FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 32
ottobre/dicembre 2013

Geometrie

 

ASCOLTARE
una rubrica per le orecchie

di Federico Platania



Gioia continua


C’è stato un tempo in cui le parole “rock” e “rivoluzione” formavano un solido binomio: per molti anni il rock è stato il suono della rivoluzione dei costumi, della rivoluzione sessuale, della rivoluzione delle idee e, non ultima, della rivoluzione vera e propria. Ma se molti rocker potevano essere genericamente ascritti alla fumosa categoria dei ribelli, ce ne sono stati altri che si qualificavano con maggiore dettaglio. Tra questi sicuramente i Clash, uno dei gruppi più importanti di quella stagione del rock a cavallo tra i decenni Settanta e Ottanta. I Clash non erano vagamente di sinistra, erano precisamente filocastristi. Britannici di nascita, nordamericani nel suono, latinoamericani nel cuore. Materialismo storico, marxismo, Cuba, Nicaragua e sandinismo suonati con chitarre amplificate, basso e batteria.

Nel paragrafo precedente ho utilizzato molte parole vetuste. È un passato prossimo al quale alcuni guardano con nostalgia, altri con sdegno. Ma questa è una rubrica in cui si parla di musica e limitandoci a questa possiamo affermare che sui dischi dei Clash la Storia non ha lasciato depositare neanche un granello di polvere. In particolare London Calling, giustamente considerato da critici e semplici ascoltatori come uno dei dischi più belli della storia del rock, è ancora un’opera di smagliante bellezza, di una freschezza che ancora oggi, dopo anni e anni di ripetuti ascolti, ci arriva immutata.



Uscito nel 1979, il disco presentava una copertina che imitava quella del primo disco di Elvis Presley. In questa, anno di grazia 1955, si vede il re del rock’n’roll strimpellare una chitarra acustica durante un concerto in Florida. In quella, la furia luddista di Paul Simonon che distrugge il suo basso elettrico sul palco. Le differenze sono evidenti così come le radici comuni, che non sono certo quelle della guerriglia sudamericana, ma della musica leggera come espressione di energia liberatoria. Ed è proprio questo che fa sì che London Calling sia ancora quel diamante brillante intagliato alla fine degli anni Settanta. È una festa della musica. Provate a (ri)ascoltarlo senza fare caso ai testi. Provate a dimenticare che Spanish Bombs parli della guerra civile spagnola, che Guns of Brixton parli dei disordini tra manifestanti e forze dell’ordine, che Rudie Can’t Fail parli del disagio giovanile. Provate a non pensare che Clampdown accusi le ingiustizie del capitalismo e che Lost In The Supermarket critichi la società dei consumi. Provate a concentrarvi esclusivamente sulla musica. A esclusione della cupa title-track che apre il disco e di un altro paio di episodi, tutta la musica contenuta in queste tracce è la colonna sonora di una festa.



Pochi dischi rock possono essere definiti più impegnati di London Calling eppure questo è più un disco di gioia che di protesta. Un disco che ti fa venire voglia di ballare e cantare. Per questo è ancora vivo. Non so oggi che senso abbia la parola “rivoluzione”, ma ancora oggi, a decenni di distanza, lo spirito e l’energia di un brano come Revolution Rock ci arrivano intatti. Le rivoluzioni vanno e vengono. La gioia continua.


federico.platania@samuelbeckett.it