Preambolo
Insegno da una decina d’anni in un’università di Fresno, nel centro della California. Dal punto di vista sia geografico che culturale, un italiano qui si sente un po’ come su Arrakis, il pianeta desertico di Dune. E il fatto che la stupenda, “europea” San Francisco disti solo tre ore di macchina (davvero un tiro di sputo, in termini americani) è magra consolazione (per l’italiano in America, la perdita dello spazio urbano rimane un lutto tra i più difficilmente elaborabili). Ma il paesaggio non è privo di poesia: è la poesia riarsa emblematizzata, più che in nostrani ossi di seppia, nell’immagine bolañesca del libro appeso al filo dei panni, a rosolarsi sotto un sole implacabile.
Émigré
Da quindici anni vivo negli Stati Uniti. Alla domanda se per scelta o per necessità rispondo volentieri con l’esempio lacaniano della proverbiale vittima costretta a scegliere tra “la borsa o la vita”. La scelta è solo apparentemente libera: opta per la borsa, infatti, e le perderai entrambe. Nel caso di un laureando in lettere alle soglie del secondo millennio in Italia (e oggi a maggior ragione), la scelta di emigrare a fronte degli scarsissimi e umilianti sbocchi professionali in patria non si poteva considerare una scelta del tutto libera. Nel mio caso, veniva a coonestare la coartazione economica una preesistente e persistente curiosità per la lingua e la cultura americane (musica, cinema), a cui ero stato (o mi ero) esposto fin dall’infanzia. Questa propensione mi ha a lungo andare fornito il carburante per sopravanzare l’inevitabile calvario di secche spirituali e fiacchezze morali (ripensamenti, nostalgie) che l’émigré è destinato ad attraversare. Con il senno di poi che quindici anni accordano, posso affermare oggi di non essere pentito. E questo mi deve bastare.
Dottorato
Da dottorando alla Washington University di St. Louis, Missouri (1999-2003) fui iniziato ai meccanismi e alla mentalità dell’accademia americana. Formato all’università di Pavia, nell’insularità paramonastica così tipica della formazione italiana, appena arrivato negli USA mi trovai a spandere un’indignazione agostiniana su tutto ciò che, con la seriosa leggerezza del ventenne, identificai frettolosamente con i sintomi di una civiltà superficiale, modaiola e priva di sottigliezza filologica. In altre parole, fui introdotto alla “teoria” e ai suoi esponenti di alterne fortune, da Harold Bloom a Deleuze e Guattari, da Derrida a Giorgio Agamben (un italiano che non si studia in Italia): quei luminari assurti negli anni ’60, insomma, che da graduate student avrei dovuto d’ora in poi usare come modanatura teorica di ogni studio che avessi prodotto. Ma perché?
Con gli anni, poi, arrivai a capire che la teoria, se usata con discernimento, poteva illuminare il rapporto letteratura-società di un’interessante luce obliqua, generando rifrazioni che andavano ad arricchire la tradizionale e pressoché stagna dinamica testo-autore con cui ero cresciuto. Per me fu un enorme processo di apertura mentale, che mi portò nel giro di pochi mesi a una posizione antipodale a quella iniziale. Sempre più spesso, ora, trovavo valide ragioni per esecrare la torre d’avorio (o meglio, scriptorium) dell’accademia italiana, uno sgabuzzino sigillato dal mondo in cui alle vicissitudini filologiche di un oscuro codice del Quattrocento si potevano legittimamente consacrare lo studio e la docenza di una vita intera, e dove nessuno aveva mai sentito parlare dell’ansia d’influenza, del sistema simbolico, o della différance. Che miopia di orizzonti, che palude marcescente, quest’università italiana.
Oscillazioni
Queste oscillazioni sono tipiche dell’émigré, e sono solite durare, come un ciclo allergico, circa sette anni. Sono gli anni delle innumerevoli geremiadi tenute con altri fuoriusciti (italiani ma anche europei: niente come le stranezze americane ci fanno sentire uniti in Europa). Sono gli anni delle discussioni attorno ad abusate, vivisezionate dicotomie. Noi così provinciali e verticalisti, loro così internazionali e multietnici (certo, perché non avendo storia propria, vivono parassiticamente delle altrui, eccetera). Loro così banali e meccanici, coi loro pedestri schemi mentali e la loro capitalistica ossessione per la produzione forzosa di scrittura (publish or perish è il loro motto). Noi invece così immaturi e patetici, perennemente ammollo nella melanconia di un qualche impero, prigionieri del nostro (stra)paesano narcisismo (o autodisprezzo, che ne è il necessario complemento). Nel corso di queste diatribe, la superiorità del caffè italiano rimane in genere l’unico punto fermo collettivo e indiscusso.
Saudade
Oltre, si capisce, alla tagliente, insormontabile saudade. Gli amici in Italia hanno un bel dire che di là si sta sempre peggio: il desiderio persiste comunque nell’assenza. E almeno, in Italia, si può restare ancora un po’ aggrappati alla vecchia e rognosa scialuppa metafisica, a quell’alta tradizione di solipsismo e autolesionismo che ci fa sentire ancora umani. Abbiamo un bel ripeterci, allora, che non cambia nulla, che mala tempora currunt dappertutto, e persino (per i più filosoficamente inclini) che l’infelicità ci attanaglia tutti per condizione, indipendentemente dallo stanziamento geografico. Si cerca di odiare l’Italia, compito che si rivela sorprendentemente semplice quando sostenuto da una routine di quotidiana scorsa alla politica nostrana. Ma anche questo non basta perché, com’è noto, l’odio è solo l’altra faccia dell’amore; e tanto l’idealizzazione della terra d’origine come i ricorrenti miraggi di un imminente nostos, come pure i compulsivi incubi aeroportuali che per anni perseguitano l’emigrato, non appartengono certo all’ordine razionale, ma si nutrono di masochistica jouissance. Rispondono, cioè, alla stessa logica dei ricordi traumatici nei reduci di guerra, fenomeno che portò Freud a teorizzare l’oscuro territorio al di là del principio del piacere.
Il sogno
A certi ricorrerà il sogno di un dottor Caligari più ispirato della media che, in un laboratorio acutangolo dalle proporzioni impossibili, riesce al termine di una fanfara di fumi ipnotici e alambicchi a creare il Perfetto Esemplare Umano, dotato in egual misura dello sregolato genio mediterraneo e dello stoico efficientismo americano...
Il lavoro
Planare dalle altezze intellettuali degli anni di dottorato alla realtà ipogea dell’insegnamento mi ha ricordato lo stacco netto tra la prima e la seconda parte del capolavoro di Kubrick Full Metal Jacket. Nella prima, svolta nella rarefatta atmosfera di un campo d’addestramento, diciassette giovani vengono addestrati da un sadico sergente a diventare perfette macchine da guerra, capaci di prevedere e affrontare ogni possibile scenario bellico. Nella seconda, in Vietnam, i novelli soldati si trovano immersi in una imprevista, “sporca” realtà di guerriglia dominata dal logorìo dell’attesa e dell’azzardo, uno scenario in cui le loro raffinate abilità marziali si rivelano radicalmente inadeguate. Analogamente, il docentello fresco di dottorato e quindi (nel migliore dei casi) competente lottatore sul ring della critica letteraria, si rende drasticamente conto, nel giro di poche surreali settimane, che l’istruzione di base dei suoi allievi americani è praticamente inesistente, e molti arrivano all’università tabulae rasae, senza sapere scrivere (o addirittura leggere bene) nella propria lingua. Risvolto positivo: si rende anche conto che quel sogno ricorrente in cui veniva sputtanato pubblicamente da un alunno per aver confuso una teoria di Bourdieu con una di Badiou, non si realizzerà al di fuori dell’ambito onirico.
La crisi
Ai fruitori delle teorie cospiratorie piace sostenere che le grandi crisi sono istigate dai “poteri forti” con lo scopo poi, attraverso misure di “emergenza”, di devastare le università, considerate covo pericoloso di progressismo. Lasciamo aperta la discussione sul grado di premeditazione, su cui non è poi così essenziale pronunciarsi: per produrre certi effetti un alto grado di premeditazione non è sempre necessario (nel caso del capitalismo, poi, basta lasciare tutto com’è). Quel che è certo è che ogni crisi finisce per beneficiare detti poteri (perlomeno nella misura in cui essi non ne vengono intaccati), mentre è il welfare a sopportarne le più tragiche conseguenze. Perché se bisogna “tagliare”, come insegna anche meglio la nostra patria, si taglia sempre e tassativamente in basso. Siempre se corta por lo más débil, secondo il vecchio adagio spagnolo.
Da noi, la crisi ha portato un rettore che, forte di un’agenda di tagli crudeli e aggressiva burocratizzazione delle facoltà, ha operato un vero e proprio golpe teso a degradare un’istituzione pubblica a impresa privata, con relativa triplicazione delle rette universitarie, sovraccarico delle classi, congelamento dei nostri salari, al cui anche moderato conguaglio si continua a preferire la creazione di nuove e dispendiose posizioni amministrative. All’inevitabile collasso di qualità e sostanza dell’istruzione conseguito a quanto sopra esposto, si è risposto, come da antico copione, con la messa in opera di programmi populisti e di facciata volti a mascherare le lesioni e le erosioni di struttura. Proliferano così le commissioni inutili, le diversioni circensi, le manovre cosmetiche: parate, banchetti, tavole rotonde, premiazioni, cambi di logo, isterici aggiornamenti tecnologici, eccetera. È necessario menzionare che, malgrado tutto, il dipartimento di atletica ha continuato a godere di un inesausto serbatoio di fondi?
Studenti
A dispetto delle difficoltà, l’insegnamento—nobile e ardua professione di cui ancora non riesco a sentirmi degno officiante— apporta grandi soddisfazioni. E il fatto di dover insegnare in un ambiente rurale di ragazzi che lavorano per pagarsi i carissimi studi non mi dispiace affatto—essendo io stesso il rampollo di una famiglia working class (anche se noi, in Italia, abbiamo avuto il lusso di poter studiare senza dover lavorare). Detto questo, ci sono molte, troppe cose che lo studente medio americano non sa. Dov’è Parigi, chi era Napoleone, quand’è stato il Medio Evo, cosa vuol dire pessimistic, che l’Austria non è l’Australia, che guerrilla non si scrive come gorilla, che l’opera non c’entra con Oprah (Winfrey). Mi fermo qui, non avendo alcuna intenzione di scrivere la versione californiana di Io speriamo che me la cavo per un umorismo facile e dal fiato corto. Il punto è piuttosto che il docente non può dare niente per scontato (ma i colleghi italiani mi confermano che lo stesso accade con sempre maggior frequenza anche nel nostro Paese…). Per esempio, nel mio corso panoramico “Dal Barocco ai giorni nostri”, è impensabile iniziare davvero dal Barocco: per chi non ha idea di cosa l’abbia preceduto, è d’obbligo risalire alla caduta dell’impero romano. Eppure, non tutto è sterile, e sedici settimane di sforzi, in generale, producono dividendi.
Sottoporre sistematicamente gli alunni a quesiti più o meno complessi (il buon vecchio metodo socratico) è ancora il modo migliore di spremere meningi mai prima sottoposte ad attività ginnica. Che senso ha l’orinale di Duchamp? Perché Pulp Fiction è postmoderno? In che senso il ruolo degli dèi nell’Iliade è diverso da quello nell’Odissea? Perché Dante è così ansioso, nel canto XXVI dell’Inferno, di conoscere la storia di Ulisse? Indipendentemente dal suo livello di cultura, lo studente americano, intelligente come chiunque altro e, soprattutto, persona in genere umile e gentile, sarà sempre bonariamente disposto a buttare lì una risposta (attività descritta, in inglese, come throwing in your two cents — metafora monetaria, ovviamente). Ed entro la fine del corso, il buon studente sarà capace di rispondere a siffatte domande in modo anche abbastanza articolato. Il cinema, poi, soccorre a spezzare l’imbarazzante governo della parola scritta. Dove si ritrovano le dodici insidie che attendono Odisseo nell’eccezionale Fratello, dove sei? dei fratelli Coen? Che cambiamenti subiscono gli eroi omerici nella rivisitazione hollywoodiana dell’Iliade realizzata nel film Troy? E qui il successo del corso dipenderà non tanto dalla propensione degli studenti, letta l’Iliade, a deridere il polpettone hollywoodiano, quanto piuttosto dalla capacità di determinare in che misura tali trasformazioni rispondono a canoni etici ed estetici — i nostri — fondamentalmente diversi da quelli che sorreggevano la società omerica. Questo è critical thinking, uno dei motti universitari ripetuti tanto più istericamente quanto più rettori, amministratori delegati e presidenti si sforzano di ostacolarlo.
Nixon
Le insidie sono sempre presenti, ed è spesso difficile far breccia nella capsula ideologica dentro cui il giovane americano è costretto a crescere. La capsula odierna è fatta di stridenti rigurgiti fascisti e isolazionisti, di radicalizzazione degli odii razziali e di classe, di aggressivo individualismo e materialismo, di depoliticizzazione e degrado degli spazi pubblici—una ricetta di sperimentata efficacia con cui da tempo la Destra cerca di coprire le crescenti sperequazioni sociali create dal sistema neoliberista. Le masse americane, già costituzionalmente afflitte da amnesia o incoscienza storico-sociale, vengono quotidianamente istupidite da imbonitori televisivi, da mistificatori e sobillatori al soldo delle grandi compagnie (armi, petrolio, assicurazioni) e delle chiese loro alleate. Questi figuri turlupinano le masse con gli stessi bassi argomenti di sempre, come gli zingari di Cent’anni di solitudine che, dopo il diluvio, ritornano in una Macondo senile affascinando la gente immemore con le stesse dentiere, magneti e telescopi che avevano introdotto cent’anni prima. (Ma del resto, se fosse realmente possibile apprendere dalla storia, avremmo avuto una storia molto diversa.)
Nel mio corso di letteratura ispanoamericana mi trovo necessariamente a parlare (in relazione al romanzo La casa degli spiriti) delle pesanti responsabilità dell’amministrazione Nixon nel golpe ai danni del presidente socialista cileno Salvador Allende nel 1973, e nella sanguinosa dittatura fascista che ne è conseguita. Gli studenti americani (a cui si è sempre e solo parlato di due dittatori: Hitler e Castro) ne restano comprensibilmente stupiti (ma come: noi golpisti?); ma poi ci si raccapezzano abbastanza in fretta. Il problema è che ci si raccapezzano semplificando il tutto nei termini a loro familiari, quelli dell’ideologia neoliberista: cioè, che il governo è corrotto, e che sarebbe meglio che non ci fosse. È questa, infatti, la tesi quotidianamente strombazzata dalla Destra, il cui sogno è uno Stato (con il suo dannato welfare e le sue dannate tasse) a tal punto mutilato da potere essere annegato nella vasca da bagno. Ma la loro falsa e popolarissima teoria secondo cui tutti i mali economici discendono dalle restrizioni che un governo corrotto impone al funzionamento del libero mercato va subito in frantumi non appena ci si soffermi a considerare che il governo si corrompe precisamente quando si trasforma in ancella degli interessi di finanzieri e speculatori — come appunto avvenne nel golpe cileno del 1973. In altre parole, se il governo è corrotto, il cosiddetto “libero mercato” ne è il principale corruttore.
Come uscire da questo ginepraio? Come far capire che il governo è sì spesso corrotto, ma che senza le sue indispensabili leggi e protezioni (conquistate con il sangue di molti nel corso dei secoli) saremmo tutti assai più schiavi di quanto non lo siamo ora? Come spiegare all’americano congenitamente animato dalla fantasia puritana del Bene e del Male, che la politica è necessariamente una “cosa sporca”, un costante scendere a compromessi, e che l’unica scelta possibile è quella tra male e peggio? O la borsa o la vita, appunto...
La caccia infernale
Al termine di due settimane sul Decameron, quasi tutti avranno colto la differenza tra la “caccia” ai distruttori di proprietà, dilaniati dai cani nel canto XIII dell’Inferno di Dante, e la rielaborazione della stessa scena nel racconto di Nastagio degli Onesti, dove ad essere dilaniata è una donna, per aver rifiutato in vita le avances dello spasimante. In Dante la scena è un exemplum la cui logica moralistica si articola nei termini di un chiarissimo contrappasso. In Boccaccio diventa qualcosa di fluttuante e dal destinatario incerto, uno strumento eminentemente disponibile a qualsiasi uso, e di cui infatti il furbo Nastaglio si avvantaggia cinicamente per ottenere il suo scopo (la donna che gli si rifiutava). Semplificando un po’ le cose (come va fatto), c’è qui tutta la differenza tra il Medio Evo e il Rinascimento: da una parte la ferrea etica divina che informa la Divina Commedia, dall’altra il relativismo morale, lo scetticismo, l’utilitarismo che regge la Commedia umanissima del Boccaccio.
Bene. Questo quasi tutti lo capiscono. Ed è sempre con sommo piacere che il docente si sente rigurgitare addosso dall’alunno studioso, con minima perdita entropica, parte delle idee che durante il semestre ha cercato di inculcargli. Ma ogni tanto, certo per qualche strana e a me ignota congiunzione astrale, qualcuno va oltre e nota, per esempio, che le “storie di inferno e paradiso” sono lo strumento principe con cui la chiesa sanziona da sempre lo status quo. In particolare, nel racconto di Nastagio, l’exemplum religioso viene in soccorso dell’ordine patriarcale, mostrando il castigo che nell’aldilà attende la donna riluttante all’autorità del maschio. Critical thinking, appunto! E certo non male per una città di 500.000 anime dotata di oltre quaranta chiese, ma di due sole librerie.
giorgiomobili@hotmail.com
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