadith, e come aveva già teorizzato nel XII secolo il grande teologo e filosofo persiano Al-Ghazali, debba essere inteso in due modi: c’è il “grande” jihad, che consiste nella lotta per purificare se stessi e arrivare a Dio, e il “piccolo” jihad, che si identifica con il combattimento e con la guerra. Inoltre, secondo molti fra i sostenitori di questa interpretazione, il piccolo jihad va inteso in senso difensivo, e il suo valore è nettamente inferiore a quello del jihad maggiore.
Ma che cosa è scritto nel Corano a proposito di jihad?
Il docente di Storia dei Paesi Islamici Massimo Campanini, nel saggio Il Corano e la sua interpretazione, osserva che, basandosi sul libro sacro dell’Islam, non è possibile utilizzare inequivocamente la locuzione “guerra santa”. Il termine jihad, continua, compare in forma precisa nel Corano solo quattro volte.
La prima è nella sura 9, 24: “Se i padri e i figli, i fratelli e le mogli, e tutta quanta la vostra famiglia e i beni che acquistate e gli affari dei quali temete il fallimento e le case che vi piacciono vi sono più cari di Dio e del suo rasul e del combattimento (jihad) nel sentiero di Dio, dovete aspettarvi un ordine distruttore da parte di Dio”.
La seconda è in 22, 78: “Combattete per l’onore del Dio, secondo le leggi del suo combattimento (jihad). Egli ha eletto voi”.
Altro versetto in cui appare il termine jihad è il 25, 52: “Ma tu non obbedire ai miscredenti, ma combattili con esso in una guerra grande (jihad)”. Molti interpreti, sia medievali che moderni, intendono la parola “esso” con “Corano”; dunque, siamo dinanzi ad un jihad di predicazione, di persuasione religiosa, non di carattere militare.
Il quarto passo (60, 1) recita: “Se voi uscite per una lotta (jihad) sulla mia Via e per desiderio della mia soddisfazione, ma segretamente nutrite affetto per essi (i nemici), ebbene Io meglio conosco quel che voi celate e quel che voi palesate”.
Sebbene quest’ultimo versetto appaia meno chiaro degli altri, è evidente come il jihad citato nei passi coranici si riferisca al grande jihad, ad una lotta di tipo spirituale, e non alla chiamata ad una “guerra santa” di aggressione e di conquista.
Abbiamo visto, tuttavia, che il Corano contiene versetti che incitano indubitabilmente alla violenza. Come si conciliano con quelli appena citati? Come dev’essere intesa l’ingiunzione di alcuni passi coranici a combattere con le armi?
Per la maggioranza dei teologi modernisti liberali, il combattimento che Dio concede di praticare è esclusivamente quello a carattere difensivo. A sostegno di questa interpretazione, i citatissimi versetti 2, 190: “Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non andate oltre”, e 4, 90: “Se dunque essi vi lasciano in pace e non vi combattono e vi offrono la pace, Dio non vi permette di combatterli”.
In effetti, il jihad è stato sì elemento integrante dell’espansione islamica, ma secondo molti giuristi esso non costituiva un obbligo personale, tanto che non rientra nei “cinque pilastri” (o obblighi fondamentali) dell’Islam (la professione di fede, la preghiera, il digiuno nel mese di Ramadan, l’elemosina e il pellegrinaggio alla Mecca). Subordinato, nella tradizione classica, al jihad associato alla guerra, il concetto del jihad spirituale e difensivo comincia a essere elaborato secondo moderne categorie interpretative solo ai primi del Novecento. In particolare, per i riformisti salafiti egiziani Muhammad Abduh e il suo discepolo Muhammad Rashid Rida – autori di un fondamentale commento coranico – il jihad va inteso anzitutto come impegno per annunciare al mondo la verità dell’Islam; il ricorso alla guerra è consentito solo a scopo difensivo, nel caso cioè che i musulmani vengano attaccati dagli infedeli.
Molto autorevole, in questo senso, è il pensiero del grande Muhammad Asad, linguista, politologo, teologo, scrittore, giornalista, diplomatico, e di sicuro il più influente musulmano europeo del Ventesimo secolo. Asad, nato come Leopold Weiss nel 1900 a Lemberg (Impero Austro-Ungarico, ora Ucraina) era di religione ebraica, ma in seguito a dissidi col Movimento Sionista, e dopo aver viaggiato nei Paesi Arabi, si convertì all’Islam. Autore di testi celebri come The Road to Mecca e The Message of the Qur’an, dopo la conversione Asad inizia un’instancabile opera di mediazione tra Occidente e mondo musulmano. Convinto che l’Islam debba spogliarsi di ogni fanatismo, e presentarsi nella sua veste più moderata, Asad si pronuncia sul jihad in modo inequivocabile: il combattimento consentito dal Corano è esclusivamente quello a carattere difensivo; solo per la difesa della libertà religiosa si possono, – anzi, si debbono – imbracciare le armi.
Nel commento di Federico Peirone alla sura IX del Corano troviamo lo stesso pensiero: “Ogni uomo è chiamato all’islam. La chiamata potrebbe anche (si noti bene: non “dovrebbe”) essere forzosa, appunto attraverso la guerra santa. Il termine, in origine laico, divenne presto sacralizzato e il semantema iniziale recepì quasi subito una sfumatura religiosa. La guerra santa è un diritto del Dio e un dovere che obbliga globalmente la comunità musulmana; ma quando la comunità è presa di mira da non musulmani, tale dovere può diventare da globale a singolare. Tuttavia l’islam non ha mai considerato la guerra santa come una finalità a se stante, ma come un mezzo. La lotta armata, vista in senso isolato, è un male, che diventa legittimo e obbligatorio in forza del bene supremo che tende ad assicurare la propagazione o la difesa della fede”.
Oggi, come già detto, questa interpretazione è condivisa da un numero sempre maggiore di teologi e intellettuali islamici; purtroppo, per i musulmani convinti che l’Islam abbia come specifica missione quella di far osservare a tutto il mondo il patto imposto da Allah – ovvero riconoscere la sua unicità e sottomettersi alla sua onnipotenza assoluta – le cose stanno diversamente.
Dag Tessore spiega con chiarezza da dove origini l’atteggiamento oltranzista dei tradizionalisti. Riferendosi ai primi secoli di vita dell’Islam, lo studioso osserva: “Intanto la dottrina ufficiale islamica veniva codificata dai grandi ulema e si giunse ben presto alla formulazione classica della shari’a, rimasta sostanzialmente immutata fino a oggi secondo la quale i musulmani hanno il dovere di conquistare tutto il mondo con le armi: il jihad è dunque una guerra chiaramente a carattere offensivo, non difensivo. Tutto il mondo deve essere conquistato per convertirlo all’unica vera religione, che è l’Islam. (…) Scriveva il grande storico medievale Ibn Khaldun: ‘Nella comunità islamica la guerra santa è un dovere canonico, a motivo del carattere universale della missione dell’Islam di convertire tutto il mondo, volente o nolente.”
Cristallizzata dall’interpretazione dei giuristi medievali, la funzione politico-religiosa della guerra santa attraversa l’intera storia dell’Islam. Lo scrittore e giornalista Stephen Schwartz, in The Two Faces of Islam, ci ricorda che fu attraverso massacri, stupri e riduzione in schiavitù che il regnante saudita Ibn Saud, fra il 1790 e il 1815, affermò la dottrina estremista del predicatore Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. Wahhab era un fanatico sostenitore del ritorno alla “purezza” del primo Islam, quello di Maometto e dei califfi “ben guidati”. Per la dottrina wahabita, ogni campagna era un jihad, perciò i combattenti sauditi erano incoraggiati ad essere spietati.
L’intransigenza wahabita è ancora ben salda in più di una corrente della teologia musulmana. In effetti, una delle formulazioni più radicali del pensiero in tema di jihad non risale al medioevo islamico, ma alla nostra epoca. Ne è autore Muhammad ‘Abd al-Salam Faraj, nato a Dolongat, in Egitto, nel 1954, e giustiziato al Cairo il 15 aprile 1982, perché implicato nel complotto che aveva portato all’assassinio del Presidente egiziano Anwar al-Sadat.
Il credo di Faraj è semplice e categorico: l’affermazione universale e definitiva dell’Islam è oggetto di profezia, perciò non resta che attuarla. Se l’Islam ha fallito nella sua missione di dominare il mondo e di ripristinare il Califfato è perché ha trascurato l’adempimento del jihad. Solo ricorrendo al jihad – che Faraj inserisce accanto ai 5 pilastri dell’Islam – la società islamica, ormai governata da apostati e asservita agli interessi dell’Occidente, potrà rigenerarsi e convertire il mondo alla vera religione.
Nel settembre 2011, un drone americano uccise l’ingegnere Anwar al-Awlaki, imam yemenita con passaporto statunitense. L’assassinio di al-Awlaki suscitò molte critiche negli USA, non del tutto fugate da un memo giustificativo del Dipartimento della Giustizia. Ma se rimane dubbio che l’imam fosse uno dei leader di al-Qaeda, è invece documentato che egli si esprimesse in questo modo: “Non ci sono soluzioni moderate nell’Islam. Maometto applicò la legge di Allah sulla Terra attraverso il jihad militare e nient’altro che quello”. Jihad globale dunque, come esplicita l’attuale capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che ha affermato più volte che è necessario “prepararsi a una battaglia non confinabile a un’unica regione, ma che deve prendere di mira nella stessa misura il nemico apostata interno e il nemico giudaico-cristiano esterno”.
Oggi, il ritorno di un Califfato nel Medio Oriente (con annesse barbarie come le decapitazioni ostentate, i massacri di prigionieri sulla pubblica piazza, la vendita come schiave di donne yazide) ha chiaramente mostrato la continuità ideologica fra il jihad bellicoso del primo Islam e quello post-moderno teso alla creazione di uno Stato teocratico islamista. Il filosofo e teorico della letteratura Tzvetan Todorov ha affermato che la fondazione di un Califfato retto dalla shar’ia, e un’eventuale reazione violenta dell’Occidente contro tutto l’Islam, significherebbe la realizzazione del mondo sognato da Bin Laden. Solo un’ipotesi, che però ci apre all’immenso problema dell’Islam contemporaneo: l’aperta e dura contrapposizione tra la teologia neofondamentalista e quella di tipo liberale.
“Gli integralisti”, ha dichiarato il filosofo André Glucksmann in un’intervista pubblicata dal Giornale del 29 dicembre 2006, “si appropriano arbitrariamente dei valori della religione e del Corano, ma non dobbiamo seguire le loro logiche. Al contrario: è indispensabile che l’Occidente sappia distinguere tra i musulmani e queste minoranze fanatiche e sanguinarie, che peraltro esercitano la propria violenza soprattutto contro gli islamici. Dobbiamo combattere con fermezza il terrorismo, ma non tutto l’Islam”. Più avanti, il filosofo francese precisava: “Mi colpisce molto l’assenza di una condanna forte e inequivocabile del terrorismo da parte delle più alte autorità morali e religiose islamiche. Non credo però che si tratti di un problema religioso. Durante la prima guerra mondiale i vescovi francesi e belgi invitavano a uccidere i nemici, e altrettanto facevano quelli tedeschi o austriaci. (…) Quel che accade nell’Islam è una ripetizione di quel che noi abbiamo già vissuto”.
La critica di Glucksmann alle Autorità religiose dell’Islam appare esagerata, ma non del tutto ingiustificata. L’atroce attacco terroristico contro le Torri Gemelle di New York fu condannato dai leader religiosi musulmani come un atto contrario all’Islam. Il 10 ottobre 2001, i ministri degli esteri degli Stati Islamici si riunirono a Doha, in Qatar, rilasciando un documento ufficiale di severa condanna “degli spietati atti di terrorismo ai danni degli Stati Uniti”. Nel testo si enfatizzava che tali azioni “contravvengono all’insegnamento divino e ad ogni valore morale e umano, per cui non possono, e non debbono essere collegate con la religione islamica”. Anche gli attentati terroristici di Madrid e Londra furono condannati da gran parte dei Consigli e delle Organizzazioni islamiche europee. Proprio di recente, la più alta autorità religiosa dell’Arabia Saudita, il Gran Muftì Abdul-Aziz ibn Abdullah Al Shaykh, ha affermato che il terrorismo è anti-islamico e che i gruppi dediti alla violenza “sono il nemico numero uno dell’Islam”. E ovviamente, l’orribile, atroce attacco alla redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo ha trovato una condanna quasi unanime da parte dei musulmani sparsi in tutto il mondo.
Tuttavia, le voci di dissenso furono quasi assenti quando Mohammed Bouyeri, ventiseienne olandese di origini marocchine, assassinò il regista Theo Van Gogh, piantandogli in corpo otto pallottole e due coltellate. La colpa di Van Gogh? Aver realizzato un cortometraggio, Submission, sulle difficili condizioni di vita delle donne musulmane: pura libertà di opinione, che evidentemente vale poco per il mondo islamico, prontissimo a reagire con indignazione e violenza a qualsiasi espressione venga percepita come un’offesa verso la propria religione. Quando il giornale danese Jyllands-Posten pubblicò le famose vignette satiriche su Maometto, i musulmani di tutto il mondo esplosero in proteste di ogni genere, culminate nel boicottaggio di prodotti danesi e nei ripetuti tentativi di assassinare Kurt Westergaard, uno dei disegnatori. Nel 2012, uno stupido film che prendeva in giro il profeta Maometto, Innocence of Muslims, scatenò la rappresaglia di una folla di fanatici, che assalì il Consolato americano di Bengasi con armi da fuoco e granate, causando la morte dell’ambasciatore Christopher Stevens e di tre funzionari. In Egitto, un portavoce dei Fratelli Musulmani, il partito che allora deteneva il potere, pretese scuse ufficiali da parte del Governo degli Stati Uniti, che invitò a punire i “folli” autori del video.
Il filmino e le vignette satiriche su Maometto potevano forse essere evitate. Sui limiti della satira, la discussione impazza da quando essa ha cominciato ad esistere. C’è chi sostiene che fare satira comporti il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire, e dunque di esprimere persino ciò che può offendere; e chi ritiene, invece, che anche la satira debba porsi dei limiti, per esempio quello di non profanare il sacro. Una cosa però è certa: è assolutamente inammissibile che in uno Stato laico si debba temere per la propria vita esercitando la libertà di pensiero e di critica, espressa che sia a mezzo di opere letterarie (come nel caso di Rushdie), o in modo ironico e incisivo come fanno le riviste satiriche francesi, o ancora in modo sciocco e inopportuno. È comunque inconcepibile che la vita di un uomo possa valere meno di un cortometraggio o di alcune vignette satiriche.
Le perplessità di Glucksmann inducono comunque un altro importante interrogativo: quanta parte hanno le scuole coraniche e i teologi che vi insegnano nel fomentare il terrorismo islamista?
Non c’è dubbio che nelle madrasa (le scuole preposte all’insegnamento del testo coranico e degli hadith) e nelle moschee diffuse in tutto il Pianeta, alcuni ideologi e fanatici imam tuonino ogni giorno contro l’Occidente, incitando i fedeli all’odio e alla violenza. Il ruolo ideologico delle madrasa cresce negli anni ’60-70 sulla scia del pensiero di Sayyid Qutb e del successo della rivoluzione iraniana che porta al governo l’ayatollah Khomeini. Non poche madrasa si trasformano presto in luoghi ultramilitanti; da quella di Binori Town, a Karachi, usciranno diplomati molti membri di Al Qaeda e di altri gruppi terroristici, come il maulana Masood Azhar, leader dei Mujahidin pakistani e fondatore del nucleo jihadista Jaish-e-Muhammad. Anche il movimento dei Taliban, gli studenti coranici che presero il potere in Afghanistan nel 1996, nasce all’interno delle madrasa.
Tuttavia, l’equazione pedissequa scuola coranica = reclutamento del terrorismo sembra da escludere. Pochi giorni dopo gli attentati dell’11 settembre, Bin Laden si compiaceva del fatto che i giovani attentatori avevano dimostrato di non accettare supinamente l’insegnamento della legge islamica, preferendo seguire l’esempio del profeta Maometto. In effetti, come ha dimostrato Faisal Devji in Landscapes of the Jihad, gli uomini che hanno pianificato gli attacchi dell’11 settembre non sono il prodotto del sistema tradizionale islamico di istruzione. È vero che gran parte delle scuole islamiche (le madrasa) tendono a promuovere l’osservanza della lettera del Corano, e che alcune di esse sono collegabili direttamente a forme di estremismo e ad atti di violenza; tuttavia, recenti ricerche hanno dimostrato che non è corretto identificare le madrasa come centri di reclutamento del terrorismo islamico.
“I nuovi militanti dell’Islam contemporaneo”, scriveva Khaled Fouad Allam, “sono dei bricoleurs (fai da te) dell’Islam che si sono improvvisati maestri e ideologi”. L’antropologo statunitense Dale Eickelman è dello stesso avviso: “Un lungo apprendistato non è più considerato dai giovani come un requisito indispensabile per l’acquisizione di una cultura religiosa. Oggi sono per lo più considerati competenti in materia di religione coloro che si pronunciano in favore di un forte impegno islamico, come fanno molti giovani colti nelle città. Liberata dalle forme tradizionali di apprendimento ed erudizione, spesso sottoposta al controllo dello Stato, la cultura religiosa è sempre più intesa come attivismo politico”.
In effetti, né Bin Laden né gli uomini che hanno condotto gli attacchi terroristici contro l’America o l’Inghilterra hanno avuto a che fare con le madrasa o mai ottenuto il diploma di alim, cioè di membri del clero islamico. Sbaglia chi pensa che abbiano fatto parte di sette oscurantistiche di fanatici legati al medioevo islamico. Al contrario, siamo in presenza di persone istruite della classe media professionale. Mohammed Atta era un architetto, Ayman Al Zawahiri è un chirurgo pediatrico e uno scrittore, Ziad Jarrah, uno dei fondatori della cellula di Amburgo, era uno studente di ingegneria aeronautica. Leggendo la scrupolosa analisi del jihad globale che Marc Sageman, ex dirigente della CIA, ha effettuato in Understanding Terror Networks, scopriamo che due terzi dei 172 terroristi legati ad Al Qaeda provenivano dalla classe media, possedevano un’istruzione universitaria e non pochi potevano vantare un dottorato. “Il terrorismo islamico”, ha scritto il giornalista William Darlymple, “al pari dei suoi predecessori cristiano ed ebraico, è un affare maggioritariamente borghese”. In effetti, erano persone istruite e in contatto con la cultura occidentale sia Hasan al-Banna (1906-1949), fondatore del movimento politico dei Fratelli Musulmani, sia Abu l-A’la Mawdudi (1903-1979), padre intellettuale dell’islamismo moderno, sia Sayyid Qutb (1906-1966), la maggior fonte di ispirazione per gli attentati dell’11 settembre 2001. In queste emblematiche figure dell’Islam moderno rintracciamo un fondamentale tratto comune: l’attrazione-repulsione per un Occidente percepito come luogo di vizio e di corruzione.
Hasan al-Banna nacque in un piccolo villaggio a nord del Cairo. All’età di soli 12 anni divenne discepolo della scuola sufista e a 13 prese parte ai moti del 1919 contro il governo britannico.
Nel 1923 raggiunse i genitori al Cairo, dove maturò un forte sentimento di condanna contro la secolarizzazione e l’occidentalizzazione in atto nell’Egitto. Nel 1928 fondò il movimento dei Fratelli Musulmani, oggetto presto di dure repressioni da parte del governo egiziano. All’inizio del 1949, il Primo Ministro Mahmud al-Nuqrashi venne assassinato da uno studente di medicina appartenente alla Fratellanza Musulmana; nonostante avesse condannato l’omicidio, al-Banna venne a sua volta ucciso da uomini dei servizi segreti del re Faruk.
Il programma di al-Banna è di natura religioso-politica: la Fratellanza Musulmana ha il compito di riformare la società attraverso l’osservanza islamica e una recisa opposizione all’influenza dell’Occidente. Memorabile è il brano, in Majmu’at Rasa’il al-Imam al-Shahid Hasan al-Banna, in cui l’ideologo egiziano denuncia “la tirannia del materialismo sulle terre dell’Islam”: “Gli europei hanno lavorato alacremente per far sì che questa ondata di materialismo, con i suoi tratti corruttori e i suoi germi velenosi, sommergesse tutte le terre musulmane su cui avevano allungato le mani (…) Si sono preparati magistralmente a questa aggressione sociale, esercitando l’acume politico e la superiorità militare sino a raggiungere gli obiettivi che si erano prefissi. Hanno raggirato i leader musulmani, concedendo loro prestiti e coinvolgendoli in speculazioni finanziarie, aprendo così la strada ai propri interessi economici, e hanno inondato i nostri Paesi con i loro capitali, le loro banche e le loro aziende, si sono impadroniti a loro piacimento delle leve dell’economia e hanno accumulato, a scapito degli abitanti, enormi profitti e immense ricchezze. In seguito, sono riusciti ad alterare i principi fondamentali del governo, della giustizia e dell’educazione e a impregnare delle loro caratteristiche peculiari anche i sistemi politici, giuridici e culturali dei più potenti Paesi musulmani. Hanno importato in queste regioni le loro donne seminude, e poi i loro liquori, i loro teatri, le loro sale da ballo, i loro divertimenti, le loro storie, i loro giornali, i loro romanzi, i loro capricci, i loro stupidi giochi e i loro vizi (…) E come se tutto ciò non bastasse, hanno fondato scuole e istituzioni scientifiche e culturali nel cuore stesso dell’islam, seminando il dubbio e l’eresia negli animi dei suoi figli e insegnando loro a umiliarsi, a disprezzare la loro religione e la propria patria, ad abbandonare le proprie tradizioni e le proprie credenze, e a considerare sacro tutto ciò che è occidentale, inculcando in loro la convinzione che solo ciò che viene dell’Europa possa essere un modello da emulare in questa vita”.
A dispetto di queste convinzioni, la formazione e lo sviluppo del pensiero di al-Banna risentono chiaramente dell’influenza dell’Occidente. Come ricorda Ruthven nel già citato Il seme del terrore, negli anni ’30 al-Banna “non fece segreto della sua grande ammirazione per le camicie nere naziste, ma probabilmente subì anche l’influsso della vigorosa religiosità dei boy-scout e dell’YMCA (l’Associazione Giovanile Maschile Cristiana), come accadde ad alcuni nazionalisti hindu di quell’epoca”.
Sayyd Abu l-A’la Mawdudi nacque nel 1903 ad Aurangabad (ora nel Pakistan, ma a quel tempo facente parte dell’India britannica). Nel 1941, al fine di promuovere il credo dell’Islam in quelle regioni, fondò il movimento islamista Jamaat-e Islami, che è tuttora il più antico partito religioso del Pakistan.
Mawdudi sostiene la totale autosufficienza dell’Islam, ultima e definitiva rivelazione di Dio all’umanità. La certezza della sovranità di Dio sull’uomo e sul mondo implica la superiorità di una società autenticamente islamica su tutte le altre istituzioni umane. Mawdudi è l’inventore del termine “teodemocrazia”; è il concetto della democrazia fondata sulla sovranità di Dio e perciò antitetica rispetto a quella occidentale, basata sulla sovranità del popolo. Aspramente critica verso il materialismo e la decadenza morale dell’Occidente, la teoria politica di Mawdudi risente tuttavia del clima intellettuale europeo degli anni ’30, e in particolare degli attacchi fascisti alle democrazie occidentali e delle critiche mosse dallo scrittore francese Alexander Carrel alle “corruzioni” della vita moderna. Il modello islamista di Mawdudi è uno dei più radicali in seno all’Islam. Convinto sostenitore della necessità che tutti obbediscano fedelmente alla shari’a e che la società sia retta da persone moralmente impeccabili, Mawdudi scriverà: “Il Corano non afferma che l’Islam è il vero compendio dei riti e dei rituali, delle credenze e dei concetti metafisici, o che esso rappresenta la forma corretta dell’atteggiamento religioso a guida del pensiero e dell’azione dell’individuo (come è attualmente intesa la religione della parola nell’accezione occidentale). Esso non dice che l’islam è la vera via per le genti dell’Arabia, per le genti di un Paese in particolare, o per le genti prima di un particolare periodo storico (per esempio la rivoluzione industriale). No! Per l’intera razza umana esiste esplicitamente un unico modo di vivere che è giusto agli occhi di Dio: esso è al Islam”.
Sayyid Qutb nacque nel 1906 in un piccolo paese del sud Egitto. La sua storia personale è l’esemplificazione di quel senso di disagio che attanaglia molti giovani musulmani quando si immergono nella vita e nella cultura occidentale. Allevato alla severa osservanza dell’Islam, a dieci anni Qutb conosceva a memoria l’intero Corano. In seguito studiò al Cairo con notevole profitto, e riuscì presto a ottenere una grande reputazione nel mondo intellettuale egiziano. Nel 1948 gli fu concessa una sovvenzione per studiare il sistema scolastico americano. Il viaggio di Qutb oltreoceano rappresenta uno dei punti nodali della futura guerra islamista contro l’America. Nei ventuno mesi trascorsi negli Stati Uniti, Qutb maturò nei confronti della Nazione più potente della terra una profonda avversione, prima politica, poi anche culturale e morale. “Nessuno va in chiesa quanto gli americani”, scrisse, “eppure nessuno è altrettanto distante dagli aspetti spirituali della religione”. E all’amico commediografo Tawfiq al-Hakim confidava: “Quanto ho bisogno di qualcuno con cui parlare di argomenti diversi dal danaro, dai divi cinematografici e dai modelli di automobili!”
In America, Qutb si convince definitivamente che l’Occidente è stato privato di quei “valori vitali che un tempo gli avevano permesso di assumere il ruolo di guida dell’umanità”. “Se guardiamo alle origini e ai fondamenti dello stile di vita moderno”, scrive in una delle sua opere più importanti, Pietre Miliari, “appare chiaro che tutto il mondo è sprofondato nella jahiliyya (l’ignoranza in cui l’umanità versava prima della missione profetica di Maometto). La jahiliyya si basa sulla ribellione alla sovranità di Dio sulla terra. Essa tenta di trasferire all’uomo uno dei principali attributi di Dio, la sovranità, permettendo ad alcuni individui di dominare su altri”.
In una tale situazione, pensa Qutb, la lotta spirituale non è sufficiente per restaurare l’autorità divina. A chi sostiene questa interpretazione sulla base dei versetti più prudenti e tolleranti del Corano, Qutb oppone la realtà storica dell’Islam e la necessità di attuare i principi dettati da Dio all’ultimo dei Profeti. L’instaurazione della sovranità di Dio e la restaurazione della divina shari’a non ammettono ostacoli: “Sarebbe ingenuo presumere che l’appello a liberare l’umanità intera sia efficace soltanto predicando e presentando a parole il messaggio nel mondo. Proprio perché ‘non vi è costrizione nella fedÈ, l’islam lotta tramite la predicazione quando c’è libertà di parola e gli individui sono liberi da ogni pressione esterna. Ma quando gli impedimenti descritti e le difficoltà pratiche ne precludono la diffusione, esso non può che rimuovere questi ostacoli con la forza, in modo che, quando l’islam si rivolge ai cuori e alle menti delle persone, esse sono libere di accettarlo o di respingerlo con spirito libero”.
Per Qutb, l’Islam si pone dunque come base indispensabile per creare un nuovo e giusto ordine sociale; per realizzarlo – così come accadde per la prima generazione islamica – occorre un’avanguardia composta da musulmani che “devono conoscere i segnali e le pietre miliari che costeggiano la loro strada (…) Devono essere pienamente consapevoli della posizione che occupano rispetto alla jahiliyya, che ha conquistato tutta la terra”.
Implicato più volte in presunti complotti contro la vita di Gamal Nasser, Presidente dell’Egitto dal 1952, Sayyd Qutb venne arrestato nell’agosto 1965. Processato e condannato, fu impiccato il 29 agosto 1966, nonostante le proteste di molte Autorità politiche e religiose dell’Islam.
Il disagio avvertito al contatto con l’Occidente da al-Banna, Mawdudi e Qutb traccia con chiarezza uno dei motivi di risentimento di non pochi musulmani nei nostri confronti. Come ha scritto in The Guardian il giornalista Jonathan Raban, “un potente senso di kufr (miscredenza) aiuta il credente a vivere l’esilio occidentale in un’inevitabile stato cronico di persecuzione, generato dalla sua teologia e dal quale dipende la sopravvivenza della stessa”. La solitudine, l’identità incerta, l’alienazione culturale generano conflitti inevitabili nell’animo dei giovani musulmani che vivono in Occidente, assediati da continue tentazioni a ripudiare l’insegnamento religioso loro impartito. Così anche Ruthven: “La legge islamica come veniva applicata in gran parte dell’Egitto o in Arabia Saudita prima dell’avvento del moderno capitalismo consumistico, proteggeva il musulmano dal peccato, tracciando chiari confini a regolazione del comportamento sociale (…) Ma il kufr è in aumento, poiché nelle città occidentali e sempre di più anche in quelle a maggioranza musulmana i limiti (hudud) stabiliti da Dio stanno disgregandosi”.
Esistono, naturalmente, altri importanti fattori di contrapposizione fra l’Occidente e il mondo islamico, alcuni dei quali hanno radici storiche. E tuttavia, in molte regioni del mondo, l’Islam, il Cristianesimo e l’Ebraismo hanno convissuto per secoli senza alcuna frizione. Perché – è questa la domanda cruciale – l’ideologia jihadista ha trovato terreno fertile proprio ai nostri giorni?
La professoressa di Scienze Politiche Sheri Berman, docente del Barnard College di New York, osserva che “un’ideologia riesce a far presa quando sostituisce un altro insieme di idee che si è dimostrato fallimentare”. Ora, è indubbio che l’Islam stia attraversando una delle fasi più difficili e controverse della sua storia. In effetti, il mondo musulmano è alle prese con problemi intestini (il conflitto tra sunniti e sciiti, il diffondersi della teologia liberale, il fallimento del panarabismo, l’assenza di democrazia negli Stati-chiave) che spesso si intersecano e si aggiungono ai motivi di contrasto e di malessere verso l’Occidente. È una situazione molto complessa, che di seguito analizzeremo nei suoi molteplici aspetti, cercando di dare una risposta alla fondamentale questione posta in precedenza.
L’alienazione sociale e culturale di musulmani apparentemente ben integrati nel nostro mondo è un elemento di innesco della violenza che molti studiosi mettono in rilievo. Nel luglio 2007, dopo la scoperta delle autobombe che avrebbero dovuto devastare il centro di Londra e l’aeroporto di Glasgow (attentati fortunatamente falliti), uno dei massimi esperti di lotta al terrorismo internazionale, l’inglese Brian Michael Jenkins, alla domanda su come neutralizzare la violenza fondamentalista aveva risposto così: “Inserendo maggiormente le minoranze etniche, non trattando i figli degli emigrati come se fossero stranieri in casa propria. Non si può negare il fatto che gli europei, e soprattutto gli inglesi, stiano facendo un lavoro miserabile sul versante dell’integrazione”. All’indomani della strage nella redazione di Charlie Hebdo, i commenti di molti intellettuali francesi sono andati nella stessa direzione. Lo scrittore francese Jean-Marie Gustave Le Clézio, Premio Nobel per la Letteratura: “Ciò che dobbiamo fare è una guerra contro l’ingiustizia, contro l’abbandono di certi giovani, contro l’oblio tattico in cui viene mantenuta una parte della popolazione (in Francia, ma anche nel mondo), senza condividere con essa i benefici della cultura e le opportunità del successo sociale (…) Bisogna spezzare i ghetti, aprire le porte, dare a ogni abitante di questo Paese la sua occasione, ascoltare la sua voce, imparare da lui quanto lui dagli altri. Bisogna smettere di lasciare che si costruisca un’estraneità all’interno della nazione. Bisogna curare la miseria degli spiriti per guarire la malattia che corrode le basi della nostra società democratica”. Come lui, Daniel Pennac: “Il capitalismo odierno fa la guerra ai poveri e non alla povertà. In questo modo marginalizza una parte della popolazione che si sente esclusa e isolata dalla società. Se a ciò si aggiungono le discriminazioni subite, si comprende come certe persone possano progressivamente radicalizzarsi al punto da odiare la società in cui vivono. Spesso manipolati, costoro diventano disponibili alla violenza e alla follia del terrorismo”. Da noi, il filosofo Massimo Cacciari: “Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole”.
Ancor più impressionanti, e significativi, i giudizi di alcuni politici, come il primo ministro francese Manuel Valls, che ha parlato di “apartheid” e di “segregazione sociale”, invitando a un maggiore impegno contro l’emarginazione degli immigrati che da generazioni vivono nelle banlieu francesi, diventando un focolaio di odio per la stessa società che li accoglie.
Un altro importante fattore di contrasto, sottolineato costantemente dai seguaci dell’Islam, è costituito dalla condotta politica tenuta dall’Occidente in alcune aree del mondo, in particolare nel Medio Oriente. Nonostante anni di guerre, trattati, accordi, mediazioni di ogni genere, resta sempre aperta la ferita della Palestina, le umiliazioni cui sono sottoposti milioni di persone che vedono occupati i loro territori, distrutti i loro insediamenti, e cui si nega una Patria, una carta di identità, il diritto al voto, il diritto al lavoro.
Più in generale, è la politica colonialista delle Potenze Occidentali a rappresentare un sicuro motivo di ostilità dei musulmani; non bisogna dimenticare che l’Islam radicale è nato anche come forma di liberazione dal colonialismo e di ribellione contro le dittature sostenute dall’Occidente. Come osserva Ruthven, “le radici di Al-Qaeda vanno rintracciate nei dieci anni di guerra combattuta dai mujahidin (i “guerrieri di Dio”) contro i russi in Afghanistan dopo l’invasione sovietica del 1979” (guerra che si risolse in un trionfo del jihad contro gli invasori). Nel 1998, Bin Laden e altri quattro ideologi islamisti dichiararono che “la fatwa che ordina di uccidere gli americani e i loro alleati – civili e militari – è un dovere di ogni musulmano da adempiersi ovunque possibile, per liberare la Moschea di al-Aqsa (a Gerusalemme) e la Moschea sacra (alla Mecca) dal loro controllo e costringere le loro truppe, sconfitte e incapaci di minacciare i musulmani, a lasciare tutti i Paesi dell’Islam”.
Ma non sono solo gli uomini di Al-Qaeda e di altri gruppi terroristici a non gradire l’ambigua politica degli Stati Occidentali, che hanno appoggiato a suo tempo Saddam Hussein e Bin Laden, e che hanno impiantato solide basi militari nella Penisola Araba, la Terra Santa dei musulmani. L’intangibilità del dar al-islam è un punto fermo nella teologia e nella storia dell’Islam. La Guerra d’Iraq del 2003 (Seconda Guerra del Golfo), che terminò con la deposizione di Saddam Hussein, venne condannata con decisione da molte Autorità religiose e politiche dell’Islam; in particolare, il 1° marzo 2003, pochi giorni prima dell’inizio del conflitto, il summit della Lega Araba tenuto a Sharm el-Sheikh si concluse con la dichiarazione finale “di respingere toralmente qualsiasi attacco contro l’Iraq”. Come abbiamo già visto, se il suolo islamico viene invaso, il jihad a sua difesa diventa un dovere obbligatorio per tutti i musulmani, pensiero condiviso persino dalle mistiche e pacifiche confraternite sufi.
L’atteggiamento colonialista delle Potenze occidentali continuerebbe oggi – questa una delle accuse più ricorrenti rivolte all’Occidente da molti teologi musulmani – con l’inarrestabile penetrazione di modelli e politiche economiche improntate al puro materialismo e a uno sfrenato consumismo. Di questo avviso è ad esempio Dag Tessore, che non risparmia critiche ad un Occidente incapace di fare un doveroso mea culpa per il colonialismo politico e religioso dei secoli passati, e intollerante con chi mostra di volersi attenere ai proprio valori e stili di vita.
Il tema del colonialismo ha una doppia valenza nelle discussioni sull’interazione fra la cultura islamica e quella occidentale. Infatti, alcuni storici invocano la mentalità coloniale degli europei come una delle principali ragioni del ritardo economico, culturale e tecnologico delle società islamiche. Ma qui esiste una netta divisione fra gli studiosi; c’è infatti chi nega all’Occidente ogni addebito per la lentezza dei Paesi islamici nell’avviarsi sulla strada di un progresso compatibile con la loro storia e la loro cultura.
“Non ho mai creduto”, scrive Dan Diner, professore di storia nelle Università di Lipsia e Gerusalemme, “alla tesi per cui il ritardo del mondo islamico sia un prodotto dell’epoca coloniale. Nessuna di queste teorie è in grado di spiegare perché, ben prima dell’epoca coloniale, il mondo arabo si sia arrestato senza sviluppare una cultura sociale ed economica della modernità (…) Nelle società arabe manca pure ogni etica della scoperta. L’uomo perfetto nell’orizzonte islamico arabo è colui che si sottomette senza riserve alla legge divina. Ecco perché l’invasione del sacro, che impedisce lo sviluppo di un pensiero moderno, non riguarda solo la sfera politica, ma soprattutto quella della lingua e quindi della comunicazione quotidiana”.
Così anche Hans Magnus Enzensberger: “Negli ultimi quattrocento anni gli arabi non hanno prodotto alcuna invenzione degna di nota. Non è solamente l’inferiorità militare nei confronti del mondo Occidentale che viene percepita come pesante offesa narcisistica. Ancora peggiore è la dipendenza materiale e intellettuale”.
È una dipendenza indubbia, quando consideriamo che i terroristi utilizzano in modo massiccio i mezzi tecnici della civiltà cui hanno dichiarato guerra. L’uso congiunto della tv, delle videoregistrazioni, di Internet, lo stile dei loro comunicati, il linguaggio del corpo, persino il loro look mostrano quanto dipendano dal mondo globalizzato che osteggiano.
In Il perdente radicale, Enzensberger scrive: “Forte dell’esperienza televisiva, della tecnica computeristica, pubblicitaria e di Internet, il terrorismo islamista conquista quote di ascolto superiori a qualsiasi campionato mondiale di calcio”.
Secondo Ian Buruma e Avishai Margalit, autori del discusso saggio Occidentalismo, l’estremismo islamico è andato a scuola in Occidente persino riguardo alla critica delle libertà del mondo moderno. L’Occidentalismo, sostengono i due studiosi, non è una repulsione nata in seno all’Islam. Nel luglio 1942, i massimi filosofi giapponesi si riunirono a Kyoto per discutere di un argomento cruciale per la sopravvivenza dell’Impero del Sol Levante: come fronteggiare e sconfiggere l’odiosa civiltà materialista occidentale, così distante dalla saggia spiritualità orientale. Il quadro deformato dell’Occidente, sostengono Buruma e Margalit, ha i suoi padri illustri in Heidegger, nemico di ciò che definiva “Amerikanismus”, e poi in Herder, Nietzsche, Wagner, Dostoevskij, Eliot, tutti nemici dichiarati della modernità.
La psicologia dei giovani fondamentalisti islamici è stata oggetto di un’acuta analisi da parte del filosofo e sociologo Slavoj Zizek. Lo studioso sloveno nega, anzitutto, che i terroristi islamici possano essere considerati dei veri fondamentalisti. Zizek osserva che i fondamentalisti autentici, come i buddisti tibetani e gli Amish, non manifestano odio o risentimento verso il modo di vivere degli altri, e procedono pacificamente sulla strada di chi ritiene di aver trovato la Verità. Di contro – continua Zizek – gli islamisti, con le loro azioni intolleranti e violente, non fanno altro che rivelare il complesso di inferiorità di persone fragili e disorientate. Il filosofo sloveno è chiaro e incisivo: “Quando un buddista incontra un edonista occidentale, non lo condanna di certo: si limita o osservare benevolmente che la ricerca di felicità dell’edonista è controproducente. Al contrario dei veri fondamentalisti, gli pseudofondamentalisti terroristi sono profondamente infastiditi, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti; si ha la sensazione che combattendo il peccatore stiano combattendo la loro stessa tentazione di peccato. Il terrore del fondamentalismo islamico non è radicato nella convinzione dei terroristi della propria superiorità, in un desiderio di preservare la propria identità cultural-religiosa dal furibondo assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che li consideriamo inferiori a noi, ma al contrario che loro stessi si considerano segretamente inferiori (…) Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo per preservare la propria identità), ma il contrario, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che segretamente hanno già interiorizzato i nostri parametri e misurano se stessi in base ad essi”.
Alcuni pensatori fanno rientrare i sentimenti di alienazione e di disagio che pervadono le giovani leve musulmane nel più generale e drammatico disorientamento delle coscienze che caratterizza quasi ovunque la società contemporanea. “Nel cuore dei giovani immigrati che vogliono farsi esplodere in volo”, ha scritto Eugenio Scalfari sull’Espresso, “c’è tutto il tragico vuoto del nostro tempo. La shari’a dà senso. La fede in una qualsiasi religione dà senso. Il gesto drammatico, anzi tragico, se dedicato ad una supposta ‘causa’ dà senso”.
Lo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi, pur condannando come “mostruosa” la scelta dei giovani e – fenomeno in deciso aumento – delle giovani occidentali che si arruolano nel jihad, vi ravvisa un fondamento idealistico: “I giovani sono spesso idealisti. Molti dei miei amici, quando ero ragazzo a Londra, erano maoisti, trotkisti, leninisti. Ma poi sappiamo come finiscono tante volte le rivoluzioni e l’idealismo: con la violenza, il terrore, la tirannia. Questi giovani credono in qualcosa, qualcosa che a essi sembra nobile e puro. Ebbene, i giovani hanno di questi bisogni, il desiderio di avere ideali puri e di combattere per realizzarsi. Il Ventesimo secolo è pieno di giovani così”. Ma se l’idealismo dei giovani musulmani si radicalizza nella violenza – precisa lo scrittore – è perché trova terreno fertile nelle storture e nelle ingiustizie delle Società occidentali. Anche Kureishi, dunque, mette in evidenza le nostre responsabilità per l’emarginazione e l’alienazione sociale e culturale in cui versano tanti giovani musulmani. “Dobbiamo chiederci”, osservava in un’intervista del novembre 2014, “non che cosa abbiamo fatto per istigare in loro tanta violenza, ma ciò che non abbiamo fatto. Sono giovani che vivono ghettizzati nella miseria e che cercano un modello alternativo al consumismo occidentale”.
Su questa falsariga, ma in modo più asciutto, Dag Tessore mette l’accento su uno dei bisogni umani più istintivi: “Il problema è che, purtroppo, poiché l’inclinazione militare è senz’altro presente nell’Islam fin dalle sue origini, ci sono moltitudini di persone amanti della violenza che, proprio per questo, amano l’Islam. È caratteristico il fenomeno oggi di molti occidentali che, vivendo in una società troppo civilizzata e imborghesita e non avendo vissuto la guerra, stanchi del pacifismo a oltranza e del buonismo della Chiesa odierna, hanno bisogno di violenza, di picchiare, di far guerra, e quindi si sentono attratti dal concetto islamico del jihad e dall’odio verso gli ebrei che caratterizza l’Islam, a cui quindi si convertono per poter apertamente vivere il loro bisogno di violenza; oppure si fanno sciiti, affascinati dall’immagine dei pasdaran che vanno in giro a picchiare i trasgressori”.
Anche il politologo ed esperto del mondo arabo Olivier Roy, docente nel Robert Schuman Centre for Advanced Studies, si rifà al “fascino” della violenza sui giovani di oggi, collegato, a suo parere, ad un nichilismo generazionale che vede diffuso in tutto il mondo. “Non c’è differenza”, ha dichiarato Roy in un’intervista apparsa sull’Espresso del 4 dicembre 2014, “tra le decapitazioni dell’Isis e quelle dei narcos messicani. In Occidente, nei Paesi protestanti soprattutto, non passa settimana senza che un giovane si filmi mentre entra in un luogo pubblico e uccide per uccidersi. Da un lato l’ideologia, dall’altro l’individualismo producono lo stesso effetto: violenza e morte”.
Assai più netto e sbrigativo il giudizio dello scrittore inglese Ian McEwan, che inserisce nella questione una componente decisamente patologica: “L’Islam radicale omicida che si autosantifica è diventato una calamita globale per psicopatici”. Giudizio che coincide in massima parte con quello dello scrittore pakistano Mohsin Hamid, autore del bestseller internazionale Il fondamentalista riluttante, il quale, in un’intervista del 30 giugno 2015 a la Repubblica, ha dichiarato: “Non ci sono più terroristi in giro per il mondo, ma più psicopatici ed emarginati dalla nostra società che usano il terrorismo per compiere azioni violente. Lo Stato Islamico ha dato loro questa possibilità: si serve di questi pazzi a cui piace tanto uccidere”.
Non è superfluo osservare, a questo punto, che non è solo in seno all’Islam fanatico che troviamo individui alienati capaci di compiere azioni efferate e imprevedibili. L’esperto di terrorismo Jeffrey D. Simon, nel saggio Lone Wolf terrorism: understanding the growing threat, ha analizzato le azioni violente compiute negli ultimi decenni dai terroristi che denomina “lupi solitari”. È una tipologia in cui rientrava perfettamente, afferma Simon, Mohammad Youssef Abdulazeez, il musulmano ventiquattrenne che il 16 luglio 2015 ha massacrato cinque marines a Chattanooga (Tennessee), rimanendo a sua volta ucciso dalla reazione della Polizia. Ma nel prototipo del “lupo solitario”, precisa Simon, rientrano anche figure come quella di Anders Breivik, autore della strage dei ragazzi norvegesi nell’isola di Utoya, o Dylann Roof, il razzista assassino di nove fedeli afroamericani riuniti in una chiesa di Charleston, nella Carolina del Sud. Prima di loro, Theodore Kaczynski, il nemico del “sistema industrial-tecnologico” noto come Unabomber, il nazionalista americano Timothy McVeigh, autore della strage di Oklahoma City costata la vita a 168 persone, il microbiologo Bruce Ivins, indicato come responsabile delle morti per avvelenamento da antrace avvenute in Ohio nel 2001, l’antiabortista Erich Rudolph, reo confesso dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta 1996.
Il “lupo solitario”, spiega Simon, è una persona disturbata e alienata che non si riconosce e non aderisce ad alcun gruppo organizzato. Proprio perché si espone meno di chi fa parte di gruppi militanti, le sue azioni sono imprevedibili e possono indirizzarsi verso qualsiasi obiettivo e scenario. È vero che spesso i “lupi solitari” tradiscono la volontà omicida in messaggi e altri segnali sul web, non resistendo all’inclinazione narcisistica di comunicare i loro fanatici ideali; ma è comunque difficile, spiega Simon in base alla sua esperienza, individuare quando una persona è pronta a passare dalla farneticazione all’azione violenta. Certo che, analizzando la personalità e la vita di Mohammad Youssef Abdulazeez, il prototipo del reietto e oppresso dalla società che per reazione diventa spietato terrorista viene completamente sconfessato.
Abdulazeez era un giovane di successo, molto ben integrato nel tessuto sociale di una cittadina tranquilla, ordinata e operosa come Chattanooga. La sua famiglia, proveniente dal Kuwait, si sentiva americana; Mohammad Youssef era stato insignito dall’Università del Tennessee di una Laurea in Ingegneria, primeggiava nelle gare del suo sport preferito, il wrestling, e aveva un lavoro presso una Ditta produttrice di cavi per telecomunicazioni. Era considerato un giovane affabile e altruista, e poteva contare su delle buone amicizie. A Chattanooga, l’imam della moschea, Basam Issa, era solito affermare “Siamo prima americani e poi musulmani”. Una cornice, e un quadro, in cui si stenta a trovare una pennellata fuori posto. Tuttavia, sembra che Abdulazeez, poco prima di compiere la strage, avesse confidato all’imam Issa dei pensieri che ora suonano sinistri e profetici: “Sto ancora cercando di capire chi sono”; tempo prima, aveva inoltre scritto sul suo profilo: “Il mio nome fa scattare un’allerta di sicurezza nazionale, il vostro?”.
Espressioni che rivelano un incipiente disorientamento, forse una latente alienazione, stati d’animo che quando si incanalano nell’adesione fanatica a un’ideologia radicale possono trasformare una persona apparentemente normale e ben integrata nel “lupo solitario” capace di esplodere in una violenza improvvisa e incontrollabile.
Molti tra i fanatici attentatori islamisti sono consapevoli che le azioni violente costeranno loro la vita. È noto che la ricompensa del martirio occupa un posto privilegiato nella decisione di immolarsi per l’Islam. Morire per la causa dell’Islam è la testimonianza di fede per eccellenza; la parola shahid (martire) ha la stessa radice di shahada, ovvero la professione di fede. Il valore del martirio è attestato nel Corano (II, 154): “Non annoverate tra i morti quelli che sono stati uccisi sulla via di Dio, che invece sono vivi e non ve ne accorgete”, ma anche in numerosi hadith di Maometto. In una delle sei raccolte canoniche di hadith dell’islam sunnita (quella di Abu Dawud), si dice che il martire potrà salvare sino a settanta peccatori fra i suoi familiari. “In tutte queste fonti”, scriveva il professore di Studi Mediorientali Majid Khadduri in War and Peace in the Law of Islam, “si fanno generose promesse di martirio e di vita eterna a quelli che muoiono sulla via di Dio: essi saranno portati immediatamente in paradiso senza attendere la resurrezione e il giorno del Giudizio”.
La questione diventa più complessa riguardo agli attentati suicidi, la cui legittimità religiosa è molto dibattuta. Alcuni hadith mostrano chiaramente la ferma disapprovazione del suicidio da parte di Maometto; tuttavia, il suicidio per la causa dell’Islam tende ad essere giustificato da diversi giuristi, che lo classificano come atto di automartirio, istishhad.
Il terrorismo suicida ha avuto inizio negli anni ’80 con gli sciiti in Libano, per poi concentrarsi soprattutto contro gli ebrei ad opera del gruppo islamista Hamas. È indiscutibile, comunque, che gli attentati suicidi commessi in Israele traggano origine non solo da motivazioni religiose, ma anche da una condizione sociale di frustrazione e di disperazione; non pochi fra i martiri suicidi palestinesi sono membri di movimenti e gruppi non religiosi.
Dopo gli attentati in Libano e in Israele, le azioni suicide si sono allargate in tutto il mondo, concentrandosi maggiormente proprio negli Stati di religione musulmana, a causa della storica conflittualità fra le diverse correnti dell’Islam. Un’importante osservazione va fatta a questo proposito: il terrorismo suicida per mano degli Hezbollah sciiti libanesi cessò quando il loro capo, Muhammad Husayn Fadl Allah, decretò che violava la legge islamica. Era una pronuncia autorevole, ma che non influenzò minimamente i musulmani appartenenti alla tradizione sunnita, come Hamas in Israele, o Al-Qaeda e altri gruppi jihadisti sparsi in tutto il mondo; in assenza di un’autorità spirituale universalmente accettata, l’Islam è più vulnerabile di altre religioni dinanzi al fanatismo (sia intestino, sia diretto all’esterno) promosso dai movimenti più intransigenti e bellicosi.
Per l’ateo militante Richard Dawkins e altri studiosi occidentali, la principale motivazione dei martiri suicidi dell’Islam sarebbe costituita dalle allettanti promesse di sesso in Paradiso. È vero che, secondo il Corano, nel Paradiso gli uomini avranno “spose immacolate” (4, 57), “fanciulle dal seno ricolmo” (78, 33), “vergini, piene d’amore, coetanee” (56, 36); ed è vero che la vita e gli hadith di Maometto dimostrano un grande apprezzamento del Profeta per la femminilità e i piaceri della sessualità. Tuttavia, è negli hadith e non nel Corano che troviamo il riferimento alle 72 huri (le giovani vergini) di cui potrà godere nel Paradiso chi muore per l’Islam; invero, l’esegesi classica ha sempre interpretato in modo più cauto le ricompense sessuali per i martiri suicidi. Di nuovo, comunque, va sottolineato come alcuni versetti del Corano, presi isolatamente e decontestualizzati da un apparato critico, possano fungere da stimolo per chi si candida ad azioni violente a danno proprio e di altri esseri umani.
Alcuni studiosi ravvisano nell’atto di uccidersi per uccidere la dimensione apocalittica insita in ogni pensiero religioso. Come riporta Ruthven in Il seme del terrore, poco dopo l’attentato dell’11 settembre 2001, l’FBI diffuse un documento redatto in arabo da Muhammad Atta prima di schiantarsi contro le Torri Gemelle. Tradotto e pubblicato dal Washington Post, il documento è stato sottoposto ad un’accurata analisi da Kanan Makiya, Professore alla Brandeis University di Waltham (Massachussets), e dal giornalista ed esperto di islamismo Hassan Mneimneh.
“Si tratta”, scrive Ruthven, “di un’agghiacciante promemoria su come sacrificio e violenza possano mescolarsi nella mente religiosa: la certezza della morte è direttamente collegata alla promessa del paradiso. Il messaggio è profondamente solipsistico. In nessuno degli stralci pubblicati si rintraccia un senso di compassione umana, oltre alla preoccupazione per l’anima del sedicente martire, sulle conseguenze verosimili di questa azione. La mente apocalittica è solipsistica sotto un duplice profilo: l’individuo che intraprende una missione apocalittica identifica la sua azione con la volontà di Dio, e così facendo lascia a Dio le conseguenze del suo atto”.
“Il senso generale del documento”, commentano Makiya e Mneimneh, “è che il sedicente martire è impegnato nella sua azione unicamente per compiacere a Dio”. E concludono: “L’idea che il martirio sia un puro atto di venerazione per compiacere Dio, e indipendentemente dalla specifica ingiunzione divina, è un nuovo, terrificante genere di nichilismo”.
L'indifferenza dei fanatici islamisti verso la morte è ben esemplificata dal personaggio-simbolo del jihad odierno, Mohammed Emwazi, il famigerato boia conosciuto come “Jihadi John”. Dopo aver dichiarato di voler tornare in Gran Bretagna per tagliare altre teste, Emwazi ha ripetuto le parole emblematiche che aveva già pronunciato nel 2010, scrivendo al Daily Mail: “Sono un condannato a morte”. Affermazioni del genere rivelano tutta la convinzione dei fanatici del jihad. Il terrorismo è per queste persone un'arma da usare a ogni costo contro gli infedeli; il sacrificio della vita non è nulla quando si tratta di sottomettere il mondo alla legge dell'Islam.
Quale futuro attende l’Islam?
Che cosa fare dinanzi alla prospettiva, delineata da Samuel Huntington in The Clash of Civilizations, di uno scontro nascente “dall’interazione dell’arroganza occidentale e l’intolleranza islamica”? (la disamina di Huntington, in verità, è molto più complessa. Nel famoso saggio del 1996, il politologo statunitense prevedeva che le future divisioni dell’Umanità e i conseguenti conflitti avrebbero contrapposto Nazioni e gruppi caratterizzati da culture e civiltà diverse).
Per quanto riguarda l’Occidente, un passo significativo è convincersi che, come scrive Ruthven, “l’islamismo non è l’islam, e per quanto la linea che li separa sia spesso labile, è importante continuare a distinguerli”. Abbiamo già visto che gli attacchi terroristici vengono da una piccolissima minoranza di musulmani.
Un articolo del New York Times del giugno 2015 citava una ricerca secondo la quale gli omicidi compiuti negli Stati Uniti da razzisti, neonazisti e suprematisti bianchi assommano a quasi il doppio rispetto a quelli perpetrati da gruppi jihadisti. “Il terrorismo”, ha scritto l’esperto di geopolitica ed economia internazionale Moisés Naìm, “non scomparirà. L’importante è combatterlo sulla base dei fatti, e non dei pregiudizi”. È evidente che gli attentati terroristici contro l’Occidente mirano a creare una psicosi anti islamica, a costringerci a reagire a nostra volta con violenza, in modo da spingere la maggioranza dei musulmani dalla parte degli islamisti.
In secondo luogo, dobbiamo smetterla di considerarci i depositari della verità, e cercare seriamente di comprendere il mondo culturale, religioso e sociale di individui e gruppi che abbiamo tutti i giorni accanto a noi, ma che guardiamo con sospetto a causa del più antico fra i pregiudizi, l’eterofobia. In luogo degli stereotipi che impediscono un vero contatto umano fra le persone, è necessario favorire un melting pot che comprenda ogni aspetto del vivere comunitario. È semplicemente assurdo che ci sentiamo infastiditi da una donna che indossa il chador, quando quell’usanza vige nella cultura di un popolo da migliaia di anni, e c’è chi è convinto di doverla rispettare.
Allo stesso tempo, l’Occidente deve chiedere con forza agli Stati musulmani di promuovere in ogni modo il dialogo e la libertà di espressione, e di adottare politiche di reciprocità, tese al rispetto e alla protezione di ogni credo, comunità, cultura, istituzione, siano esse laiche o confessionali. Agli occidentali convinti che l’Islam sia una religione fisiologicamente fondamentalista e violenta, e che dunque non possa cambiare, si può obiettare che la contestualizzazione nel tempo del messaggio coranico è possibile e già in atto, in nome della ragione e dei valori che sono alla base di ogni convivenza civile.
Per quanto concerne l’Islam, dobbiamo distinguere il piano politico e quello religioso. Nella realtà, alcuni fra i più grandi e potenti Stati musulmani (Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Nigeria, Pakistan, Somalia) sono delle teocrazie, e una tale distinzione ha un senso molto relativo, essendo le leggi statali soggette alla shar’ia; e la shar’ia, se applicata, è già fondamentalismo, è impossibilità di separare l’ambito laico da quello religioso.
Comunque, in campo politico, le voci di storici, statisti e politologi di tutto il mondo sono unanimi: oggi più che mai, i Paesi islamici dovrebbero utilizzare ogni strategia, ogni mezzo per combattere chi ha stravolto l’Islam sino al punto di farlo identificare con una religione di guerra. Al contrario, è accertato che alcuni fra gli Stati musulmani più ricchi hanno addirittura finanziato l’Isis all’inizio delle sue operazioni militari, così come hanno finanziato (e forse continuano a finanziare) alcune delle cellule jihadiste sparse nel mondo. Il problema è che, in barba alla comune appartenenza religiosa, i governanti di questi Stati sanno bene di essere anch’essi nel mirino dell’Islam radicale. Ma la questione è di carattere più generale, e risiede nell’ambiguità politica di Stati governati da monarchie e dinastie secolari, capaci di finanziare il terrorismo mentre ospitano da decenni basi militari americane. È chiaro che l’emancipazione sociale, politica e giuridica di Paesi che continuano a essere governati da tiranni o da regimi autocratici è di fondamentale importanza nel processo di democratizzazione dei Paesi musulmani. “L’unica medicina è la libertà”, ha dichiarato lo storico e orientalista britannico Bernard Lewis, uno dei massimi esperti mondiali di Islam.
Sul piano religioso, è necessario che l’Islam sappia anzitutto riallacciare la fede alla ragione, perché, come sottolineò Papa Ratzinger, “agire contro la ragione è in contraddizione con la natura di Dio”. E la ragione suggerisce che nessuna fede, nessun credo religioso può consentire di uccidere in nome di Dio.
“Nei numerosi viaggi che ho fatto”, ha dichiarato a Panorama il cardinale Crescenzio Sepe, già Prefetto della Congregazione per la Propagazione della Fede, “ho incontrato numerosi capi religiosi dell’Islam: li ho trovati sinceramente preoccupati per la deriva che sta prendendo il fondamentalismo islamico e desiderosi di estirpare l’estremismo alla radice”.
Purtroppo, sappiamo bene quanto sia rischioso azzardarsi a mettere in discussione la visione fondamentalista dell’Islam. Nella seconda metà dello scorso secolo, il pensatore sufi Mahmoud Mohamed Taha introdusse per primo la differenza fra Islam dei valori e Islam storico, e dunque la necessità della separazione fra religione e Stato. Nel 1985 fu impiccato come eretico senza che una voce intervenisse in suo favore. Ancor oggi, alcuni dei critici dell’Islam oltranzista e violento sono costretti a girare scortati da guardie del corpo. Non va meglio a chi decide di abbandonare l’Islam. In quasi tutti i Paesi islamici il convertito ad altra religione può essere imprigionato, o perdere il lavoro, i figli, l’eredità; in sette Stati (Arabia, Qatar, Iran, Sudan, Afghanistan, Yemen, Mauritania), l’apostata è punibile con la morte.
Fortunatamente per l’Islam, e per l’intera Umanità, giungono sempre più spesso segnali in senso contrario. Nei mesi di settembre e ottobre 2014, dopo la diffusione delle atrocità commesse dall’Isis, migliaia di musulmani sono scesi in piazza in tutta l’Europa per manifestare contro “i criminali assassini che vogliono scipparci l’Islam”. Il Gran Muftì egiziano Shawki Ibrahim Abdel-Karim Allam ha detto pubblicamente che “lo Stato Islamico è corrotto e rappresenta un pericolo per l’Islam”. E Iyad Ameen Madani, Segretario Generale dell’O.I.C. (l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica), ha affermato che le azioni di guerra dell’Isis “non hanno nulla a che fare con l’Islam e i suoi principi, che richiedono la giustizia, la bontà, l’equità, la libertà di fede e di convivenza”. C’è da registrare, inoltre, che in molti Paesi musulmani stanno crescendo interessanti correnti di pensiero laico.
Ecco, se l’Islam sta lanciando una sfida all’Occidente, proponendogli un modello di vita diverso – per certi versi più ligio a valori religiosi come la preghiera, il digiuno, la maggiore morigeratezza dei costumi – deve farlo con l’esempio, partendo non dal progetto utopistico di restaurare “il governo divino”, ma dal basso, dall’adesione a principi universali come la pace, la tolleranza, il rispetto della libertà in ogni sua forma. A ogni musulmano vogliamo ricordare che se il messaggio del Corano è verbo di Dio, questo è stato pur sempre riflesso in parole e concetti umani. Dag Tessore ci ricorda che “quando i primi califfi decisero di redigere una versione ufficiale del Corano, ad esclusione di tutte le altre versioni che circolavano, Zayd ibn Thabit, che era stato lo scriba del Profeta, disse loro: ‘Voi volete fare una cosa che lo stesso Inviato di Dio non volle fare”!” “Ben presto però”, aggiunge Tessore, “i fedeli cominciarono a ‘divinizzare’ e assolutizzare il Corano fino al punto che il califfo al-Mutawakkil (IX secolo) proclamò il dogma della natura ‘increata’, e quindi coeterna a Dio, del Corano”.
La tendenza ad assolutizzare cose in sé relative riguarda soprattutto la shari’a, che è alla base di alcune fra le più contraddittorie e antistoriche posizioni dell’Islam. Ma la shari’a è un corpus di leggi religiose creato da esseri umani, gli ulema, i quali, dalla morte del Profeta e fino al quinto secolo successivo, si dedicarono all’interpretazione e alla codificazione degli hadith di Maometto e delle prescrizioni del Corano.
In questo senso, la voce di Abdelwahab El-Affendi – ex intellettuale islamista che, anche alla luce della personale esperienza, ha rivisto profondamente le sue convinzioni religiose – è una delle più chiare e autorevoli. Per El-Affendi (nato in Sudan nel 1955), esiste un legame diretto tra l’adesione letterale alla shari’a e il fallimento, nelle Nazioni islamiche, di democrazie funzionanti. “Abbiamo visto”, scrive, “islamici e venerabili ulema sostenere regimi dispotici che uccidono e torturano innocenti , ma bandiscono gli alcoolici e i balli misti (…) La causa fondamentale di questo mancato senso della misura è da imputare alla interpretazione letterale dei testi sacri cui ho già accennato. Si dà il caso che [nel Corano] compaiano chiari riferimenti agli alcoolici e all’abbigliamento, ma non all’organizzazione politica”.
Illuminante è quanto scrive più avanti: “La ricostruzione della società musulmana deve partire dal fermo impegno per la democratizzazione e il rispetto della libertà, in particolare la libertà di associazione. E quando dico democrazia intendo esattamente questo: l’autogoverno del popolo tramite le istituzioni e i rappresentanti liberamente scelti dal popolo stesso (…) Quando cominciamo a dire che in un sistema politico l’autorità è esercitata per Dio e non per i musulmani, o permettiamo a una classe di individui di stabilire per gli altri quali siano i valori dell’Islam, ciò significa che qualcuno, altro dalla comunità (e al di sopra di essa), deve decidere qual è la volontà di Dio. L’esperienza ci ha dimostrato che questa è la ricetta per portare al potere despoti per i quali la volontà di Dio è l’ultima delle preoccupazioni”.
È opportuno precisare, a questo punto, che alcuni storici non si mostrano preoccupati più di tanto dello scontro fra Occidente e Islam, perché convinti che quest’ultimo non sfuggirà alla modernizzazione e alla secolarizzazione, indirizzandosi verso un crescente individualismo nella fede e pacifismo nella prassi. Così scrive Malise Ruthven in Islam: “Con il progressivo erodersi della distinzione tra dar al-islam e dar al-harb provocato dalla globalizzazione, i decenni a venire vedranno probabilmente l’abbandono dell’azione politica diretta e un rinnovato accento sugli aspetti personali e privati della fede (…) È mia convinzione che, nonostante le differenze storiche nelle relazioni tra Stato e società civile, il mondo musulmano si svilupperà sulla falsariga dell’Occidente postcristiano. A dispetto di quanti affermano il contrario, la fede verrà interiorizzata, e diverrà una questione privata, frutto di una libera scelta. In un’era in cui gli individui sentono sempre meno i vincoli di parentela e sono sempre più esposti all’anonimato urbano, le anime musulmane troveranno il sentiero interiore tracciato dal sufismo più gratificante della via della politica rivoluzionaria. Purtroppo, però, lungo questo percorso, sarà versato altro sangue”.
Concludendo, voglio riportare il brevissimo, ma ragionevole giudizio di Marc Augé, uno dei più acuti studiosi e interpreti del mondo contemporaneo: “Solo la condanna globale riuscirà a fermare il terrore globale”. Ed è chiaro, ribadiamo, che la prima, ferma condanna della violenza terrorista deve venire dal mondo musulmano. Nonostante le obiettive difficoltà, è necessaria una riforma della religione islamica che smascheri l’oscurantismo ancora presente in certe sue interpretazioni e manifestazioni, in modo da non fornire più alcuna giustificazione per l’uso della violenza o per l’uccisione di persone consuderate blasfeme. È questa, a mio parere, l’unica via percorribile per un Islam che voglia tornare ai valori spirituali universali, a una pacificazione al suo interno e a un dialogo possibile con le altre confessioni religiose e con la società laica. Se anche – come pensa ad esempio Magdi Cristiano Allam – non esistesse un Islam moderato come religione, esistono però musulmani moderati come persone, e questi costituiscono la maggioranza dell’Islam.
Ricordando che la tolleranza ha rappresentato una faticosa conquista per tutte le religioni monoteistiche, compresa quella cristiana, è giunto il momento, per i fedeli dell’Islam di buona volontà, di agire senza ambiguità per isolare le frange fondamentaliste, di condannare senza appello i sedicenti musulmani che non esitano a far strage di altri musulmani facendosi esplodere dentro una scuola e persino dentro una moschea. Sono convinto che sarà soprattutto su questo terreno che si giocherà il futuro dell’Islam.
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