FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 33
gennaio/marzo 2014

Perdóno?

 

ALLA RISCOPERTA DI CAMILLO SBARBARO

di Marco Testi



Uscirà tra breve per Fermenti editrice un lungo studio di Marco Testi su Camillo Sbarbaro, che rappresenta il più aggiornato contributo su uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. Presentiamo in questo numero, per gentile concessione dell’autore, alcune pagine che chiariscono l’importanza di una poetica rimasta, nonostante tutto, ancora in ombra nel panorama degli studi – e della fruizione meno specialistica – riguardanti la letteratura del secolo passato. [NdR]


La distanza a volte non fa malissimo, anzi. A noi, ad esempio, permette di esaminare con maggiore serenità la poetica di uno scrittore di primo Novecento ancora sconosciuto al grosso pubblico.
Riparlare di Sbarbaro significa anche riprendersi la libertà di cogliere gli aspetti del vissuto (quando il formalismo radicale aveva dichiarato la morte dell’autore empirico) in funzione dell’opera, che non si fa mai da sola. Il carattere dello Sbarbaro persona, anche se il tempo e la radicale alterità di ogni essere non ne permetteranno mai la vera conoscenza, c’entra e come con i versi di Pianissimo che cantano la frattura con l’esistente – quasi esclusivamente antropico – e celebrano l’elogio dell’ombra.

La libertà, per quanto alcuni pensino il contrario, fa bene, e permette di vedere con occhi aperti e disincantati un pezzo della storia della nostra letteratura, messo in ombra dalla grandezza di altri “resistenti” alla società e ai suoi riti, come Campana, Rebora e Michelstaedter, e poi ancora Montale, ma non per questo privo di fascino. Non fosse altro per quella assoluta fedeltà di poesia e vita che fu propria di Sbarbaro.
Ma proprio perché si tratta anche di storia, per quello che – ormai poco – è rimasto, non si dica in termini di obiettività, ma anche solo di capacità di osservare dall’esterno un fenomeno (capacità che dal primo Novecento è stata messa in mora dalla scienza stessa), ho tentato di offrire, nel primo capitolo, uno spaccato della realtà di quella che piuttosto impropriamente è stata chiamata età giolittiana, pur sempre tenendo d’occhio il milieu di Sbarbaro.
Ovviamente tale sguardo assume una prospettiva, quella della cultura italiana e mitteleuropea che, attraverso le suggestioni “maledette” e simboliste, si caricava di valenze spesso drammatiche, soprattutto quando si trattò di offrire risposte alla situazione di crisi. Quella cultura affondava le sue radici nel processo risorgimentale, con le sue contraddizioni, e nella borghesia intellettuale che lo aveva favorito, nonché nei rapporti tra questa e la classe degli industriali e dei grandi proprietari da una parte, il popolo e il sottoproletariato, che non ebbe parte in questo processo, e se l’ebbe, fu antagonista, dall’altra.
Il modo di vivere e di scrivere di Camillo Sbarbaro è fatto pure di questa storia, anche se è lontana da me la tentazione di dare ad essa il crisma della causalità e della necessarietà meccanicistica.

L’ombra era il suo modo d’essere, e su questo modo saranno convenuti elementi genetici, culturali, sociali e quella buona dose di casualità che da quasi un secolo fa parte della nostra modalità di interpretazione dei fenomeni.
Non era, quello di Sbarbaro, un mero ripiegamento. Può essere letto anche come fedeltà e come rifiuto di abbracciare modalità acritiche e lasciarsi andare alla corrente della resa incondizionata al tempo. Può essere interpretato anche come esempio di poetica passato nel dimenticatoio proprio per questo suo estremo abbarbicarsi a ragioni non estetiche e non così suggestive come il nichilismo, il superomismo, il maledettismo, l’estetismo. Lontano dagli ismi, insomma, dai tic e dalle mode della borghesia intellettuale; nella parte finale della sua parabola, lontano proprio dalle sovrapposizioni colte e letterarie che si appiccicano alla realtà effettuale.
Il sospetto che la fedeltà assoluta della poetica al proprio essere nel mondo abbia contribuito a relegarlo in un suo lungo silenzio, e che invece quella fedeltà possa essere di monito al nostro oggi, è pienamente presente ed operante.


IL NUOVO LIMEN: LA CITTÀ

Nuovi panorami

La vicenda esistenziale e poetica di Camillo Sbarbaro sfiora quella di tutta un’epoca – la prima metà del Novecento – senza però che mai egli si fermi e aderisca ad uno dei tanti progetti o delle tante poetiche del tempo: Marinetti e il futurismo, la Voce, Lacerba, l’ermetismo gli passano accanto, alcune – come l’esperienza poetica e umana di Campana – affascinandolo per un attimo, ma restituendolo subito dopo al suo mondo “minerale”{1} di arroccamento e di estrema riduzione esistenziale e poetica.
In questo Sbarbaro ha mostrato il possesso di una sicura, seppure isolata, poetica: nell’aver saputo far coincidere ad una coscienza di inadeguatezza e di esistenza minima uno stile tutto regolato su segni di oggettualità, di mineralità, di immobile scansione del verso e del frammento.

Uno degli esisti più vistosi all’interno del procedimento stilistico sbarbariano è quello della negazione dell’aspirazione dannunziana alla congiunzione arte-vita in senso euforico, attaccando fin dal proprio esempio esistenziale, e soprattutto con un rinnovato e autonomo registro stilistico qualsiasi tentativo di fascinazione e dipendenza dalle ascendenze nicciane che attraverso il pescarese erano diventate uno dei canoni di riferimento dei giovani nati intorno agli Ottanta. Elemento comune a molti di quei giovani intellettuali era anche la contestazione delle pose più insincere di D’Annunzio, che nella poesia sbarbariana assume le coordinate di una forte coscienza di inadeguatezza rispetto alle sollecitazioni che sugli intellettuali operava una società in radicale cambiamento.

L’impatto con la modernità aveva creato già a fine Ottocento (con una anticipazione fondamentale all’interno del variegato mondo pre-romantico e romantico) una coscienza di abbassamento rispetto al centro culturale cui l’immaginario dell’intellettuale mirava. La figura della prostituta, vista benjaminiamente come comunione con la città, quando tutte le altre possibilità di comunicazione erano messe in crisi per l’inadeguatezza del poeta, inizia a divenire un vero e proprio tòpos poematico: “Essere la puttana che sussurra / la parola al passante che va oltre!”.{2} La personificazione prostituta-città porta alle estreme conseguenze l’archetipo baudelairiano, ma, come per un desiderio occulto di espiazione, ecco che il poeta cerca l’assoluta identità con il segno più umanamente dolente ed ambiguo della realtà urbana: dalla comunione con la prostituta la poesia va scivolando verso l’identificazione con essa.


Gli altri

D’Annunzio eludeva il problema creando una franchigia linguistica, una rarefazione estrema dell’atmosfera attraverso una sovrabbondanza verbale di ostentata derivazione aulica. Nel Poema Paradisiaco, che già abbiamo perso in considerazione come punto di riferimento per una condizione letteraria di “malattia” nel nostro panorama novecentesco, l’Hortus Conclusus è il riparo nostalgico al di là del quale il mondo della necessità si svolge con la sua brutalità quotidiana.
I versi di Sbarbaro prima citati sono l’estremo contraltare in senso stilistico (ed esistenziale) dell’evanescenza sensuale e nel contempo misticheggiante (un misticismo di maniera e già imbevuto di elementi aulici e preziosi) di un D’Annunzio che anche nel momento di anticipo “crepuscolare” tendeva all’eufemizzazione arcaizzante e preraffaellita: “Rilucevano il carbonchio e il crisolito / sul suo capo sovrano / mistici come gli astri”.{3}
I versi evidenziano il tentativo di riuso di elementi aulici in funzione di nostalgico ritorno, e in ogni caso di fuga, da una parte, e l’accelerazione, dall’altra, di un processo stilistico teso ad evidenziare le fratture, e a non ricomporle, che si frappongono fra letterato e società, preparando il campo alla nuova ricerca superomistica del bello e dell’unico.

Sbarbaro si sente escluso dalle possibilità di inserimento nei nuovi processi sociali e culturali perché in fondo resta vincolato ad una concezione del ruolo del poeta visto come ideatore di cultura e privilegiato trasmettitore di moralità, ma contemporaneamente avverte la inadeguatezza della sua posizione reale nella società. In qualche modo, come ha riconosciuto Mengaldo, il ligure resta per certi versi schiacciato dalla persistenza di una aura alta ed eloquente e “l’esigenza di nudità e spoliazione”. L’eloquenza rappresenta il luogo perduto da una poesia che non riesce più a cogliere l’essenza del mondo e a porsi come protagonista delle sue dinamiche.{4}
Nella prosa dei Trucioli lo scrittore insegue possibilità che dovrebbero risolvere nella modernità – di qui cedimenti al futurismo – l’angoscia della solitudine civile e poetica: sono tentativi di cui il ligure sconta in partenza il fallimento e che allora, in una sorta di circolarità, diventano elementi non di work in progress, ma di disperazione nella funzione positiva della poesia. La sua visione dell’esistenza è legata ad una sensazione di estraneità e di corrosiva complicità che lo avvicina ai procedimenti di mimesi auto-ironica nei costumi borghesi di Gozzano: “Colleziono anch’io come il vecchio libertino le stampe oscene”,{5} “Potessi almeno piangere come la zitella sul romanzo sentimentale!”;{6} non mancano, come si diceva poco prima, contaminazioni futuriste, destinate a rimanere isolate in un contesto in il tono minore prenderà presto il sopravvento:

Sono l’uomo dallo sparato portentoso simile a un idolo di VOULEZ-VOUS UN PEU D’OR MAXIMA VOUS EN DONNERA
Abito l’ambiente allucinato – pavimento che specchia, strani pomi penduli – di MURATTI’S AFTER LUNCH CIGARETTES.{7}

Procedimento, quest’ultimo, che ostenta un percorso “virile” attraverso le spinte e gli stimoli della modernità, ma che poi ne riportano immediatamente la fallacità e l’illusorietà; prova ne è il riaffiorare in Trucioli di una tensione verso la ricerca del rifugio mutuata da Pascoli,{8} che sembrava esaurita già con Resine: un sottile e sotterraneo filo lega l’umanità, i contrasti e le guerre, gli entusiasmi e le grida sono aspetti passeggeri, chimere accecanti, che impediscono il raccogliersi dell’uomo e l’accettazione del suo destino, e di conseguenza negano l’attenzione alle piccole e innocue cose della quotidianità: discorso, che, come si vede ha notevoli punti di contatto con quello coevo di Corazzini.

Se a volte la scrittura del ligure può trattenere suggestioni futuriste o tardo-espressioniste che possano celare una tensione verso il mondo, sopravviene nel medesimo episodio qualche riflessione che contribuisce a dissacrare i riferimenti alla contemporaneità, riprendendo suggestioni rimbaudiane:

      Mi fabbrico altre volte il NAUTILUS perfezionato.
      Staccato dal continente, scopre le nuove fogge viventi
      uscite da una fucina diabolica.
      Mi rinfrescano gli occhi le aurore abissali.

      Assisto alle mute lotte degli squali.
      Nelle tenebre rigate da lente forme fosforiche odo
      Battere il mio cuore d’uomo.

      Vivo la vita stupefatta della medusa
      Quella millenaria del banco di corallo
      La crepuscolare degli esseri né bestia né pianta

      Ricordo dell’umanità, mi scontro nella nave coricata.

      Così il gonfio fumator d’oppio elude la desolazione della sua stanza.
      Così l’anima si gingilla, bambino malato con
      Bolle di sapone.{9}

Qui a prendere le distanze dalla modernità è soprattutto l’uso ironico dei lacerti futuristi e fantastici, legati al romanzo à la Verne, come nel caso del “nautilus”, degli elementi tratti dalla realtà alto-borghese e salottiera, “l’acqua minerale”, o delle fughe radicali nella visione liberatrice del Battello ebbro racchiuse nelle “aurore abissali”, o nelle “lente forme fosforiche”, oppure nel baudelairiano “gonfio fumatore d’oppio”; letto in questo contesto, il frammento acquista un sostanziale segno antifuturista: nel futurismo rimaneva pur sempre la fiducia nelle parole nuove, fatte – nelle intenzioni – di cose, mentre in Sbarbaro si sta lentamente formando una coscienza di inutilità degli sforzi dell’uomo; i rimandi modernisti non sono che pretesti per affogare nel mondo, per dimenticare nell’abbaglio di un attimo la proprio angoscia di cieco camminatore.{10}

Parlare di viaggio per Sbarbaro è infatti improprio, anche quando per viaggio si intenda l’attraversamento di un paesaggio interiore. Il suo è semmai il tentativo di testimoniare la voce della persistenza in una condizione di inadeguatezza alla realtà. Il contributo più notevole del ligure è proprio quello di aver in un certo senso rovesciato, dopo averla incorporata, l’esperienza rimbaudiana: Sbarbaro resta sempre ad un passo dalla trasgressione ma non si spinge mai al di là, anche quando l’aldilà è il limite del silenzio, il rimbaudiano abbandono della parola occidentale: “Diventi muto e le parole non dette mi restino pietre sul cuore, purché parta un giorno pel mondo a scordarmi anche il nome”.{11} La sua moralità asciutta e inclemente con se stesso respinge come inutile la rottura con la società e l’operazione maudit. E infatti, accanto a proclami di abbandono della poesia e della parola, è sempre presente la coscienza di non poter più fare a meno di uno strumento che rimane l’unica ragione di esistenza, sempre però al limite dell’indicibile, ed è questo che il poeta confessa che “per cantare anch’io sono pronto a perdermi”.{12}


Pianissimo

Ma il cuore della particolare stagione poetica di Sbarbaro è rappresentato dalle poesie di Pianissimo (1914) e dai “frammenti” dei primi Trucioli (1918-20) e di Liquidazione (1928): un cuore cui vengono meno i colpi che scandivano la pienezza dell’esistenza; la poesia diviene allora testimonianza della resistenza alla città e a tutti i suoi connotati di miseria, di alienazione e mercificazione, di sensualità e di allucinazione. La capacità di risarcimento nella natura è caduta, il poeta, suo malgrado, si è spinto nei meandri delle “città terribili” che chiudono definitivamente ogni possibilità di viaggio conoscitivo. Quel viaggio, tra l’altro, è stato già tentato da altri, e ogni sua ripresa sarebbe ridicola ripetizione, scimmiottamento infantile.

Analizziamo la poesia che può rappresentare la condensazione più solida del coacervo di stimoli e segnali presente in Pianissimo: “Talor, mentre cammino per le strade”.{13} Può essere considerato un “manifesto” vero e proprio perché raccoglie in sé i motivi presenti nelle pagine della raccolta. Balza all’occhio la presenza, frequente nello Sbarbaro poeta, dell’avverbalizzazione temporale, già notata da numerosi critici,{14} elemento di passaggio da una condizione di inquieto rifiuto giovanile ad una di smarrimento di fronte ad un mondo che si pone come necessario e nel contempo inconoscibile.
Abbiamo già detto quanto sia essenziale alla comprensione del Novecento europeo l’individuazione del nesso città-artista; lo choc{15} benjaminiano è a ben guardare realmente operante nella sensibilità dell’intellettuale e dello scrittore: in Italia Sbarbaro e Campana ne sono i più rilevanti epigoni se vogliamo dare al discorso di Slataper una lettura più mediata dalla ripresa del tema del lavoro.
Un altro elemento sensibile di questa temperie (si pensi, e analizzeremo più avanti questo punto, al Fu Mattia Pascal di Pirandello) che qui si profila, è quello dello smemorarsi:

      Mi dimentico il mio destino d’essere
      uomo tra gli altri, e, come smemorato,
      anzi tratto fuori di me stesso, guardo
      la gente con aperti estranei occhi.{16}

Già da questa citazione si noterà come anche in Pianissimo si presenti il tema degli occhi: occhi estranei alla vita comune, incapaci di fermare gli aspetti comunitari, non colti nel momento della disperazione e del pianto, ma attenti (“aperti”) a quello che la catastrofe del cambiamento lascia trasparire, fino al momento dell’accettazione della solitudine e della sofferenza per la condizione di estraneità:

      M’occupa allora un puerile, un vago
      senso di sofferenza e di ansietà
      come per mano che mi opprima il cuore.{17}

È già scontato che il trasalimento non durerà molto visto che esso è “puerile”, “vago”. Si è già intuita la vera faccia della realtà cui adeguarsi e il ricorso all’estenuato cuore è nel senso moderno di una indicazione di coscienza e di adeguamento.
Le “Fronti calve di vecchi, inconsapevoli / occhi di bimbi,”{18} recano un abbondante e visitato patrimonio fatto di luoghi non soltanto ottocenteschi, mentre più interessante mi sembra il successivo: “facce consuete / di nati a faticare e a riprodursi, / facce volpine stupide beate,”{19} poiché in esso più evidente è l’aggancio con tutta una casistica che attraverso l’estenuazione del naturalismo (o la sua forzatura in chiave patologica) e la coscienza di una crisi in atto (quella del colto e, nei più attenti, della società cui si identifica) arriva con Sbarbaro ad esiti lirici nuovi nel panorama italiano di primo Novecento, assieme a Rebora e a Campana.

L’umanità che circola nella città (e nelle città del lavoro, Genova come Trieste) è già segnata da un’accezione di negatività patologica: l’incoscienza (che pure il poeta brama come risolutrice della propria angoscia) e la fissità “beata” sono l’invidiato punto di fuoriuscita dalla dimensione di sofferenza interiore del colto. Non esiste più la sicurezza del “male” da esorcizzare e quindi un punto di riferimento positivo da opporgli; non esiste salvezza dalla vita, a questo così moderno male di vivere: in questa dolente visione del mondo si accentuano le capacità naturali – e bestiali – del vivere, del procreare, del morire.
L’accentuazione di queste caratteristiche porterà, con una dilatazione della capacità espressiva della lingua, alle pagine più amare e distorte dal punto di vista “figurativo” dei Trucioli.
Intanto la descrizione di “Talor…” continua con le “facce ambigue di preti”{20} che Sbarbaro associa alla comune condizione umana, alle stesse abitudini e allo stesso destino, anche se alludono con il loro abito e la loro funzione “pubblica” alla dimensione, apparentemente estranea alla poesia sbarbariana, dell’Altrove.

Ma, come si diceva prima, uno dei temi più modernamente intesi da Sbarbaro è quello della prostituta: “Pitturate / facce di meretrici, entro il cervello / mi s’imprimono dolorosamente”:{21} la prostituta, lo abbiamo già notato in Benjamin, è uno dei segni della comunione dell’artista con la città; Campana e Gozzano sono altrettanto affascinati da una figura tanto ancestrale e pure così moderna nelle stimmate esistenziali di “uguaglianza” e sofferenza che essa reca: l’uomo ricco e il povero, il poeta in crisi e il beota trovano nella meretrice un disperato punto d’incontro che è al tempo stesso innalzamento e baratro abissale.
Il “cervello” è qui usato al posto di cuore, o di anima: un procedimento che può rientrare nella linea di adattamento naturalistico e “medico” che Auerbach nota in Baudelaire:{22} la lingua deve corrispondere all’abbassamento e alla perdita d’aura, all’ingresso del poeta nell’inferno della folla che sente oscura, minacciosa, forse perché se ne intuisce il pericolo di una “coscienza” che ne guiderà nel tempo la strategia dell’“invasione”.


Il destino comune

Ritorna quindi una seconda e più profonda meditazione sul destino comune dell’ umanità:

      E conosco l’inganno del qual vivono,
      il dolore che mise quella piega
      sul loro labbro, le speranze sempre
      deluse,
      e l’inutilità della lor vita
      amara e il loro destino ultimo, il buio.{23}

La riflessione sull’inganno dell’esistenza e sulle speranze deluse qui potrebbero essere non solo suggestioni tipiche del milieu colto contemporaneo, soprattutto a livello filosofico, con i recuperi di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche in testa, ma anche derivazioni romantiche provenienti dalle disillusioni foscoliane operanti nello Jacopo Ortis o dal Leopardi più tardo, legami ottocenteschi resi più palpabili anche dalle remore lessicali (pel, lo), che testimoniano legami ancora operativi con un passato non facilmente enucleabile.
Il dolore è la dimensione dominante nella poesia sbarbariana a questa altezza cronologica. È un dolore che signoreggia talvolta inconsapevolmente negli uomini, se si coglie il senso di quel cieco andirivieni, di quell’atteggiarsi in moti e occupazioni che illudono del possesso e della pienezza: qui è possibile cogliere il contatto simpatetico con tutta una tematica che, oltre le istanze filosofiche di cui abbiamo detto prima, giunge a Pirandello, a Michelstaedter, a Svevo, a Borgese e a Montale.

      Ché ciascuno di loro porta seco
      la condanna d’esistere: ma vanno
      dimentichi di ciò che è di tutto, ognuno
      occupato dall’attimo che passa,
      distratto dal suo vizio prediletto.{24}

L’esistenza diventa così una condanna.
Se questa concezione porta ad un avvicinamento al Michelstaedter de La persuasione e la rettorica, con il momento della morte rovesciato a “persuasione” rispetto al camuffamento della vita sociale, essa segna anche una ulteriore fuga in avanti, soprattutto quando il poeta allude al “suo vizio prediletto”. L’uomo può sfuggire alla coscienza del suo destino grazie alle potenzialità alienanti del desiderio, del vizio, del piacere rapido e fuggente che lo distraggono dal pensiero di sé e della propria inutilità, ma egli diviene ancora più ridicolo: non si rende conto di recitare una storia già segnata, ed invece cerca di darsi un’aria motivata e grave, adatta alle sue “responsabilità”.

Lo stesso poeta, che pure ha la coscienza di camminare in territori attraversati da larve umane e dai loro fallimenti, si trova talvolta spiazzato e sconcertato davanti a questo spettacolo: “Provo un disagio simile a chi veda / inseguire farfalle lungo l’orlo / d’un precipizio, od una compagnia / di strani condannati sorridenti”.{25}
Aleggia ora la presenza inquietante della follia, che inizia a materializzarsi già da quel “strani condannati sorridenti”, e che via via sarà sempre più presente, fino a diventare ossessione visiva, con il sinistro girare a vuoto dei pezzi anatomici di Trucioli. Ma neanche la follia in Sbarbaro può assumere la connotazione positiva della trasgressione. La condanna all’insensatezza investe tutti, senza remissione: gli uomini nelle loro miriadi di atteggiamenti suggeriscono un tragico senso di vanità: “E se poco ciò dura, io veramente / in quell’attimo dentro m’impauro / a vedere che gli uomini son tanti”{26} che richiama sia nel lessico che nella sostanza il Leopardi che afferma ne “La sera del di festa”: “e fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia”.{27}

Altrove, l’enunciazione è affidata ai toni alti della declamazione maledettistica, contaminata dai referti “bassi” della dimensione urbana, con al suo centro ancora una volta la figura archetipica della prostituta:

      Essere la puttana che sussurra
      la parola al passante che va oltre!
      la vecchia della porta
      che s’attacca pel soldo della grappa
      al militare che esce nauseato!{28}

Qui opera una sensibilità mutuata anche da Baudelaire, con il tema del risveglio nella squallida realtà quotidiana:

      Svegliandomi il mattino, a volte provo
      sì acuta ripugnanza a ritornare
      in vita, che di cuore farei patto
      in quell’istante stesso di morire{29}

che trova un precedente nella sezione dei “Quadri Parigini” dei Fiori del Male, in cui il francese confessa: “En rouvrant mes yeux pleins de flamme / J’ai vu l’horreur de mon taudis, / et senti, rentrant dans mon ame, / la pointe des soucis maudits;”.{30}
Gli incontri di Sbarbaro nella città sono specchi che gli restituiscono l’immagine della propria solitudine e del suo progressivo inaridimento: solo il sesso inteso può offrire la consolazione della benjaminiana comunione con la città:

      Esco dalla lussuria.
      M’incammino
      per lastrici sonori nella notte.
      Non ho rimorso o turbamento. Sono
      solo tranquillo immensamente.{31}

Il vuoto sentimentale causato dall’assenza della figura materna e il trasferimento sul padre dell’intero carico effettivo lo porta a disconoscere il senso di protezione e di autorità del pater familias e a realizzarne la “malattia” prima che l’infermità e la morte: “E poi ti guardo così come sei, / io mi torco in silenzio le mie mani”.{32}
Inizia a configurarsi una dinamica importante nella poetica sbarbariana: attraverso il motivo del declino paterno e una struttura metrica libera Sbarbaro supera più agevolmente gli esiti –linguistici e tematici – eccessivamente datati; ne risulta un equilibrio stilistico più avanzato, dove opera la confessione di incapacità di adesione al modello paterno, visto come privo di significati realmente costruttivi e capaci di indicare nuove strade. Nel contempo si instaura, man mano che la struttura poematica si libera dalle datazioni, la denuncia della propria incapacità a seguire qualsivoglia modello sociale e familiare:

      Se potessi promettere qualcosa
      se potessi fidarmi di me stesso
      se di me non avessi anzi paura,
      padre una cosa ti prometterei:
      di viver fortemente come te”.{33}

Si possono tutt’al più registrare una eccessiva prolissità, nell’anticipazione di intere proposizioni, nella posticipazione del verbo, e notare una persistente presenza di sfumature di intimismo pascoliano, (“Padre che ci hai tenuto sui ginocchi / nella stanza che s’oscurava, in faccia / alla finestra, e cantavamo i lumi”),{34} tutto però legato alla necessità della confessione e all’urgenza di stabilire un contatto con le profondità dell’io senza perdere i legami con la tradizione letteraria otto-novecentesca; quando più tardi si prospetterà l’unica soluzione della solitudine e dell’auto-emarginazione non gli resterà che lo sguardo impietoso su una umanità che nasce, si riproduce, muore in una dimensione di inutilità e di insensatezza; le uniche possibilità di fuga saranno il sonno, il sogno di un’evasione – annullamento (“forse un giorno, sorella, noi potremo / ritirarci sui monti, in una casa / dove passare il resto della vita”),{35} la coscienza del proprio dolore che solo disperatamente elegge, che salva, la “voluttà di scendere più basso”{36} e di perdersi nel riconoscersi nella prostituta, nell’ubriaco, nel cieco del crocicchio.


Una nuova visione del mondo

Si arriva qui, ha ragione Bàrberi Squarotti,{37} ad una delle più rilevanti risultanze della nostra letteratura contemporanea attraverso la determinante intuizione e la drammatica, aurorale consapevolezza del trasferimento di valori da una cultura a base terriera, artigianale ed individualista ad una realtà urbana di cui si colgono gli aspetti di alienazione e di massificazione; Sbarbaro si trova in una posizione intermedia – e quindi irrimediabilmente schiacciata – ma già spostata verso la visione del mondo della nuova civiltà cittadina: da una parte egli non può abbandonare la misura ottocentesca e romantica di individuo privilegiato che si scontra con il mondo e ne risulta mutilato e deteritorializzato, ma nello stesso tempo egli non può rinunciare alla verifica del nuovo interpretato ancora romanticamente come terrifico ma affascinante:

      Nel mio povero sangue qualche volta
      fermentano gli oscuri desideri.
      Vado per la città solo la notte,
      e l’odore dei fondaci al ricordo
      vince l’odor dell’erba sotto il sole .{38}

A questo proposito la contemporanea risposta di Campana alle medesime sollecitazioni acquista le coordinate di un tentativo di risarcimento dello choc della modernità, tutto spostato nei termini di una riacquisizione disperata delle possibilità della vitalità simbolica: le donne e le città arcaiche di Campana gettano un ponte sul passato mitico che ne sopporta fino ai livelli di rottura la giustificazione e la ragione d’essere:

      Irraggia lo splendore orientale
      Genova nelle donne dalla testa
      Sibillina, dal carco profumato
      Della lor chioma grave lungo attorta
      Genova in sogno tra il brusio confuso
      Genova marinara che fa festa
      Sotto la torre orientale.{39}

L’affossamento di qualsiasi tentativo di riscatto è invece la dominante di Sbarbaro. In una sua lirica è possibile più che altrove cogliere il senso di una esperienza di estraneità alla vita comunitaria che è parte di una visione dell’esistenza che da Poe in avanti aveva operato uno stacco tra sensibilità individuale e statuto comunitario: mentre Poe tentava il salto nelle lontananze fisiche e spirituali dalla ratio d’occidente, Sbarbaro rimane ancorato all’unica realtà che l’esistenza gli propone, quella della massa:

      Ma poi che sento l’anima aderire
      ad ogni pietra della città sorda
      com’albero con tutte le radici,
      sorrido a me indicibilmente e come
      per uno sforzo d’ali i gomiti alzo{40}

L’anima del colto non ha più punti di riferimento reali se non la nuova dimensione della città.
Gli elementi stilistici in Pianissimo arrivano ad una precisa disposizione che permangono sostanzialmente anche nelle successive edizioni di Pianissimo e delle poesie: la sua poetica assume coordinate ormai riconoscibili che, come noterà Montale, però riguardo a Trucioli, fanno dell’opera sbarbariana un “canto di un timbro inimitabile che si fa intendere anche a traverso il coro di cento altre voci”.{41} Le caratteristiche di stile la rendono ormai distinguibile dalle altre, l’enunciazione che potremmo chiamare di asciutta, stoica moralità individuale assume prerogative poematiche individuabili in alcuni precisi procedimenti: la presenza del se oppositivo in funzione di rafforzamento gnomico, l’inesorabile transito della giovinezza, la coscienza di una situazione di impotente attesa dell’accadimento impossibile, l’alterità della dimensione interiore rispetto alla realtà empirica:

      In parole consuete
      in consueti passi,
      giovinezza, trapassi
      - che non torni.
      E se disgusto senti
      di te stessa, dei giorni
      inutili, t’illude
      folle presentimento
      - ed è quasi certezza -
      che torni un’ altra volta,
      povera vita stolta,
      la tua giovinezza.{42}

Accanto al sentimento più datato (in direzione soprattutto leopardiana) della giovinezza che fugge, si inseriscono elementi già autosufficienti di stile che investono nella configurazione dello spazio e nella costruzione del paesaggio:

      Si sfilacciano contro i cornicioni
      delle case che occupano l’aria
      i nuvoloni;
      e la fiammella gialla
      del lampione traballa
      su lastrici che caldo vento bagna;
      un’imposta si lagna, solitaria.{43}

Questo non vuol dire che non operino ancora forti influenze, soprattutto simboliste e fiamminghe, come nell’episodio dell’organetto di Barberia{44} che è stato inserito da Scheiwiller in apertura dell’edizione 1973 delle Poesie:

      E d’istinto io cerco nel buio
      l’improvviso organetto ove suoni.
      Non più ciondoloni
      rasento il muro:
      mi scosto, cammino
      diritto, nel mezzo,
      con piede sicuro.{45}

L’epifania musicale coglie il poeta in uno stato di apatia dettato dall’alienazione della città; il motivo del flâneur baudelairiano è ancor più accentuato (“ciondoloni rasento il muro”), ma con una sterzata di figurazioni rimbaudiane, che ricorda l’irrigidirsi cadaverico nella danza macabra del “Bal des pendus”.
Non si può nascondere che, anche in mezzo a riprese e suggestioni ottocentesche e maledettistiche, Sbarbaro evidenzi la maturazione di un linguaggio moderno e personale, ad esempio con l’immagine della pietra, analogon del dolore che tornerà, solo per richiamare sensibilità comuni in questa epoca, poi nell’Ungaretti di “Sono una creatura” nell’agosto 1916. Così Sbarbaro:

      Si stacca sul mio capo
      rombando mezzanotte.
      A me che vo vagando
      solo nella mia notte
      cadono sul cuore
      come pietre quell’ore.{46}

Un tentativo di concatenazione, a rime semi-alternate, di facile cantabilità, che può ricordare l’episodio campaniano di “Batte botte”;{47} in realtà la mezzanotte che si stacca “rombando” dal capo, le ore come pietre che “cadono sul cuore” del poeta, assecondano una presa di coscienza non più staticamente romantica, ma tutta spostata – invece che sul “destino” e sull’eroico scontro solitario –, sull’alienazione, sulla angoscia e sul tedio, i doni greci degli dèi della pòlis.
L’amore stesso, all’interno di Pianissimo non ha più referenti lessicali alti, anzi è abbassato alla degenerazione estrema, all’interno della quale l’ambiguità sesso – morte è tutta rivolta a favore della seconda componente:

      E coricarmi senza desiderio
      nel tuo letto!
      Cadavere vicino ad un cadavere
      bere dalla tua veste l’amarezza
      come la spugna secca beve l’acqua!.{48}




{1}Sulla contiguità dell’esperienza esistenziale e poetica di Sbarbaro con la sua attività, riconosciuta in campo internazionale, di studioso di licheni, si vedano i contributi di G. Caniglia (“La dorata parmelia”. Il mondo dei licheni), di P. Modenesi (Sbarbaro e i licheni), M. Valcuvia Passadore (C. S., lichenologo del XX secolo), S. Ammiraglio, E. Mosconi e G. Caniglia (I licheni di C. S. nel museo di Scienze Naturali di Brescia) compresi nel volume La dorata parmelia. Licheni, poesia e cultura in Camillo Sbarbaro, Atti del convegno su Sbarbaro svoltosi a Brescia tra il 29 febbraio e il primo marzo 2008, a c. di G. Magurno, Carocci, Roma 2011.

{2}C. Sbarbaro, Pianissimo, Edizione della Voce, Firenze, 1914, p. 54.

{3}G. D’Annunzio, “Sopra un ‘adagio’ di Johannes Brahms”, in Poema paradisiaco, Mondadori, Milano ed. cons. 1960, p. 96.

{4}V. Mengaldo, Sbarbaro come uno specchio rassegnato, in “l’indice dei libri del mese”, 3, marzo 1986, p. 124.

{5}C. Sbarbaro, Trucioli 1914-1918, ora in Trucioli, Mondadori, Milano,1963., p. 27.

{6}Ivi, pag. 37.

{7}Ivi, pag. 47.

{8}Per i rapporti con Pascoli si vedano, tra i più recenti contributi, “La bambina che va sotto gli alberi”, di G. Barberi Squarotti, e “Gracili avena”: le versioni ultime, Pitagora e Pascoli di F. Pontani raccolte in La dorata parmelia, op. cit.

{9}C. Sbarbaro, Trucioli, op. cit., p. 48.

{10}Di una novella “catabasi” del wanderer metropolitano parla giustamente Stefano Pavarini in Sbarbaro prosatore. Percorsi ermeneutici dal frammento alla prosa d’arte, Il Mulino, Bologna, 1997.

{11}Trucioli, cit., pag. 19.

{12}Ivi, pag. 61.

{13}C. Sbarbaro, Pianissimo, op. cit., pagg. 24-25.

{14}Ad esempio G. Spagnoletti in Sbarbaro, Cedam, Padova, 1943, P. Guaragnella in Indagine sulle strutture lirico-narrative nel primo Sbarbaro, in “Rapporti”, Roma, dic. 1974, L. Polato, Sbarbaro, Il Castoro, La Nuova Italia, Firenze, 1974.

{15}Mi sento confortato da questa mia ripresa di un motivo benjaminiano riferito a Baudelaire che risale alla prima stesura di questo mio lavoro giovanile, e cioè al 1979, da una analoga proposta formulata in tempi più recenti da M. Boaglio nel suo L’organetto di Sbarbaro. Trasformazione di un motivo crepuscolare, in La dorata parmelia, op, cit.

{16}Pianissimo, op. cit., p. 24.

{17}Ibidem.

{18}Ibidem.

{19}Ibidem.

{20}Ibidem.

{21}Ibidem.

{22}E. Auerbach, introduzione a Ch. Baudelaire, I fiori del male e il Relitti, ed. it., Feltrinelli, Milano, 1964.

{23}Pianissimo, op. cit., p. 24.

{24}Ivi, pag. 25.

{25}Ibidem.

{26}Ibidem.

{27}G. Leopardi, I Canti, Sansoni, Firenze, 1967, p. 142.

{28}Pianissimo, op. cit., p. 54.

{29}Ivi, pag. 32.

{30}“Reve parisien”, in Tutte le poesie, op. cit., p. 238. “Ho riaperto gli occhi pieni di fiamme/ e ho visto l’orrore nella mia stamberga;/ sono rientrato in me stesso ed ho sentito/ la spina degli affanni maledetti”. (tr. di C. Rendina).

{31}Pianissimo, op. cit., p. 15.

{32}Ivi, pag. 35.

{33}Ivi. pag. 37.

{34}Ivi, pag. 36.

{35}Ivi, pag. 38.

{36}Ivi, pag. 54.

{37}Il discorso complessivo di recupero della poetica di Sbarbaro alla luce anche del cambiamento sociale in atto ai suoi tempi è presente soprattutto in Camillo Sbarbaro, Mursia, Milano, 1971.

{38}Pianissimo, op. cit., p. 49.

{39}D. Campana, “Piazza S. Giorgio”, Quaderno, in Opere e contributi, Vallecchi, Firenze, 1973, II vol., p. 345.

{40}Pianissimo, op. cit., p. 59.

{41}E. Montale, Camillo Sbarbaro, in “L’azione” di Genova del 10 novembre 1920, poi in “Il Nostro” e nuove Gocce, a c. di V. Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1964, p. 14.

{42}Sbarbaro, Poesie, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1973, pp. 11-12.

{43}Ivi, pag. 11.

{44}Per il motivo dell’organo di Barberia, con un excursus sulle origini del termine, nella letteratura primo novecentesca, si veda l’interessante studio di M. Boaglio, già citato in precedenza, L’organetto di Sbarbaro. Trasformazione di un motivo crepuscolare, in La dorata parmelia, op. cit.

{45}C. Sbarbaro, Poesie, op. cit., pag. 13.

{46}Ivi. pag. 17.

{47}D. Campana, Canti orfici, in Opere e contributi, op. cit., vol. I, p. 51.

{48}La veste della poesia presente nella prima edizione di Pianissimo, cit., p. 57, rimane invariata, a parte la collocazione interna, nell’edizione Scheiwiller del 1973, anch’essa qui citata, a p. 62.




Camillo Sbarbaro
(Santa Margherita Ligure, Genova 1888 - Spotorno, Savona 1967) lavorò all’Ilva di Genova, partecipò alla prima guerra mondiale e, dopo essersi dedicato all’insegnamento, si ritirò a Spotorno per dedicarsi alla poesia e ai licheni, di cui fu studioso di fama internazionale. Resine (1911) segna l’esordio poetico. Prima della seconda raccolta Pianissimo (1914), sulla rivista “Riviera ligure” furono stampati alcuni testi che documentano il passaggio fra le due raccolte. Tra gli altri volumi di poesie si segnalano: Rimanenze (1955), Primizie (1958), Poesie (1971, postumo). Gli scritti in prosa sono un correlativo della produzione in versi, a partire da Trucioli (1914-1918) (1920) e da Fuochi fatui (1956) fino a Scampoli (1960) e Cartoline in franchigia (1966).


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