FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 37
gennaio/marzo 2015

D'aria e di terra

 

D'ARIA E DI TERRA

di Armando Santarelli



Di aria e insieme di terra non siamo tutti, perché io sono convinto che esistono uomini di terra e uomini d’aria.
Chi sono gli uomini di terra?
Sono quelli che la natura ha fornito di doti pratiche, di grinta, di voglia di lottare e farsi strada nella vita, quelli che hanno la convinzione e la forza per trasformare le loro idee in realtà.
Io ho sempre ammirato moltissimo queste persone.
Prendiamo gli imprenditori, ad esempio: iniziano l’attività contraendo debiti, rischiando i beni personali, lottando contro una burocrazia onnipresente e ottusa; dopo, devono condurre l’impresa e ottimizzare le risorse umane, stare sempre al passo con il mercato, resistere alla concorrenza, essere pronti a diversificare e cercare nuovi sbocchi produttivi, e così via: tutta roba che, al solo pensarci, mi fa star male.

Sì, io adoro gli uomini di terra, che sanno, appunto, di terra, di sudore, di coraggio, di capacità manuali e intellettuali, di economia e di imprenditoria, di animali e di macchine, di ortaggi e di utensili, di legno e di ferro, di calce e di cemento.
Ma perché li ammiro così tanto?
Semplice, perché io sono l’opposto, sono un uomo d’aria.
Faccio parte, cioè, di quelli che sognano a occhi aperti, che vivono di parole e di illusioni, quelli che coltivano il sentire a scapito del fare, che vedono l’irrealtà nelle cose pratiche e la realtà nel mondo immaginario, che rimuginano nelle loro stanze i discorsi che non faranno mai, le brillanti imprese che non vedranno mai la luce, e le cui scelte sono sempre dettate da altri…

L’unica consolazione è che sono in buona compagnia: i poeti, i pittori, i letterati, gli artisti in genere fanno parte, quasi tutti, della mia categoria. Certo, il confine, a volte, viene a cadere; ci sono uomini d’aria che arrivano al successo, che si affermano, e allora ritornano un po’ a essere di terra, a confrontarsi con la realtà, col mondo, coi soldi, col dover fare.
Invece noi, pure creature d’aria, viviamo di altre cose: di stupore, di meraviglia, delle soddisfazioni intime che a volte ci scaldano il cuore e altre volte ci fanno piangere, della compagnia e dell’amicizia delle persone un po’ folli che ci assomigliano.
Ecco, imparentata con noi, c’è una categoria che io amo ancor più degli spiriti artistici; sono persone un po’ strane, che non producono nulla, anzi, che dipendono dagli altri, senza i quali, spesso, non potrebbero neppure vivere: sono i miei fratelli con disabilità mentale – i matti per qualcuno – ai quali ogni tanto i miei familiari mi accomunano; non sanno che ne traggo un segreto piacere! Perché è bello essere un po’ stravaganti e incoscienti, lasciare a briglia sciolta i propri istinti, assecondare quella “benefica alienazione mentale” – di cui parla il grande Erasmo – grazie alla quale rendiamo la vita più leggera, più spontanea, più gioiosa.

Ho iniziato presto a conoscere e ad apprezzare il mondo dei “matti”. All’asilo, uno dei miei compagni era Nicola, un bambino che stava sempre con la bocca aperta e gli occhi fissi su chissà dove, e che non riusciva a partecipare ai giochi comuni. Si sfilava dal girotondo e se ne andava per conto suo, prendeva una palla e la lanciava nel vuoto, un mattoncino delle costruzioni e lo metteva in bocca. Quasi tutti i bambini si burlavano di lui, ma non Mariano, un altro bambino con lievi problemi mentali, il quale cercava sempre di recuperare Nicola al gioco collettivo. Io ero fra quelli che ridevano di Nicola, fino a quando mia madre lo venne a sapere; prima mi spiegò dove avevo sbagliato, poi, assecondando i metodi educativi di allora, mi tenne in ginocchio per un intero pomeriggio in un angolo della cucina. Esagerato? Forse; eppure, è stato uno dei giorni più importanti della mia vita, perché quella doppia umiliazione mi fece capire che c’erano bambini migliori di me, compreso il “ritardato” che cercava di giocare con un bambino sfortunato, invece di ridere dei suoi comportamenti.

Sempre al tempo dell’asilo, una volta alla settimana assistevamo allo show di Ulisse, evento agognatissimo da tutti noi bambini. Il giovedì mattina, Ulisse arrivava con l’autobus, chissà da dove; vedevi un uomo sulla quarantina, con barba e capelli brizzolati, volto oblungo, bocca grande e sdentata, vestito con tuta mimetica e scarponi militari. Vagava un po’ in Piazza Marconi, e ogni tanto convergeva, con andatura marziale, su Piazza San Sebastiano, dove si affaccia il cortile dell’asilo. Quando, all’ora della ricreazione, sciamavamo nel cortile, Ulisse si metteva dinanzi al cancello e iniziava una serie fantastica di gesti, passi, comandi e azioni militari, destando le irrefrenabili risa di noi bambini e quelle, più trattenute ma anch’esse invincibili, delle suore.
“È matto”, dicevano tutti, “ma fa ridere, e poi è inoffensivo…”.
Ma il matto aveva scelto una forma molto saggia per fare il matto, cioè quella di salire sugli autobus che portavano ai paesi intorno a Tivoli e ripetere a vantaggio dei bambini dell’asilo lo spettacolo che li divertiva tanto. Fu mia nonna a farmi notare che, forse, Ulisse non era matto come credevano tutti. E fu un’ulteriore lezione, la seconda di altre che avrei tratto osservando e riflettendo sullo stato e sul comportamento di chi ha una disabilità mentale.

Ulisse era inoffensivo, ma “Piscullittu”, uno dei “matti” del mio paese, non lo era sempre. Il fatto è che, essendo piccolo, brutto, con un naso enorme e un modo di parlare gretto e cupo, diventava spesso oggetto di sfottò, dispetti, scherzi crudeli, come sanno fare solo i “savi”. Allora reagiva con ira, e siccome dal padre contadino era stato abituato ai lavori fisici più pesanti, poteva far male. Solo una persona poteva rabbonirlo. Era Nino, suo coetaneo, un bel ragazzino con un caschetto di capelli nerissimi. “Piscullittu” ne era affascinato, e lo sfotteva e lo provocava perché facessero a botte, e potesse così rotolarsi insieme a lui sui declivi erbosi del giardino della Scuola. A volte vinceva Nino, e riempiva “Piscullittu” di assurdi improperi (Bammocciu! Pummidoro! Cacasottu!), a volte il “matto” aveva la meglio, si metteva a cavalcioni sull’altro e gli diceva con voce soffocata e cavernosa: “Sta attentu a ti! La prossima vota t'ammazzo!”.
Poi si alzava, e se ne andava tutto contento di aver sconfitto e “perdonato” l’unica persona che, forse, sentiva di amare. I destini di Nino e di “Piscullittu” si divisero presto: dopo le elementari, Nino e la sua famiglia lasciarono il paese per Roma; “Piscullittu” non ha mai trovato un altro amore, ed è morto una decina di anni fa, quarantanovenne, dopo aver corrisposto in modo perfetto al suo ruolo di “matto del villaggio”.

Si sa, ogni paese ha uno o più “matti” che vagabondano continuamente per le strade e nei ritrovi pubblici; sì, sono “matti”, perché sono le uniche persone che non ci ingannano e non si inganno su se stessi. Sono quelli che ci rivelano con candore ciò che gli altri pensano di noi, che ci ridono in faccia inoculandoci il dubbio che ci sia davvero da ridere della nostra persona, che dicono le cose che spesso vorremmo dire noi. I folli, le persone più commoventemente umane, le persone nei bisogni più elementari, nei desideri più semplici, nelle funzioni più primitive. I folli, ovvero l’infanzia e l’innocenza di tutti noi, le creature che non si dannano per apparire ciò che non sono e che Erasmo chiama felici, perché “non conoscono la paura della morte e la tortura della coscienza, né sono travagliati dalle mille cure a cui è soggetta la nostra vita”.

Pur avendo sempre amato questi miei fratelli, non ero mai andato oltre una frequentazione di tipo individuale. Da un po’ di tempo, però, ho iniziato un timido volontariato presso una comunità alloggio che ospita persone con lievi disabilità mentali. Si chiama Casa Salvatore, ed è il dono di un uomo eccezionale, Salvatore appunto, il quale aveva scelto di effettuare il servizio civile a favore di persone con handicap. L’aiuto alle persone disabili e le ascensioni in montagna rappresentavano le ragioni di vita di Salvatore; e la sua morte sulla vetta che aveva appena raggiunto si è trasformata nella vita di altre persone, perché la sua casa è diventata la sede della comunità di assistenza che porta il suo nome.
Casa Salvatore, oggi, ospita sei “ragazzi” (così continuiamo a chiamarli, anche se sono tutte persone di mezza età).

C’è’ Elio il dolce, che deve avere ogni giorno una carezza e una copia del giornale “la Repubblica”; Alessandro l’esuberante, che ufficializza la propria simpatia per qualcuno mandandolo sonoramente a quel paese; Patrizia l’affettuosa, che ricompensa ogni attenzione nei suoi confronti con un sentito “Quanto ti voglio bene!”; Roberto il tenebroso, che deve toccare e baciare ogni essere umano che incontra per strada; Anna la pensierosa, quieta e serena quando riflette sui massimi sistemi, capace di gag irresistibili quando si esibisce; e infine Pino ‘o vesuviano, eruttato direttamente dal vulcano della sua città natale, attore di teatro impareggiabile e fenomeno naturale di spontaneità ed esuberanza.



Casa Salvatore



Quest’allegra pattuglia è assistita da operatori sociali che hanno destato il mio stupore e la mia ammirazione sin da quando li ho conosciuti per la prima volta; umani e professionali, svolgono il loro impegnativo e delicato lavoro in serenità, aiutandosi, sorridendo, ma soprattutto facendo del loro meglio per il bene dei loro assistiti. Casa Salvatore è un esempio e un monito, perché, in tutta semplicità, ci dice questo: “Vedete? Noi cerchiamo di fare con coscienza il nostro lavoro, e in più ci mettiamo un po’ di umanità”.
Ecco, basterebbe che tutti ci attenessimo anche alla prima parte di una tale affermazione, e il mondo sarebbe immediatamente migliore.

In occasione della celebrazione del 10° anniversario dell’operatività di Casa Salvatore – festa umile e bellissima, cui ho partecipato con grande gioia – ho dedicato ai suoi ragazzi a agli operatori una poesia. Eccola:


CASA SALVATORE

Sperando contro ogni speranza,
ho trovato una casa
dove paiono tutti bambini,
perché dei bambini hanno l’anima,
e il viso che persino arrossisce
se dici loro che sono bravi a nascondere
i disegni più belli,
perché non vogliono appenderli a un chiodo,
ma tenerli in mostra nel cuore.

Casa Salvatore,
dove si cacciano via
le parole inutili e insulse
e parla lo slancio muto dei gesti
di chi dimentica il proprio nome
per essere altro negli altri,
dove ogni giorno mani operose
cuciono le ferite di destini ignoti,
e sentinelle fidate
vegliano il sonno di palpebre innocenti.

Casa Salvatore,
asilo di chi gode ugualmente
della bellezza del mondo,
voce di tenera verità
contro la verità di chi trova in se stesso
ogni ragione di vita,
nido caldo fra schiere di case
e cortili senza bambini,
finestra di luce sempre accesa
per chi ha smarrito la via nell’arida distesa
di un mondo che non ha più cuore.

Casa Salvatore,
primo piano così vicino al Cielo,
dove mi ha portato l’Amore
di chi ogni giorno tiene la mano
a quelli che saranno alla destra di Dio,
e diranno Grazie,
non ci avete mai lasciato nel buio,
ora saremo noi a guidarvi
nella dimora dell’Eternità.


armando.santarelli@inwind.it