Il mio lavoro odora di ginepro e di tiglio dei pastelli nuovi, di mandorle amare della colla nei barattolini argentati, di carta. Ma anche di pizza rossa e di succhi di frutta, di caramelle alla fragola e di gomme alla menta, di mele sbucciate e di mandarini fatti a spicchi, di gesso che impolvera le mani come talco colorato, di sole fra i capelli in primavera, di pioggia sugli impermeabili in autunno.
Il mio lavoro ha il suono cantilenante dell’alfabeto declamato da tutti, del ritmo cadenzato delle sillabe, della musica dolce di una storia quando viene letta ad alta voce.
Il mio lavoro ha la forma delle lettere tracciate sbilenche con le mine grasse, delle zeta e delle esse scritte a rovescio, delle acca dimenticate dentro le matite, dei segni incomprensibili copiati dalla lavagna che un bel giorno iniziano a prendere vita.
Giorno che non è lo stesso per tutti: bisognerebbe fare una festa per ciascuno di loro, quando arriva; dire ai bambini di venire a scuola con il vestito bello della domenica, perché finalmente leggeranno a voce alta liberando concetti compiuti e luce dai quei sorrisi pieni di finestrelle; perché scriveranno i loro pensieri per farli conoscere al mondo.
Il mio lavoro è insegnare la magia delle parole, lette e scritte.
Suono della prima campanella, l’atrio che esplode di voci infantili, di passi di corsa, di richiami. Anche oggi si inizia.
Cesare e Guendalina arrivano contemporaneamente, si spintonano sulla porta, nessuno dei due vuole lasciare il primato all’altro. Giada mi abbraccia forte, Emanuele inizia a raccontarmi le vicissitudini del pomeriggio precedente e del mattino.
Il pavimento dell’aula, lungo i muri, è già invaso da libri, quaderni e astucci: i bambini, seduti a terra, svuotano gli zaini che rimarranno allineati accanto alle pareti, tutto il resto andrà sotto il banco. Federica e Caterina si scambiano i cerchietti per i capelli, Ginevra mostra a tutti l’orsetto di peluche nuovo che le ha regalato la nonna. Jacopo si impunta sulla soglia: appesa al collo, ha la medaglia che ha vinto ieri alle gare di corsa; non parla ma osserva tutti, in attesa che qualcuno faccia domande sulla sue glorie d’atleta.
Ventidue bambini di prima elementare, tredici femmine e nove maschi. Mi piacciono tutti indistintamente, stanno diventando un gruppo e io sono fiera di loro.
– Vediamo chi c’è e chi non c’è –, dico aprendo il registro.
– Io ci sono! –, urla Claudio, sorridendo e rimbalzando leggermente sulla sedia: è contento.
– Oggi ci siamo tutti, mica solo tu! – puntualizza Diego, che già legge bene ed è in grado di scrivere da solo, anche se è caustico nei confronti di se stesso.
– Posso andare a fare il comico a Zelig con questo compito pieni di errori, mae’! Sai come faccio ridere la gente!
Oggi Claudio è felice di esserci: è il suo turno, suo e di Viola, di essere i collaboratori del giorno. Nel clima di responsabilità che cerco di creare fra le truppe, designo ogni mattina due bambini, in rigoroso ordine alfabetico, a cui affido volentieri semplici incombenze come distribuire le fotocopie, aiutare chi è rimasto indietro, mettersi alla lavagna per scrivere il nome di chi non rispetta le regole durante le lezioni.
Quest’ultimo compito è elettrizzante per tutti.
Innanzi tutto perché alla lavagna scrivo quasi sempre io, loro si limitano a disegnare o a stamparsi impronte di tutti i colori con il cancellino sulle divise blu di Persia della scuola.
E poi, vuoi mettere il potere che si ha nello SCRIVERE i nomi dei compagni sulla lista dei cattivi? Scrivere non è come una cosa detta solo a voce, il segno del gesso bianco sul fondo nero dell’ardesia lo possono leggere tutti, anche la Preside se per caso si trovasse ad entrare. Quando sono alla lavagna diventano tutti sceriffi, spietati tutori dell’ordine e della legge: anche un temperamatite che cade può diventare oggetto di discussione della Corte Suprema dei Collaboratori, con contraddittorio e prese di posizione da parte dei colpevolisti e degli innocentisti in cui si divide il resto della classe.
I collaboratori sono in coppia perché cooperino fra loro e perché non tutti sono ancora in grado di scrivere. Anche se alla lavagna si mettono impettiti in due con il gesso alla mano, spesso è solo uno quello che scrive. Ma in questo modo, nessuno si sente da meno.
Per Claudio, ancora non è giunto il giorno speciale in cui i segni si trasformano in parole di senso compiuto. Io non ho fretta, so che arriverà e sarà una festa sul serio: ricordo ancora i suoi primi giorni di scuola fatti di stizza e stanchezza, di frasi punteggiate da parole incomprensibili, di frustrazione nel sentirsi dire “scusami, ma non ho capito: puoi ripetere per favore?”, di pagine di quaderno utilizzate a casaccio con le lettere che si inseguivano come sulle montagne russe. Sono state settimane in cui ci abbiamo creduto e basta, sia lui che io, senza arrenderci: sapevamo che c’era un universo dentro quel caos, e costellazioni che non vedevano l’ora di brillare.
Leggo la storia del piccolo riccio che vuole giocare a nascondino invece di andare in letargo. Oggi fuori brilla un bel sole tiepido, nonostante sia già inverno: difficile, alle nostre latitudini, immergersi nell’atmosfera di un bosco che si prepara al lungo sonno invernale. Ma la storia ai bambini piace comunque.
Individuiamo le parole chiave del racconto, le scrivo sulla lavagna e loro le copiano, disegniamo insieme gli animali della storia. Viola non ha problemi nel terminare il suo compito in scioltezza, inizia a svolazzarmi intorno, spalanca gli occhioni verdi da fata e mi chiede:
– Che posso fare? – ansiosa di dare inizio al suo ruolo extra del giorno.
– Vedi se qualcuno ha bisogno di una mano – le rispondo.
Si rivolge subito a Claudio:
– Ti aiuto, così finisci subito e vieni a fare il collaboratore della maestra anche tu! – La mia fatina ha la rara dote della disponibilità senza riserve verso il prossimo, incarna perfettamente lo spirito della maghetta buona.
– Sto finendo, ce la faccio da solo! – le risponde Claudio.
Mi accorgo che l’alfabetiere si sta staccando dalla parete, l’aria secca dei termosifoni avrà asciugato la colla dello scotch. Ventuno lettere che occupano allineate tutta la parete dietro la lavagna rischiano di iniziare a planare ovunque da un momento all’altro. Non ora, penso, sai che delirio se iniziano ad arrivare dall’alto questi aeroplanini colorati sui banchi!
Puntine e martello, ecco quello che ci vuole, e staranno al loro posto fino a giugno. E un banco, mi serve un banco su cui salire con Viola che mi farà da assistente.
– Devo sistemare l’alfabetiere, starò lassù in alto: finite il lavoro e se avete qualcosa da chiedere ci sono i miei collaboratori. Dai, che c’è il sole! A ricreazione andremo a giocare in cortile!
Mentre sto piazzando la emme vedo Claudio col muso rivolto verso di me:
– Ho finito il compito. Che posso fare?
– Mettiti alla lavagna – gli dico. Viola mi guarda stupita mentre mi passa l’ennesima puntina: so che pensa che Claudio non sa scrivere ancora, che non può stare da solo alla lavagna, ma la sua fede in me è incrollabile. Se lo dice la maestra, significa che può. E si limita a sorridere.
In effetti, è più che altro un incarico piacevole per tenerlo occupato. Non è importante che non sappia scrivere i nomi dei compagni. In classe regna la quiete: non ce ne sarà bisogno.
Claudio è felice: si piazza davanti la lavagna con un sorriso furbetto, guarda ad uno ad uno gli altri con l’aria di chi pensa “Adesso vi faccio vedere io!”, gli manca solo la stelletta di latta sul petto.
Dopo un paio di minuti inizia ad annoiarsi. Fa qualche saltello, poi si ferma e mi guarda mettendo una mano sugli occhi, come per ripararsi dal sole.
Sento che scrive qualcosa, starà disegnando credo. C’è qualche sbuffo di risolino fra i bambini, bisbigliano fra loro, poi qualche risata vera e propria.
– Che c'è? – chiedo mentre appendo la zeta.
– Ora che vieni giù, lo vedi! – riferisce la faccetta paffuta di Antonia.
Scendo e guardo la lavagna. C’è scritto:
CATTIVI: MAESTRA
Vorrei abbracciarlo. Ha scritto il suo primo messaggio al mondo, e l’effetto che ha prodotto non se lo aspettava nessuno, io per prima. Ma devo mantenere il punto: sono la maestra, no?
– Ma come? – chiedo con aria esterrefatta a Claudio, – perché mi hai scritto fra i cattivi adesso?
– Stavi in piedi sopra il banco – risponde lui, serafico.
– Ma stavo appendendo l’alfabetiere al muro! –, tento di difendermi.
– Mi dispiace per te, ma non è mica una buona scusa: sempre in piedi sul banco stavi!
Ci mettiamo tutti a ridere forte. Claudio gongola: un uno-due così lo mettono a segno solo i campioni. Ci incrociamo con gli occhi, lui li abbassa per primo e continua a sorridere.
– Io stavo scherzando – confessa, intimidito dalla potenza di ciò che ha scritto.
– Lo so che stavi scherzando – lo rassicuro. – Abbiamo riso tutti, hai visto? Bravo! Potresti andare con Diego a Zelig: sareste due comici straordinari, avreste un successo enorme!
Mi guarda stupito.
– Davvero? Davvero potrei andare a Zelig e far ridere le persone?
– Ma certo! – lo incoraggio. – Sei diventato bravo a scrivere, come Diego. Anzi, di più!
Afferriamo le merende e andiamo in giardino, al sole: oggi è un giorno di festa, è il giorno speciale di Claudio.
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