FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 34
aprile/giugno 2014

Lavoro

 

FATICA NON NEMICA

di Marco Ercolani



In questo breve testo sono annotate, in corsivo, le parole reali di un mio paziente, M.B., e, in tondo, le mie riflessioni sulle sue parole.


1.

«Volevo un mondo senza esseri umani. Oppure persone leggere, come nuvole. Quando camminavo, lo sa, aprivo e chiudevo il ventaglio».

M. ha immaginato un mondo altro, disabitato dall’uomo, che possa essere aperto e chiuso dal movimento di un ventaglio. Sigmund Freud definisce il sogno allucinazione notturna e il delirio allucinazione diurna. Wilfred Bion descrive l’universo del delirio come “stato permanente di sogno”. La differenza tra allucinazione e sogno sarebbe solo la capacità di risvegliarsi, che nel folle è assente. Ogni notte, quando l’io tace e i sogni affiorano, sperimentiamo la possibilità di impazzire per un limitato numero di ore: il sogno è la follia notturna che permette al giorno di esercitare le strategie della ragione. Secondo Maurice Blanchot: «Quando la follia si fu completamente impadronita della mente di Hölderlin, anche la sua poesia si capovolse. Tutta la durezza, la concentrazione, la tensione quasi insostenibile degli ultimi anni, diventa riposo, calma, forza placata. Perché? Non lo sappiamo». E se il poeta Hölderlin avesse finto, almeno in parte, la sua pazzia? La poesia è anamorfosi del mondo, suo specchio rovesciato: attraverso le vie segrete del linguaggio difende la necessità dell’uomo di creare sogni paralleli al mondo ma reali. Conoscere un folle che salvi la sua follia dalle regole del delirio e la trasformi in vivente poesia è la mia personale utopia di psichiatra e di scrittore.


2.

«L’io è gli altri. Io sto abbastanza bene, ma questi colloqui sono importanti non soltanto per me. Se lei impara dalle mie parole qualcosa di più di quanto già non sappia, ne potrà trarre beneficio qualche paziente più grave di me, che ha bisogno di lei ora più di quanto non ne abbia bisogno io: non siamo soli al mondo».

M. era affascinato dal delirio, oggi è sedotto dalla normalità. Pensare che il proprio problema possa risolvere quello di un’altra persona è un atto di solidarietà, generale ma non generico, che orienta verso la guarigione. M. non si trincera più in una verità-delirio da opporre al mondo ostile. Cerca di capirlo, quel mondo, anche con una certa ironica pietà. Cerca di venire a patti con lui, a costo di soffrire la tristezza di alcuni sogni falliti. Una pizza condivisa con i figli è più importante di un solitario delirio di onnipotenza. Talvolta, ma solo talvolta, rimpiange l’energia che lo traversava. Ora quell’energia, mi ricorda, gli serve per camminare in altre strade. E, se in anni passati pensava il cibo come qualcosa di ostile e di nemico, ora il cibo lo prepara lui e dei suoi piatti si vanta con un sorriso.


3.

«Lontano / nel nulla / ti sembra / vedere tornare la vita / componi te stesso / respiri».

Il racconto di Georg Büchner, Lenz si conclude con queste parole definitive: «Così trascinò la sua vita…». M. esige il contrario: comporre se stesso, respirare: non vuole la morte, l’assenza di via e di viaggio, il prolungarsi indefinito dell’angoscia, ma l’esatto contrario. Siegfried Lenz, scortato via dalla casa di Oberlin, il poeta che si sente disperato al calare del buio e cerca nel dolore fisico la certezza di essere vivo, è l’uomo descritto da Celan: colui che guarda il cielo con la testa rovesciata. Il cielo, è per lui, la voragine azzurra in cui precipiterà. Lenz è il simbolo del poeta folle, veggente: dell’occhio condannato a non chiudersi mai sulla visione che lo attraversa. Quando lo scrittore Heinrich von Kleist ci parla della pittura di Caspar David Friedrich, la paragona a un occhio senza ciglia che fissa la luce. Forse è questo uno dei simboli più potenti della follia. Per essere normali, bisogna saper chiudere gli occhi. È l’istante di assenza del vedere, la momentanea cecità provocata dal battito di ciglia, la costruzione della salute. Quel movimento intermittente – quel ritmo - è il fisiologico atto di rivolta contro il vedere ininterrotto della psicosi, contro la luce continua che rischia di offendere per sempre la capacità di vedere della rètina.


4.

«La mia malattia è stata un’esasperazione della mia vita interiore. Io […] devo stare attento alla mia corda psicotica. Però voglio parlare con gli uomini, ironizzare. Chi non sa cogliere l’ironia, che provi a cogliere pomodori. C’è spazio per la melissa e per l’origano: basta che li piantiamo in campi diversi».

Pacificato dalle sue crisi, che lo portavano a viversi o come un nomade senza pace o come un dio dal potere illimitato, M. è consapevole di poter modulare la sua sofferenza: di far vibrare meno la sua corda, che però non smette di essere presente, e lui ne è consapevole. Scrive Emile Cioran: «Non ho incontrato un solo uomo interessante che non abbia avuto una malattia più o meno segreta». E questa malattia più o meno segreta non può che corteggiare i confini incerti della mente. Ma neppure troppo incerti, se si riesce a trovare il gusto delle differenze e dell’ironia. In campi diversi convivono diverse energie, e si mescolano senza confondersi.


5.

«Una vita è poco, ma quel poco è essenziale. Per quel poco lavoriamo. E il lavoro è fatica. Fatica non nemica. Capisce? Fatica non nemica. Se una madre sente il suo bambino piangere deve alzarsi da letto e andare verso la culla. Deve faticare. Non può continuare a dormire».

Alle parole di M. continuo a rispondere ogni giorno, perché ogni giorno è costruzione di salute, per me e per gli altri - costruzione irregolare, erratica, confusa, nebbiosa. Talvolta dimentico di cercare le parole giuste. Lascio che mi arrivino. E soltanto dopo, lavorando con frasi e sorrisi, giudizi e commenti, cercando di osservare nodi, di sciogliere dilemmi, mi accorgo che guarire gli altri è possibile, ma sempre in modo relativo. A spicchi. A frammenti. Per attimi. Dopo anni. La vita è inguaribile, scrive Artaud. E la ferita, ogni ferita, nel presente e nel passato, resta inconsolabile. Quando un giorno un paziente mi chiese se anch’io sentissi le voci, gli risposi che talvolta le sentivo, ma senza dolore. Lui restò interdetto, ma sorrise.


6.

«Passo dopo passo si costruiscono i confini. Non sono mai certo di dove andrò veramente. Diciamo che la persona che sono adesso è venuta fuori da uno stato di necessità, e quindi anche dalla malattia. Per una persona intelligente la mancanza di una malattia psichiatrica può anche essere un vero problema, un banalizzare la vita. Io ora, sto bene così. Non essendo né spontaneo né istintivo e mancandomi i fondamentali della vita, gioco la mia battaglia sapendo di aver perso qualche partita, ma non smetto di lottare».

È una convenzione affermare che la follia sia una disgregazione dell’identità. In certi casi, cronici e di estrema gravità può esserlo, ma più spesso ci troviamo di fronte a un quadro diverso: una esasperazione delle idee ossessive, una eccessiva riorganizzazione del mondo, che rallenta il flusso vitale e lo cristallizza in gesti, formule, cifre. Il compito del terapeuta sembra essere non tanto quello di una chiarificazione precisa del sintomo ma quello di una volontaria divagazione dal, di una amorevole distrazione, dove il paziente possa trovare modo di sciogliere i suoi nodi anche con gli strumenti dell’improvvisazione. La malattia mentale è uno dei modi concessi all’uomo per approfondire le dinamiche del vivente.


7.

«Basta con le scatole delle convenzioni. Io mi sento una persona che ha un suo preciso valore etico e lo stesso valore lo sento in lei, dottore, anche se le nostre affinità non sono molte. Io non ho inibizioni. Ho handicap da cui attingo forza. Io stendo il mio lenzuolo senza disturbare la funzionalità dello scambio fra me e l’altro. Che anche l’altro stenda il suo. Se poi troveremo modo di tessere qualcosa insieme, tanto meglio».

M. conosce la mia doppia natura: il critico che ascolta la parola veggente e sregolata dei poeti, e lo psichiatra che ha il mandato sociale della reclusione dei matti. Entrambe le mie identità gli sono note. Sa qual è il mio lenzuolo e se può entrare in una rete di scambi con il suo. Quando si fa socio dell’associazione culturale* , dove organizzo mostre e readings su arte e follia e dove dirigo le attività della biblioteca, si assume l’incarico di rinfrescare le pareti dei bagni e di riverniciare le porte. Stende il suo lenzuolo. Io gli chiedo se non sia troppo faticoso, e risponde semplicemente:

«Dottore, va bene così. Tutto questo mi rende eccitato, curioso. È un modo di essere diversamente poeta. E poi, gliel’ho detto. Non ho paura della fatica. Lo ricorda? Fatica non nemica. Non nemica».

Io mi allontano; entrando nelle sale della Biblioteca Bandita, che ospita testi eccentrici di autori non presenti nelle librerie e nelle biblioteche regolari, ricordo le parole di Giovanni Benedetto Castiglione:

«e chi è riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar di spada, ciascun secondo la miniera del suo metallo; onde poi, come sapete, si sono avuti meravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo: che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato, possa multiplicar quasi in infinito».

Non solo “moltiplicarsi” ma “reinventarsi”. Scopro che una casa traversata dai vortici può essere anche una casa che contiene il vento. Smetto di capire ciò che potrei non capire. Il filosofo Platone dice che la mente non è un vaso da riempire ma un fuoco da accendere. Il poeta persiano Hafez che il segreto di questo mondo è un enigma che nessuna sapienza può sciogliere. Io sorrido delle citazioni che mi vengono alla memoria. Intanto M. finisce di smaltare le porte e io sento che l’enigma resta indecifrabile, come lo restano i sogni, anche dopo l’interpretazione più convincente.


8.

«Io voglio avere una funzione, essere utile all’altro, essere una ricchezza. Io ho il rigore di un obiettivo: questa è follia? Bisogna applicare una spinta, non arrendersi».

Anch’io non mi arrendo. Se un obiettivo è rigoroso, mi sembra sano perseguirlo con ostinazione. Io resto qui, sentinella, tra chi crolla e chi è sospeso.

«Con gli occhi fai grande / più grande / questa nuova venuta / nebbia infinita / lontano / nel nulla / ti sembra / comporre la vita
[…]
Di qua e di là / dal canto / allunga / e trova la via / è stato / e sarà / della scienza del sale / consente davvero / per la fine del tempo»

Se il sale è un fluido virtuale, che non si vede ma che si sente e insaporisce il cibo, la scienza del sale potrebbe essere quella conoscenza tutta umana, quel sapere concreto (l’etimologia è saphés, dal sapore penetrante) che da’ senso al percorso fisico e metafisico dell’uomo, dove la via si trova proprio di qua e di là dal canto. Parole come quelle che io e M. ci scambiamo, nel corso delle settimane e dei mesi, vorrebbero accennare ai confini che si costruiscono camminando, segni di strade ancora nuove, da esplorare con la magia del reciproco parlarsi.


*Contemporart Hospitale d’Arte (Villa Piaggio, Corso Firenze 24, Genova, www.contemporart.eu) è un’associazione che ospita eventi di musica, teatro, danza, readings poetici e filosofici, incentrati sul tema arte e diversità. Tra le ultime iniziative l’inaugurazione di una “Biblioteca Bandita”, che raccoglie testi sommersi e non di arti e scritture irregolari.


mark.ercolani@libero.it