“Oh, Agion Oros!” “Oh, Sacro Monte!”
È con queste parole che i monaci dell’Athos, nelle rare occasioni in cui lasciano la Montagna, esprimono la gioia del ritorno alla loro santa dimora.
Padre Basilio Gontikakis, igumeno del monastero di Iviron e teologo di fama mondiale, scrive che ogni ritorno al Monte Athos si rivela una mistagogia. L’Athos gli appare come uno smeraldo, uno smeraldo che brilla, all’esterno, del verde intenso dei suoi boschi, e interiormente “di una luce spirituale abbacinante, una fragranza simile a quella che ha inondato l’Universo il giorno della Resurrezione”.
Padre Giorgio, archimandrita del monastero di Grigoriou, definisce il Monte Athos “la Porta del Cielo”, l’oasi cristiana “dove tutto chiama a una conversione”. E Padre Emiliano Vafeides – l’igumeno che nel 1973 abbandonò le Meteore assediate dal turismo, andando a popolare, insieme ai suoi discepoli, il monastero athonita di Simonos Petra – lo esalta come il “crogiolo dove i monaci, in virtù della preghiera del cuore, infiammano in modo incessante il loro eros divino”.
Il profondo amore che i monaci athoniti professano per il luogo che abitano – un luogo che vanta una tradizione spirituale millenaria – è perfettamente comprensibile. Ma come si spiega la misteriosa attrazione che la Santa Montagna esercita sui pellegrini che ogni anno vi arrivano da tutto il mondo?
Il professor Graham Speake, docente nell’Università di Oxford, è un veterano dell’Athos, cui ha dedicato uno splendido libro, Renewal in Paradise, vincitore del Critico’s Prize per l’anno 2002. Eppure, scrive di non saper spiegare i motivi per cui si sente tanto affascinato da questo luogo.
Forse il segreto dell’Athos sta nelle cose semplici di cui è fatto: preghiera, umiltà, lavoro, silenzio, liturgia. Proprio così era descritto quando seppi per la prima volta della sua esistenza. E improvvisamente, nella mia anima indifferente e smarrita si aprì uno spiraglio; dovevo andare lì, nell’ultima oasi spirituale della Cristianità, e pregare insieme a un eremita.
Nella mia vita ho vissuto di molti sogni, rimasti per lo più tali; ma questo si è realizzato, perché al Monte Athos ho conosciuto – e ogni anno mi onoro di trascorrere qualche giorno insieme a loro – gli ultimi asceti della Cristianità. Sono le uniche persone con le quali non parlo mai di me stesso. Non sanno niente di me, salvo che sono italiano e che sono sposato. Io, a mia volta, non so quasi niente di loro. Ma accade proprio in situazioni simili che le anime comincino a vibrare per un nonnulla: un sorriso, un’affinità appena accennata, il comune amore per un letterato. Non so dire perché io e Agathangelos ci siamo sentiti affratellati dopo poche parole, ma sono fiero di essere diventato amico di uno degli asceti dell’Athos.
Che cosa provo quando sto insieme a lui? Al solo vederlo, mi sento pervaso da un’inspiegabile comunione spirituale. Perché aveva ragione l’Abbà Isacco: più un uomo fugge dal mondo, più gli altri si sentono attratti da lui. Agathangelos è un russo di trentotto anni, alto e magro, con occhi azzurrissimi in un volto sereno e gioioso. Vive a Iannakopoula, una landa solitaria della Vigla, la punta estrema della penisola athonita. Ha scelto di dimorare lì per ricostruire la chiesetta ormai diruta e il kellì, non più abitato da circa cinquant’anni. Credo che chiunque avrebbe cercato di sistemare prima il kellì – la piccola abitazione attigua alla chiesa – poi quest’ultima. Invece Agathangelos ha fatto il contrario; quest’anno ha ultimato la ricostruzione della chiesetta dedicata a San Giorgio, continuando a dimorare in una baracca realizzata con legno e altri materiali di fortuna.
Non possiede nulla; si ciba quasi esclusivamente di ortaggi, pesce e miele, e veste un rasson stinto e rattoppato; ha vinto ogni vanità, perché nella sua anima dimora il Signore, che lo colma di ogni gioia.
Come ha fatto lo scorso anno mi ha portato da un altro asceta, Isaac, il monaco georgiano che vive e si cura di Agios Petros, il luogo in cui visse San Pietro l’Athonita, il primo eremita dell’Athos di cui abbiamo notizie storiche.
Abbraccio Isaac e gli dico che ho pregato tutte le sere tenendo in mano il komboskini che mi aveva donato l’anno precedente. Il suo volto, pervaso da una dolcezza divina, si apre al sorriso, come se già lo sapesse; gli uomini che ogni giorno incontrano Dio vedono l’invisibile. Andiamo in chiesa e preghiamo prima separatamente, poi tutti insieme. Quando esco, ho la sensazione che la mia anima si sia espansa; mi sento leggero, immateriale, immerso in un bagno di euforizzante atemporalità.
Il pergolato ombroso, il tavolo di legno consumato dagli anni, il tè che l’asceta di Agios Petros – unica concessione al “lusso” – fa arrivare direttamente dall’India. Dopo una mezz’oretta di serena e cordiale conversazione, mi scappa una frase che Isaac interpreta come un complimento. Subito mi fissa: “Lascia stare, hai sentito parlare dello iero-Trifone? Lui sì che è un esempio da seguire. Superati i novant’anni aveva tutti gli acciacchi possibili, eppure era sempre gioioso, sempre socievole. Prima di morire, a novantatré anni, era malato in tutto il corpo; ma la sua anima godeva di ottima salute, era diventata purissima”.
Già, purissima. Non faccio fatica a crederci. Niente purifica come la solitudine nel Signore. Quando si è così soli, non c’è alternativa; o si ha l’accidia, dentro di sé, o la pienezza dell’Assoluto. La solitudine è un vaso che può rimanere vuoto, o riempirsi delle cose essenziali che hanno preceduto l’uomo nella Creazione: la Natura, i suoi colori, i suoi profumi, la sua quiete.
Cala un meraviglioso silenzio. Il silenzio, che nel mondo è spesso fonte di inquietudine e di paura, qui è la norma, e ha molteplici significati: vuol dire pace, rispetto, contemplazione. Il silenzio è lo strumento afono con il quale il monaco trasforma il vuoto apparente in una comunione col Tutto. Quale linguaggio, quali parole sarebbero in grado di trasmettere la suggestione di sentirsi immerso nella celeste bellezza del Creato?
Non ci sono asceti chiacchieroni, o impazienti. Si prendono il loro tempo, non ne sono schiavi. La loro conversazione è una melodia. Parlano tutti lentamente, con dolcezza; è al cospetto di uomini come Agathangelos ed Isaac che prendi coscienza di quanto sia importante saper dosare le parole e le pause quando intavoli una conversazione, e come possa diventare facile comunicare nella piena comprensione di ciò che si dice.
Al tempo stesso, in luoghi come Agios Petros hai la prova dell’insufficienza delle parole ad esprimere la condizione ineffabile dello stato mistico dell’esichia, della gioia dell’anima che si sente in comunione con l’Assoluto. Quando parla il Signore, tutto è ridotto al silenzio.
Guardo Agathangelos e Isaac e penso che vigilano sulla loro anima, non sul conto in banca, le scadenze, l’onore, l’ambizione, la fama. Con me, parlano di Dio, ma anche dei loro piccoli crucci; con serenità, perché non temono il mio giudizio, non vogliono la mia approvazione. Si sono affezionati a me, come io a loro. Ma la mia voce dura poco, lo spazio di qualche giorno, poi essi torneranno a udire quella che scende su ogni uomo che abbia scelto la completa solitudine per un fine più alto. È una voce che non parla alla mente, che non può essere ascoltata se non da chi la cerca; perché parla al cuore, e solo lì può essere percepita.
Il racconto è tratto dal libro L’isola che sono diventato (pagg. 197, euro 15) uscito recentemente presso Edizioni Fili d’aquilone.
armando.santarelli@inwind.it
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