Quando, da bambina, sentiva parlare di Marziale, quel loro concittadino, che, partito giovane da Bilbilis, aveva avuto grande successo a Roma come poeta, non sapeva se fosse leggenda o realtà: pensava che quella città così grandiosa e splendida (a sentire le descrizioni) che lei nemmeno riusciva a immaginarsela, forse non esisteva, era solo una meraviglia da sogno, lievitata con le parole che si susseguivano di bocca in bocca. Poi, passati gli anni, aveva comprato il rotolo con le sue poesie dal libraio di Bilbilis, che ne aveva fatto fare tante copie dai suoi amanuensi per soddisfare le richieste di quanti provavano ammirazione e orgoglio, ma anche un po’ d’invidia, per quel loro concittadino, che a Roma sembrava essersi affermato insieme (o grazie) agli altri spagnoli, Seneca, Lucano, Quintiliano… Così aveva visto Roma attraverso le sue parole elogiative, ironiche, sferzanti, amare e oscene: si era divertita e stupita.
Ora aveva sentito dire che era vecchio e stanco, forse anche malato, e che voleva tornare a Bilbilis, ma che era povero (che strano? un poeta di successo!), tanto che non aveva nemmeno i soldi per quel lungo viaggio da fare un po’ per mare, con gl’imprevisti delle intemperie, un po’ per terra, con i rischi dei predoni. L’avevano rassicurata che avrebbe sopperito a tutte le spese un amico, ma poi, si chiedeva, nei suoi dubbi e nelle sue incertezze di donna provinciale, quando fosse arrivato lì a Bilbilis, come avrebbe potuto vivere? Sapeva bene che non aveva più nemmeno quel podere in cui era cresciuto con i suoi genitori, una proprietà non grande, ma sufficiente per produrre un discreto raccolto e abbondante frutta, con accanto un bosco da cui ricavare legna da ardere in gran quantità per far fronte ai rigidi inverni iberici.
Lei, Marcella, era vedova, ricca e senza figli. Suo padre le aveva lasciato un bel patrimonio messo insieme sfruttando le miniere di ferro che da Roma gli avevano concesso. Suo marito si era arricchito fabbricando armi apprezzate per la robustezza del ferro ben temprato dalle fredde acque del Salone, che scorreva veloce laggiù ai piedi del dorso dell’alta montagna su cui stava Bilbilis. Forse, pensava con compiaciuta speranza, poteva acquisire l’amicizia, la riconoscenza, l’affetto, magari persino l’amore del poeta affermato! Diventare anche lei una di quelle donne dalla vita che sconfiggeva il tempo attraverso le parole di un poeta innamorato. Abbandonarsi ad un sogno fu facile, immaginare parole di riconoscenza, d’ammirazione, di elogio per lei, per la sua generosità, magari anche per quel suo fascino di donna ormai sulla soglia ultima prima di iniziare a declinare e sfiorire per sempre. Proprio in quel momento in cui avrebbe voluto fermare il tempo un sogno nuovo, imprevisto e inaspettato, era venuto a visitarla e si era insediato nella sua mente, increspando la monotonia della vita con le sue lusinghe: le dava conforto, le faceva intravedere una nuova quotidianità nel futuro immediato, una vita lusinghiera, con soddisfazioni uniche e insperate, e poi per sempre… un’esistenza di parole, nella poesia. Pensò di regalare al poeta un podere, bello e prospero. Lo trovò, vicino alla sua proprietà, con un bosco fitto e antico, delle sorgenti copiose, da cui scaturivano rigagnoli che si potevano deviare e far scorrere attraverso i terreni e i prati per irrigarli. Fece piantare delle viti, dei roseti che fiorissero due volte all’anno, un orto con piante di carciofi che verdeggiassero in pieno inverno ed erbe per aromatizzare il garum, vi fece aggiungere un vivaio con le anguille, una colombaia con colombe bianche. Le sembrò di offrirgli un suo mondo, in cui potesse condurre una vita serena e tranquilla e trovare ancora l’ispirazione poetica.
Marziale arrivò alla fine di un’estate particolarmente calda, dopo un lungo viaggio prima per mare, poi verso l’interno, attraverso terre assolate. Prese dimora nella casa che Marcella gli aveva preparato. Lei lo osservava con curiosità: aveva capelli irti, da vero spagnolo, guance pelose e una voce robusta. Era piuttosto indolente: in lei suscitava rispetto e una certa qual soggezione. Le sembrava abbattuto, non felice. Pensò (per consolarsi e illudersi) che fosse per la fatica del viaggio, di cui le raccontava solo disavventure e disagi. Finalmente a Bilbilis poteva dormire bene, e di questo si rallegrava. Marcella spiava di giorno in giorno i lineamenti del suo volto, in attesa di vederli spianarsi in un’espressione di serenità, a cui, sperava, sarebbe seguita riconoscenza nei suoi confronti, poi affetto, poi chissà?... Passavano le settimane e i mesi, l’autunno era finito e ormai era inverno. Marziale conduceva una vita appartata e tranquilla, in pigrizia, accanto al focolare, in cui bruciavano i grossi ciocchi di quercia e con intorno, appese, le pentole della fattoressa, mentre il fattore si dava da fare, assegnando i lavori agli schiavi.
Marcella attendeva che accadesse qualcosa: nelle conversazioni cercava di dimostrarsi attenta lettrice delle sue poesie, gli chiedeva di Roma, lo interrogava su persone a cui ricordava che lui avesse dedicato testi poetici. Qualche volta aveva cercato di far cadere il discorso su Pilla, la vedova di Lucano, a cui lui aveva indirizzato un grazioso epigramma sulle rose, per sapere qualcosa di più sui loro rapporti e poi su altre donne prese ferocemente di mira dai suoi epigrammi, con cui pensava che Marziale avesse voluto vendicarsi di dinieghi, rifiuti, abbandoni, tradimenti… Le risposte erano sempre vaghe, sfumavano nell’ironia che copriva una costante volontà di reticenza. Marcella, però, sentiva che Marziale continuava a essere infelice. Ora che la fatica del viaggio doveva essere definitivamente superata e il disagio dell’ambientarsi vinto, si capiva che il poeta continuava a non essere contento. Lei non lo sapeva, ma a Marziale mancavano gli amici, le sale, le terme, le biblioteche che aveva frequentato a Roma; soprattutto rimpiangeva la vivacità della tavolozza che nella grande città lo ispirava e poi, lì a Bilbilis, non gli sembrava spiritoso prendere di mira quei provinciali, i quali, d’altra parte, non parevano disposti ad accettare, come a Roma, seppure con una piega d’amaro, le sue punzecchiature! A questo si aggiungevano le invidie, i pettegolezzi, inevitabili in provincia, dove non si può sfuggire alla vista e agli attacchi di nessuno. Marcella, però, tra di sé, pensava che, se Marziale aveva lasciato Roma per Bilbilis, era perché anche là, nella grande città, non era felice, e che se ora, anche nel suo paese natio, non trovava la consolazione e la serenità del cuore, viveva un’infelicità estrema e definitiva, perché ormai senza alternative. Aveva toccato la consapevolezza dell’impossibilità di essere felici, in qualche posto, in qualche modo. Lei era doppiamente infelice: pensava che se Marziale non fosse tornato a Bilbilis, lei non si sarebbe trovata a soffrire quella sottile, ma tagliente, infelicità che le derivava dal non essere riuscita a consolarlo con i suoi doni, a rallegrarlo con la sua presenza, a conquistarlo. Non sapeva neppure se Marziale sfogava il suo animo scrivendo poesie: le sue parole al riguardo erano ogni volta ironicamente evasive.
Un giorno, quando ormai iniziava la primavera, mentre lui era in giro per i boschi, si introdusse in casa, con un pretesto, da padrona; si aggirò di qua e di là, osservò, cercò, finché sullo scrittoio trovò un rotolo nuovo. Lo slegò, lesse le prime poesie, svolse ancora il rotolo, proseguì fino a quando trovò il suo nome: un tuffo al cuore! Lesse e le sembrò troppo poco. Veniva elogiata la sua finezza: tam rarum, tam dulce sapis. Le si riconoscevano modi da vera Romana: un gran complimento! Sperò ancora nel distico finale: Tu desiderium dominae mihi mitius urbis / esse iubes: Romam tu mihi sola facis. Troppo poco: non poteva più sognare, nemmeno sperare! Gli occhi le si velarono di lacrime, tanto da renderle difficile proseguire nella lettura. Si fermò, si asciugò il pianto e poi proseguì, curiosa. Pochi epigrammi più avanti trovò la risposta a tutte le sue domande e attese: Si vitare velis quaedam / et tristes animi cavere morsus, / nulli te facias nimis sodalem; / gaudebis minus et minus dolebis.
Tutto le fu chiaro: una regola ferrea dominava ormai la vita di Marziale e per lei non c’era più posto.
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