Che cosa sarà di Pino?
Me lo chiedevo stamane, vedendolo solo, assiso sul muretto di Via della Rocca, gli occhi grandi e scuri nel volto pallido e smunto che si perdevano nella visione dei monti.
“Pino, che cosa guardi?”, gli ho chiesto con tono che è diventato subito affettuoso.
Ha sollevato una spalla: “Niente, certi uccelli…”
Ho fissato a mia volta le coste della montagna; neppure uno svolazzo le percorreva.
“Che uccelli erano?”
“Palombelle”, ha risposto serio e sicuro. “Sono partite dalla torre e si sono posate lassù, a Proda Secca. Vanno a mangiare”.
Ha taciuto, continuando a picchiare con un bastoncino il muretto di granito, poi si è voltato, e la sua espressione è tornata quella di un bambino: “Indovina che cosa ho visto, una volta? C’erano tante palombelle, che volavano verso la montagna. A un certo punto, girano come Speedy Gonzales, e ritornano indietro. Indovina che cosa c’era, appresso a loro? Una poiana! Gli volava sopra, e non batteva nemmeno le ali!”
Non avrei mai tradito espressioni di dubbio, e comunque sentivo di credergli, perché Pino è il bambino degli animali.
Cominciò tutto con Flok, il bastardino che comparve un giorno nel cortile della scuola.
“Oh, che bello!”, esclamarono le maestre vedendo quel cucciolone rossiccio che puntava i piccoli alunni, rincorrendoli e saltellando festante ai loro piedi.
“Non toccatelo, però, non si sa mai”, ammonì la maestra più anziana.
Pino fece un solo gesto di sufficienza, e fu il primo ad accarezzare quel cane spuntato dal nulla.
“Me lo prendo io”. “No, io”. “Io ho già la cuccia”. Altri bambini, ora, stendevano le mani sul morbido manto dell’animale; ma Pino fu il più deciso: “No, l’ho preso io per primo. Questo è mio”.
Il cucciolo era ancora lì, al suono della campanella, e Pino, dopo un po’, strappò a Rosetta il primo pasto per il nuovo amico.
Per settimane, ogni passo del bambino fu un passo di Flok, e anche quando istinti più forti lo richiamavano, l’animale sapeva sempre dove ritrovare il suo padroncino.
“Come gli vuole bene!”, diceva Rosetta. “Da quando l’ha trovato, ogni mattina si sveglia con quella domanda: ‘C’è il mio cane qui sotto?’ E lo pulisce, lo coccola, lo bacia. È troppo, è troppo…”.
Fu lo zio Giacinto a intervenire: “Dovetti farlo, ma con duro cuore, credetemi”, ricorda ancor oggi.
Rosetta lo chiamò, un giorno: “Da un po’ di tempo gli interessa più il cane che la scuola. È svogliato, dice che la scuola non gli piace”.
Giacinto ascoltava sua sorella e guardava il nipote con occhi severi.
“Ma che volete?”, si difese Pino, ciancicando a fatica l’odiata bistecca. Altri due bocconi forzati fra le minacce, poi, bruscamente, ripeté quello che aveva fatto altre volte; si cavò di bocca il grosso bolo di carne, disse “Ho finito” e scappò fuori di casa.
Flok ingurgitò in un attimo quella poltiglia, ma lo zio Giacinto aveva capito ogni cosa.
“Hai ragione”, disse alla sorella, “non può andare avanti così. Lo sai che a Tito è venuta la rogna? E a Rocca Scura, Milena ha avuto le cisti dei cani, ed è stata un mese in ospedale”.
Un altro ritardo serale per rintracciare il suo Flok, e la decisione fu presa.
Giacinto caricò l’animale sulla sua macchina e lo abbandonò lontano, alle prime case di un paese sconosciuto, a tentare la sorte con un altro bambino.
“Avete visto il mio Flok?” ripeté Pino per un giorno intero, cercando il cane in ogni angolo.
Era stato tutto concordato: “È andato via da solo”, gli rispondevano, “i bastardi fanno così, sono nati vagabondi, non rimangono fissi in un posto. Forse ritornerà, ma poi scapperà un’altra volta. E tu che te la prendi tanto!”
Solo al tramonto del giorno seguente, quando anche Sante, il vigile urbano, ebbe confermato quella versione, Pino sembrò arrendersi. Corse via dalla strada, accasciandosi disperatamente sulle scale di casa.
“E se lo mettono a catena? Se gli menano?”
“Ma chi se lo prende”, rispose seccamente lo zio Giacinto, “non è un cane di valore, quello!”
Passò qualche mese. Pinò trovò un altro bastardino, e lo accolse subito sotto casa, nella cuccia che era stata di Flok. Dopo pochi giorni, l’animale sparì.
Da allora, nessun cane che vaghi per il paese passa inosservato agli occhi di Pino. Ancora offre carezze, del cibo, un rifugio, sempre attento, però, a non concedere troppo, a non farsi seguire, badando a nascondere i cuccioli lontano dalle case, negli stazzi e nelle cascine abbandonate della campagna.
Ormai Jack, il meticcio pezzato, gira il paese da anni. “Non è mio”, si affretta a dire Pino se qualcuno gli chiede del cane. E lo abbandona all’istante, correndo a infilarsi in un vicolo, come se lo aspettasse qualcosa di più importante.
Intanto, dopo Flok, era arrivato Martino, il cardellino ferito. Una steccatura da Amelia, la gabbietta di Betto, le cure di Pino, e l’uccellino tornò a volare.
E dopo Martino, nella vecchia aia dello zio Cannuccia, dentro le stie rappezzate, comparvero papere e pulcini, pappagalli e criceti, con Mira, la capretta, a fare da sentinella affinché il gatto Furia non osasse penetrare nel piccolo zoo del suo padrone.
Qualcuno c’è ancora, qualcuno è finito ad altri, ma Pino sa come rimpiazzarli. E non perde tempo: “Potrei prendere qualche animale più grande!”, ha detto a Romeo, il ferraiolo, e per giorni è rimasto sull’uscio della sua officina a battere pezzi di latta e assi di legno, per dare una porta allo stalluccio in fondo all’aia.
“Da’ qui, fai vedere all’ingegnere”, ammiccava Romeo a ogni progresso dell’opera, finché la porta si adattò dolcemente agli stipiti del decrepito stabbio. Due increspature sottili comparvero sul viso di Pino, al suo raro sorriso.
Lo zio Giacinto, sconfitto, sorrise insieme a lui.
Che cosa si può fare per un orfano sempre triste, che non gioca con gli altri bambini, ma che è destro con le tavole e i ferri, con la sega e il martello? Che sa nutrire i pulcini caduti dal nido, guadagnare un po’ di tritato da Nino, il macellaio, e il legno da Omero, il falegname, che parla coi cani, che lo seguono al primo sguardo, obbedienti?
“A casa sta bene”, ha detto Rosetta al maestro Gigli, “però con gli altri bambini non ci sta volentieri. Gli piacciono gli animali, che devo fare?”.
Il maestro chiese di vedere la stanza di Pino, e sentì un po’ di sollievo; piccola, ma piena di vita, oggetti accatastati alla rinfusa, costruzioni di ogni tipo, motorini staccati da chissà dove.
“Stagli vicino, Rosetta. Parlagli spesso, e mandalo in parrocchia, in gita, a giocare a pallone, insomma in mezzo agli altri. Noi faremo la nostra parte”.
Il maestro lo condusse con sé, dopo quella visita. Li vedemmo fare capannello con altri bambini, giocare a biliardino, comprare un astuccio coi pennarelli. Poi il maestro lo portò nel bar di Peppino.
“Prendi quello che vuoi”.
“No, grazie maestro, non voglio niente”.
“Dai Pino, per favore. Su, una merendina, un’aranciata”.
Lui si tirò su i pantaloni e allungò un dito: “Quelle”, poi piroettò su stesso, impaziente. Masticò in fretta una barretta di cioccolato, mettendo in saccoccia le altre, con aria misteriosa.
“Grazie maestro. Adesso devo andare”.
Sgattaiolò fuori dal bar, scese come una folgore i gradini della Via di Sotto, poi calò ancora più giù, sino al ricovero di Via delle Croci.
“Certi cani la mangiano, la cioccolata!”
Era già da lui, da un altro randagio.
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