FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 34
aprile/giugno 2014

Lavoro

 

IL SUPERBO CASTIGO

di Armando Santarelli



Sta scritto che ci siamo cacciati da soli nella condizione di dover dissodare la terra, o scervellarci in un mare di carte, scaricare secchioni pieni di immondizia, stare otto ore filate dinanzi allo schermo di un computer. Infatti, i nostri progenitori disubbidirono al divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, e Iddio lì castigò in questo modo: “Tu” (è ad Adamo che parla) “hai dato ascolto alla tua donna e hai mangiato il frutto che ti avevo proibito. Ora, per colpa tua, la terra sarà maledetta; con fatica ne ricaverai il cibo tutti i giorni della tua vita. Essa produrrà spine e cardi e tu dovrai mangiare le erbe che crescono nei campi. Ti procurerai il pane con il sudore della tua fronte, finché tornerai alla terra dalla quale sei stato tratto: perché tu sei polvere, e polvere ritornerai”.
Un Dio severo e implacabile, così può sembrare. Ma ci aveva dato tutto, e pretendevamo ancor di più; nel tradimento del patto, e nella conseguente Caduta, è iscritta l’intera storia dell’Uomo.



Michelangelo Buonarroti
Il peccato originale e la cacciata dall'Eden
Roma, Cappella Sistina


Il problema è che il castigo non si è esteso ai figli di Adamo ed Eva allo stesso modo. La stragrande maggioranza dei loro discendenti ha effettivamente pagato col sudore e con le lacrime la prima, fatale disubbidienza. Ma che dire dei privilegiati di ogni epoca, dei figli dei faraoni che assistevano da un fresco e dovizioso palco regale alle atroci sofferenze degli schiavi destinati ad erigere i monumenti sepolcrali dei loro padroni?
È sufficiente questo riferimento storico per fare del lavoro il più contraddittorio, indefinibile, conflittuale dei fenomeni umani. Del lavoro possiamo dire tutto e il contrario di tutto: che è la salvezza dell’uomo e al contempo la sua eterna dannazione; che è un bene universale, o, all’opposto, il peggior nemico della vita umana.
Il lavoro è una meraviglia e un mistero in se stesso. Per arrivare al tozzo di pane che mangiamo ogni giorno, hanno lavorato decine di persone: il produttore di sementi, l’agricoltore e i suoi operai, il trasportatore, il molinaio, il grossista di farine, il fornaio, il negoziante. Alcuni di essi lo hanno fatto, probabilmente, senza il minimo entusiasmo, altri forse con passione, ripetendo i gesti antichissimi della creatura che anela l’Assoluto, ma che non può vivere senza la dose quotidiana di azioni semplici e pratiche.

Il castigo inflittoci all’inizio della storia ha letteralmente ucciso milioni di persone, mentre ad altre ha procurato soddisfazione, tranquillità, sicurezza di vita. Mio nonno Armando si destava anche in inverno alle quattro del mattino, provocando le proteste di mia nonna, che gli faceva sempre quell’obiezione: “Ma dove vai a quest’ora, è troppo presto!”
Lui replicava così: “Non ci so stare a letto, ai Collacchi c’è tanto da fare…”
Mia nonna, dopo aver biascicato parole non proprio ortodosse, chiudeva sempre allo stesso modo: “È toccato a me! Dio ha creato l’uomo, e mio marito ha creato il lavoro…”
La generazione di mio nonno aveva il culto del lavoro, che assumeva una connotazione quasi religiosa. “Il lavoro è una cosa santa”, sentivo dire dagli anziani del mio paese, “e l’ozio è il padre di tutti i vizi”. I nostri nonni tornavano dalla campagna affaticati, ma non insoddisfatti o stressati, e la sera si riunivano nelle corti dei rioni per cantare e raccontarsi le storie di vita di ogni giorno. Nessun padrone, lavoro duro ma all’aria aperta, veder crescere ciò che hai piantato con le tue mani, respirare il profumo della terra, seguire il sole, la luna, le stagioni…

Perché allora i loro figli non hanno seguito la stessa strada? Quella di mio padre è la generazione che ha abbandonato la terra per la fabbrica, per l’officina, l’ospedale, l’ufficio, ovvero per la routine, il cartellino da timbrare, la catena di montaggio. Ho udito tante volte le frasi accorate di chi ha lavorato ai forni della Pirelli di Villa Adriana, o nelle viscere delle cave di travertino di Bagni di Tivoli, nelle fabbriche di solventi della Tiburtina, negli enormi cantieri edili della periferia di Roma. Mestieri pesanti e pericolosi, certamente più alienanti dell’atto di menare la vanga, potare alberi, raccogliere frutti; ma sicuri, e soprattutto meglio retribuiti. Mario “Coppicchio” soffriva maledettamente la catena di montaggio della Pirelli, ma piangeva di gioia ad ogni mattone che si alzava dalle fondamenta della casa che riuscì a costruirsi – grazie allo stipendio di operaio specializzato – in soli cinque anni, lui che aveva trascorso tutta la vita in una sola stanza, dove dormiva insieme ai nove fratelli. “Non ho voluto studiare”, diceva, “ed è questo che merito. Ma ringrazio Dio, un lavoro ce l’ho, è già tanto”.
Affermazioni semplici, limpide, che fanno capire l’ineluttabilità di un mestiere sconosciuto e non amato, ma necessario ad una generazione che non poteva più sostentarsi con il lavoro della terra.

I figli di questi uomini siamo noi, forse gli ultimi a poter contare sulla garanzia di un posto fisso, che non abbiamo faticato molto a trovare e che forse non meritavano. La mia generazione non ha mai posseduto l’etica del lavoro dei suoi padri; noi siamo quelli che hanno preso gusto a mettersi in malattia quando si alzano col mal di testa, a entrare e uscire dall’ufficio a piacimento, a timbrare il cartellino e andarsene a spasso, a vessare il collega più debole, ad accreditarsi ore di straordinario mai fatte. Ma si sa, le colpe dei padri ricadono sui figli; ed ecco che la prossima generazione dovrà rivalutare il lavoro in tutte le sue forme ed espressioni, anche le più umili e faticose. A ben riflettere, non una condanna, tutt’altro: perché è impossibile non pensare che nel lavoro manuale ci sia qualcosa che salva, che redime, e che più saliamo nella concettualità del lavoro, più esso si distacca dalla nostra essenza fisica e metafisica.

C’è umanità, naturalezza, autenticità a lavorare la terra, a modellare il legno e la creta, a impastare e sfornare il pane. Ma che gusto ci può essere a spulciare dati e cifre relative a persone e situazioni di cui non ci importa assolutamente nulla? Come si può amare qualcosa di artificioso di cui ci si occupa di malavoglia nel chiuso di una stanza? Come si può accettare di fare un lavoro avvertendolo come un qualcosa di irrazionale, di inutile, di assurdo?
Sono cancelliere presso un Ufficio del Giudice di Pace; in materia penale, l’iter processuale prevede la collaborazione dei Carabinieri, della Procura della Repubblica, del Pubblico Ministero, degli Avvocati, del Giudice; un notevole apporto di professionalità e competenze, di indagini, accertamenti, perizie, udienze, testimonianze, prove documentali. Arriva la sentenza: ammettiamo che preveda una condanna, e che non sia proposto appello. Tutto finito? Sì. Ma succede che l’imputato è contumace, che non si è mai presentato in udienza e che non si sa dove sia. Straniero, era entrato nel territorio statale senza documenti e senza permesso di soggiorno; è stato condannato al pagamento di una multa, ma non si trova, non esiste. Non sconterà mai il suo debito, l’intero lavoro svolto da tutti coloro che si sono occupati del suo caso è stato completamente vano. E noi lo sapevamo, lo sapevamo da quando la pratica è stata avviata, dal momento in cui abbiamo preso le carte in mano per la prima volta.
Oppure, accade che condanniamo un connazionale; al momento della pronuncia della sentenza lo guardiamo in faccia, e vediamo che ci fa un sorrisetto ironico. Sappiamo cosa pensa: fate quello che volete, tanto non pagherò mai, non ho intestato nessun bene, io per lo Stato non esisto.

Esempi del genere, della sensazione di inutilità del proprio impegno professionale, si possono fare per molte altre professioni e tipologie di lavoro. Lavorare senza capire, senza uno scopo, darsi da fare per nulla; è già sufficiente per farci vedere il “santo” lavoro in una luce meno brillante ed encomiastica di quella in cui viene di solito celebrato. Ma c’è di peggio: ci sono quelli che lavorano sapendo di ingannare il prossimo, di vendere prodotti dannosi alla salute; ci sono azioni che ripugna inserire nella categoria del “lavoro”, ma che gli esecutori dicono di compiere per senso del dovere, per obbedienza verso i superiori: dai kapò del Regime Nazista ai manovali della malavita, dagli agenti dei servizi segreti incaricati di uccidere ai medici e scienziati che sperimentano farmaci o tecniche “innovative” su persone che ignorano di fare da cavie.

Se riflettiamo su queste “modalità” di lavoro, se ricordiamo che nel corso della storia miliardi di uomini hanno svolto per l’intera vita mestieri massacranti e degradanti, e che ai nostri giorni poche persone possono dire di amare la loro occupazione; se pensiamo che ancor oggi, nel XXI secolo, in Nazioni avanzate come il Giappone, centinaia di persone muoiono ogni anno per eccesso di lavoro; allora la maledizione biblica si impone alla coscienza umana in tutta la sua terribile verità e implacabilità. Il lavoro che nobilita? L’etica del lavoro? No, per la stragrande maggioranza del genere umano il nobile lavoro riflesso nelle Costituzioni Statali è stato sì garanzia di sostentamento, e perciò di vita, ma anche qualcosa di mostruoso, di incomprensibile, di reificante, di abbrutente, in una parola, di disumano.

L’uomo che concentra tutto se stesso in una sfera oggettiva, materiale, trascurando completamente la parte soggettiva, le emozioni, le gioie dello spirito. E perché poi? Per necessità? Sicuramente, ma c’è dell’altro. È come se l’Umanità, gran parte dell’Umanità, non potesse sostenere la libertà di pensare, la riflessione sul proprio essere, e avesse deciso, stordendosi di lavoro, di adagiarsi nella piattezza e nell’insignificanza.
Ma forse è questo il vero stato ontologico dell’homo sapiens, vertice del mondo animale, ma pur sempre animale, perché schiavo dei suoi bisogni primari, impossibilitato a vivere al di sopra delle necessità imposte al suo essere da quel primo, fatale castigo.


armando.santarelli@inwind.it