Nella poetica di Camillo Sbarbaro (1888 – 1967) si riscontra una posizione estremamente singolare nella nostra letteratura del primo Novecento. Tramite la sua parola nuda e scarna, con la semplicità del suo dire e con i suoi frammenti, fu sempre estraneo a qualsiasi concessione retorica alla D’Annunzio. Il poeta ligure rimase saldamente avvinghiato a quella “interiore intenzione di constatazione”, di “lucida autocoscienza di una condizione morale di crisi, sofferta senza evasione nell’elegia o nell’abbandono al fervore” come è stato ripetutamente sottolineato dalla critica. Ma v’è di più. L’uomo ha lavorato con una fedeltà alla linea di condotta per tutta la vita che pare avere come obbiettivo quello di ridurre la sua letteratura al silenzio e il poeta a una “mineralizzazione”, ad una “cosa inerte”, posizionata in una vita arida e pietrosa: l’amara consapevolezza di una vita senza sorprese. Il recente libro di Marco Testi, Il poeta, il suo tempo e la città, pubblicato dalla casa editrice Fermenti (2014), tenta di fare un punto preciso su uno dei più grandi e sottovalutati poeti del Novecento. Libro di cui lo stesso autore aveva parlato sul numero 33 di questa rivista, anticipando le linee (e alcuni passaggi) di questo importante studio su Sbarbaro.
Alcune pagine chiariscono l’importanza di una poetica rimasta, nonostante tutto, ancora in ombra nel panorama degli studi – e della fruizione meno specialistica – riguardanti la letteratura del secolo passato.
Camillo Sbarbaro fu il grande dilettante di sensazioni rare, ostile ad ogni catalogazione, rinchiuso in una specie di aristocrazia nell’umiltà, il fanciullo estroso secondo l’immagine di Montale, l’appassionato di studi di botanica, il collezionista di licheni, orgoglioso delle sue scoperte, archivista di esemplari rari nella sua esistenza di scapolo, studioso e traduttore di classici greci e scrittori francesi e infine, negli ultimi vent’anni, della sua vita saldamente ancorata all’ultimo porto, una piccola casa di Spotorno, teatro di una consolazione naturalistica con le indimenticabili immagini della Liguria: il ritorno alla natura, desiderio espresso fin da adolescente.
Non a caso la sua vita fu quella di un “irregolare” che mal sopportava il lavoro impiegatizio e i compromessi per far carriera e finì con l’adeguarsi al ruolo di professore supplente di greco presso scuole private. Dopo le esperienze delle due guerre il poeta spese la sua vita all’insegna del distacco, dello spegnimento lento, come quello della consunzione di una candela, di una riduzione all’osso dei sentimenti, insomma: volle fare della propria esistenza un segreto da custodire e, al contempo, fare della sua letteratura una scarna prosa di scampoli limitati da una “misura privatissima”, senza lasciarsi andare ad avventure inutili: in definitiva non accettare la letteratura come condizione. Anzi allontanarsi da essa.
Lo stesso Sbarbaro diceva, tra il serio e il faceto, di voler affidare il futuro della sua fama al lavoro di lichenista e si capisce chiaramente che la sua esperienza culturale è quella di chi non ha nessuna intenzione di occuparsi professionalmente di letteratura: estraneo ad ogni genere di diatriba letteraria (nonostante numerose poesie e prose siano apparse su varie riviste, tra le quali «La Riviera Ligure», «Lacerba», «La Voce»), lontano anni luce dalla figura dell’intellettuale (nonostante le frequenti collaborazioni a riviste come «Itinerari», «Letteratura», «La Fiera Letteraria», «Officina», e tante altre), decisamente refrattario alla partecipazione attiva e appassionata ai salotti e ai circoli letterari (i suoi interventi erano timorosi e riservati, una sorta di “astrazione”) nonché, per natura, corpo estraneo alle accese dispute culturali, politiche e letterarie del suo tempo per quel carattere di ligure introverso, geloso e orgoglioso delle sue scoperte (uniche concessioni gli incontri nel breve soggiorno fiorentino nella primavera del ’14 per la pubblicazione di Pianissimo presso la Libreria della Voce dove conosce Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Dino Campana, e poi le frequentazioni di alcune gallerie, caffè o ritrovi in case d’amici, intimi e fidati, ed è qui che lega con Eugenio Montale, primo appassionato recensore delle prose di Trucioli, e poi Adriano Grande, che nel primo numero della rivista «Circoli» ospita i Versi a Dina, Carlo Bo, Carlo Emilio Gadda, il “grande amico” Angelo Barile, Guglielmo Bianchi.
La sua vita è “strana”. Il suo rifiuto delle condizioni normali dell’esistenza, la sua silenziosa opposizione alla società costituita, alla vita pubblica, alla professione di letterato, il suo non obbedire a nessun credo fino alla registrazione poetica di ciò che andava salvato oppure gettato. Una registrazione che salvava solo il ricordo e poco altro, seguendo un percorso di esaltazione dall’interno: un uomo sempre preoccupato di aver poco spazio a disposizione come un viaggiatore che può portare con sé solo un piccolo bagaglio e deve man mano scartare il superfluo, ridurre il volume all’indispensabile, pensare solo allo stretto necessario. Anche Sbarbaro è intento a questa riduzione all’essenziale, all’irrinunciabile: di una pagina può salvare un verso eliminando tutto ciò che può essere compiacimento, consolazione, inutile orpello.
La sua letteratura mortificata e scarnificata si trasforma in quel pochissimo che rimane, nell’indispensabile alla vita. Nel momento in cui riconosce l’ineluttabilità dell’andare diritto alle cose per mettere a nudo la miserabilità del mondo si dirige già verso il suo destino: davanti al mondo non ha nessuna intenzione di raccontarlo e il suo discorso è quasi avvilito dal carattere originario di liquidazione; la parola mancata dell’entusiasmo dà la sensazione che quel procedere “pianissimo” tra i miseri resti della vita sia l’esito finale non l’inizio di un viaggio. Eppure riuscì a inventarsi un proprio mondo, personalissimo e di sicuro autentico: forse fu la ricerca di un rifugio dalle insidie del tempo, forse il motivo di tale scelta andava ricercato in quella passione per il lichene da scovare nelle sue peregrinazioni liguri o forse l’unico intento era l’urgente testimonianza di una condizione interiore racchiusa in quegli scarni versi che aveva messo insieme o in quei pochi frammenti essenziali.
La salvazione e la dannazione, l’immobilità o il rinnovamento, non avevano più alcuna importanza perché era già stata fatta tabula rasa dei valori: era ormai una constatazione dell’accettazione del dato della liquidazione, del non parlare quasi mai, e non poteva che condurre all’ammutolimento, all’esclusivo dialogo con se stesso, ad una presa d’atto del dramma individuale, della vita d’uomo solo, di prosatore refrattario, di ricercatore che chiamava la lente d’ingrandimento “i suoi occhi”, di lichenista ai margini della maniacalità.
“Non aveva né lezioni da prendere né da dare, la sua scuola era diversa, non aveva pareti, non aveva maestri all’infuori della sua sensibilità” scriverà Carlo Bo e fu così perché nessuno gli avrebbe impedito di utilizzare solo il suo personalissimo microscopio per osservare la vita. La sua figura è quella di un uomo sempre “fedele al disinteresse assoluto del gratuito”, negatore del divertimento e del compiacimento, indifferente agli eventi e alle problematiche, lontanissimo dai miti e dai falsi idoli. Rifugiatosi in un angolo di terra per cercar tra le rocce o sui tronchi degli alberi forse l’unica cosa che potesse regalargli un sussulto: un’incrostazione verdastra o giallastra da “lambire” con una timorosa mano.
Nella seconda parte del saggio di Marco Testi lo sguardo passa dall’epoca storica di Sbarbaro alla città. Così come passa dalla poesia di Pianissimo alla prosa di Trucioli. Nell’opera di Sbarbaro ben presto si realizza un continuo scambio tra poesia e prosa ma il bilancio della sua poesia era già fissato in partenza. Il suo discorso fu fatalmente sempre interrotto, frantumato e residuale ma fu un uomo che riuscì a vedere un meraviglioso mondo dove gli altri non vedevano nulla o faticavano a veder qualcosa di interessante e, in intima connessione, un poeta che pose, a fondamento della sua poesia, l’essenzialità e la purezza.
Quel suo lato di poeta isolato, di curioso ricercatore tra il fascino e la desolazione, di ribelle taciturno, accompagnò una personale visione che avrebbe alimentato fino all’ultimo la sua silenziosa opposizione alla falsità del mondo, il suo rifiuto delle condizioni normali dell’esistenza di un intellettuale sempre pronto a mettersi in mostra. Scelse le altre professioni di traduttore di autori classici e di ricercatore di licheni: non fu una “stagione” della sua vita ma la sua “vita” e questa scelta fu parte fondamentale della sostanza della sua poesia. In ogni poesia e in ogni prosa troviamo un frammento del suo essere uomo, un esemplare richiamo alla sua visione, in vista dell’ultimo approdo del navigante che faceva fatica a sopportare l’Uomo.
E il crepuscolo dell’età giolittiana sta proprio nella sua accettazione come uomo e intellettuale scevro da qualsiasi intellettualismo; e in quest’ottica appare inevitabile la scelta esistenziale del ritiro, di un buon ritiro tra la natura della sua Liguria dove poteva conservare la grazia della poesia, la purezza dell’animo, condurre una vita tranquilla in solitudine, unica eccezione l’affetto della sorella sempre piena d’attenzioni (sulla scrivania di Camillo non mancò mai un mazzetto di fiori appena colti dalle mani della sorella Lina), rari incontri con gli amici fedeli che facevano venire a galla la sua umanità, l’entusiasmo del fanciullo che riuscì a contagiare molti nella passione dei licheni, l’intima comunione con le cose più semplici, la volontà di scegliere “in proprio” il modo di vivere per dire in libertà ciò che veramente lo interessava, senza ipocrisie, senza un tornaconto: sempre resistendo alle lusinghe. Il silenzio (quando si deve tacere), la semplicità, la dignità, l’umiltà, la coerenza sino alla fine: cosa chiedere di più.
Una volta Sbarbaro disse: «Non si può, né si deve, scrivere con fatica, costringersi al tavolino: con il rischio di fare solo cerebralismi senza senso: poco o tanto che ci sia nel tuo bottiglino, ricordati, che sia tuo è quello che conta». A questo punto non rimane altro da fare che rimandare il lettore al libro di Marco Testi e chiudere questo affettuoso ricordo con una famosa “goccia” di Camillo Sbarbaro che fu anche un consiglio offerto ad amici artisti: «L’arte non si può fare; bisogna lasciarla farsi».
Marco Testi, Il poeta, il suo tempo la città – Solitudine come superamento: la riposta di Sbarbaro al crepuscolo dell’età giolittiana, Fermenti Editrice, 2014, pagg. 140, euro 15.
Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, Genova 1888 - Spotorno, Savona 1967) lavorò all’Ilva di Genova, partecipò alla prima guerra mondiale e, dopo essersi dedicato all’insegnamento, si ritirò a Spotorno per dedicarsi alla poesia e ai licheni, di cui fu studioso di fama internazionale.
Resine (1911) segna l’esordio poetico. Prima della seconda raccolta Pianissimo (1914), sulla rivista “Riviera ligure” furono stampati alcuni testi che documentano il passaggio fra le due raccolte. Tra gli altri volumi di poesie si segnalano: Rimanenze (1955), Primizie (1958), Poesie (1971, postumo).
Gli scritti in prosa sono un correlativo della produzione in versi, a partire da Trucioli (1914-1918) (1920) e da Fuochi fatui (1956) fino a Scampoli (1960) e Cartoline in franchigia (1966).
Marco Testi è nato a Tivoli e ora vive in Sabina. È stato docente a contratto di Letteratura Italiana presso l’università di Cassino e alla facoltà di Scienze della Formazione dell’Aquila. Conduce da molti anni ricerche sulla concezione di spazio nella letteratura italiana e sui rapporti tra scrittura e arti figurative tra fine Ottocento e primo Novecento. È critico letterario per l’agenzia SIR, per la rivista “Segno”, del quotidiano l’Osservatore romano e fa parte del comitato scientifico della rivista “L’Albatros”
Nel 2007 è uscito il suo volume “Altri piani, altre valli, altre montagne - La deformazione dello spazio narrato” in «Con gli occhi chiusi» di Federigo Tozzi (Pensa Multimedia), che analizza la scrittura “cubista” e visionaria di Tozzi. Nel 2009 ha pubblicato Tra speranza e paura: i conti con il 1789 (Giorgio Pozzi Editore). Altri suoi volumi: Il romanzo al passato. Medioevo e invenzione in tre autori contemporanei (Bulzoni, 1992), Frammenti d’Occidente. La scrittura tra mito e modernità (La voce del tempo, 2003), sul rapporto tra concetto di tradizione e letteratura moderna, e Il poeta, il suo tempo, la città (Fermenti, 2014), su Camillo Sbarbaro. In Una città come mito (Chicca, 2000) e nei suoi libri su Ettore Roesler Franz e i viaggiatori-artisti del Gran Tour, ha approfondito il rapporto tra simbolismo, scrittura e immagine. Ha pubblicato, su riviste internazionali, saggi su Michelstaedter, Pirandello, Croce critico letterario, i rapporti Campana-D’Annunzio, Caproni, il simbolismo del castello medievale nella narrativa contemporanea, Landolfi, Garrone e altre figure della letteratura italiana. È suo il capitolo La voce di Rebora alle porte del silenzio in La Bibbia nella letteratura italiana (Morcelliana, 2009), collana diretta da Pietro Gibellini.
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