FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 30
aprile/giugno 2013

Germogli

 

TULIPANI BIANCHI

di Marco Berrettini



La prima traccia è il vuoto, la seconda è coincidenza, il motore è l’equivoco.


Se Dario avesse avuto questo sintetico schema sotto mano probabilmente non si sarebbe mai avventurato oltre quella porta, ma nella vita le istruzioni finiscono sempre sepolte in qualche cassetto e, così, suonò e attese.

E Nadia aprì.

Non subito però, perché nonostante gli sforzi, le corse, i buoni propositi e l’aiuto di Ornella, la sua più cara amica, quando sentì il trillo del campanello non si era ancora infilata nulla che la facesse sentire a suo agio.

- Arrivo!

Si guardò nello specchio dell’armadio e non si piacque. Si sfilò tutto per l’ennesima volta e scelse dei vestiti a caso. Prima di imboccare il corridoio diede un’ultima occhiata alla tavola. Quella, almeno, era perfetta. In cucina era tutto pulito, asettico e in ordine, solo un’enorme ciotola di pop-corn campeggiava sul piano di lavoro in marmo grigio. A piedi nudi raggiunse la porta e la spalancò sorridendo.

Dario era semi nascosto tra le borse della spesa e ventiquattro tulipani bianchi che diffondevano nell’aria un lieve profumo di amore perfetto.

Nadia starnutì, era allergica alla perfezione, ma pensarono entrambi si trattasse solo di pollini. Lui si scusò per l’errore e abbandonò i fiori in un angolo del pianerottolo, raccolse le provviste e si diresse, sicuro, in cucina. Dispose ogni cosa secondo le ricette che aveva ben chiare in testa, piegò con metodo le buste e le chiese un grembiule.

- Mi spiace, non ne ho. Forse posso recuperare un davantino di quando ancora lavoravo in birreria, dovrebbe essere nella vecchia credenza che ho nello sgabuzzino. Ti andrebbe bene?

Dario rispose di sì anche se in realtà avrebbe voluto proteggere, soprattutto, la sua camicia bianca e il gilet di cachemire azzurro. Mentre Nadia rimestava nel passato lui si guardò attorno. La cucina era perfetta, sembrava appena uscita dalla fabbrica. Nonostante l’appartamento fosse in centro città era molto silenzioso, dava su un cortile interno verde e ben curato. Assaggiò due pop-corn e gli parvero troppo salati. Si affacciò al corridoio e, dietro un vetro smerigliato, scorse Nadia frugare nei cassetti lanciando oggetti qua e là. Gli fece tenerezza, era stata proprio quell’aria da bambina confusa che gli aveva fatto compiere il passo, l’aveva invitata a cena. Lei aveva accettato subito, ma a patto che avesse cucinato a casa sua. Non era pronta per entrare a cuor leggero nella casa di un altro uomo, preferiva rimanere nel proprio territorio. Dario l’aveva colpita subito e non negava a sé stessa che ne era molto attratta, ma dodici anni di matrimonio le avevano insegnato qualcosa.

- Non puoi continuare a stare sul chi va là, non sei più quella sedicenne ingenua. Da tre anni ormai vivi sola e a luglio, finalmente, ci sarà il divorzio. Lasciati un po’ andare, permetti a te stessa di essere felice. Anche solo per una notte, se ti va.

Ornella la faceva facile, non sapeva tutto ciò che in quegli anni aveva sopportato senza raccontare mai niente a nessuno, neppure alla sua migliore amica.

Aveva lasciato credere che quella tra lei e suo marito Serge fosse una fine come tante. Lo splendido uomo francese, atterrato in quel locale buio dalle luccicanti passerelle della moda per sollevarla nel sogno della sua adolescenza milanese, era invecchiato male, lei era diventata una donna diversa e le loro vite non avevano più nulla in comune. Niente figli, nemmeno un cane. L’ardore si era esaurito, l’amore spento, capita. Una storia come tante solo perché nessuno aveva mai assistito alle frequenti scene in cui lui, completamente fatto e in preda a crisi di gelosia, la rincorreva armato d’accetta fracassando i mobili, se no ci si sarebbe dovuti ricredere.

- Che belli, sono nuovi? Ma non li avevate appena cambiati? Beata te, Nadia, vorrei anch’io un marito così. Sembra sempre di entrare in una reggia, il mio mugugna se solo compro due cuscini.

Lei sorrideva e contava i giorni fino al massacro successivo. Le prime volte si era seriamente spaventata, aveva temuto per la propria vita, ma Serge non l’aveva mai sfiorata. La insultava, quello sì, ma un po’ che usava solo sconosciuti termini francesi, un po’ che, con la sua erre moscia, già si faceva fatica a decifrare cosa dicesse quando parlava normalmente, lei, alla fine, più di tanto non aveva mai capito. Un uragano di pochi minuti che si concludeva sempre allo stesso modo: lui inginocchiato, in lacrime, pietendo perdono.

Lei glielo concesse sempre.

Fino al giorno in cui, dopo più di undici anni così, scattò qualcosa e appena Serge impugnò l’arma lei si alzò dal divano, gli gettò in faccia il libro che stava leggendo e gli disse che non aveva nessuna voglia di cambiare un’altra volta arredo.

- Ti perdono. Sei scusato in anticipo e se non puoi fare a meno del tuo teatro esci, trovati un’amante e replica con lei. Io, da adesso, non gioco più!

Gli tolse di mano l’accetta e la gettò nel camino acceso.

Serge non disse una parola, scoppiò a piangere e si rinchiuse in bagno. Uscì solo a tarda sera e non rientrò per due giorni. La settimana successiva cominciarono a pianificare la loro separazione. Freddi, pacati, estranei.

- Eccolo, l’ho trovato!

Avanzava sorridendo e solo in quel momento Dario notò che era scalza e provò un lieve imbarazzo. La conosceva da un mese esatto, li aveva presentati Ornella una sera all’aperitivo e tra loro era scattato subito qualcosa, ma per il resto della serata non si erano detti nulla. Due giorni dopo l’aveva invitata al cinema e poi si erano visti spesso, passeggiando per le vie della città, seduti sul muretto del Castello. Si erano anche tenuti per mano, ma quasi sempre senza parole. Li univa il silenzio.

- Cosa mi prepari di buono?

Appollaiata su una sedia, con il mento che sfiorava le ginocchia fasciate da un paio di jeans strettissimi, i capelli ondulati e una camicia azzurra coi polsini enormi, sembrava un’adolescente curiosa e non una donna di oltre trent’anni.

- Troccoli alla ricciola, tartare di tonno e ratatouille al forno con aneto e fieno greco.

Nadia trasalì, avevano sempre parlato così poco che non si era mai accorta della erre moscia di Dario. Un sapore acido le invase la bocca e non servirono a nulla le due coppe di Bellavista che lui le versò accompagnate da piccole tartine con burro e acciughe. Le era passata completamente la fame. Sorseggiò un altro bicchiere come fosse medicina, ma il fastidio non scomparve.

- Senti anche tu questa puzza?

Il silenzio tra loro non era lo stesso degli altri incontri, Dario non capiva, ma aveva percepito nitidamente la variazione. Prese dal primo cassetto la mannaietta per tritare il prezzemolo e, impugnandola, si girò verso di lei per chiederle un asse su cui lavorare.

Tutto ciò che, negli anni, Nadia aveva faticosamente sepolto rispuntò in un istante.

E fu paura.

Spesso si va inconsciamente verso ciò che si conosce, perché, anche se tremendo, può spaventare meno dell’ignoto, ma Nadia aveva chiuso col passato e di ritrovarsi in quella strada odiata non ne voleva più sapere. Balzò in piedi, strinse i pugni e si tramutò in pietra. Non ebbe bisogno di parlare, c’era davvero qualcosa tra loro, Dario appoggiò il coltello, spense i fuochi e, abbassando gli occhi pronunciò l’ultima frase di quella sera: - Forse farei meglio ad andare.

Dal pianerottolo i tulipani bianchi lo videro svanire.

Nadia uscì poco dopo con un sacco nero in cui aveva gettato tutte le provviste lasciate da Dario, scese in cortile e lo buttò nel cassonetto condominiale poi chiamò Ornella e andò da lei. Per la prima volta raccontò tutto ciò che non aveva mai detto a nessuno. S’addormentarono all’alba e quando si svegliarono Nadia, per prima cosa, scrisse un messaggio a Dario.

- Io ho paura, ma non voglio. Aiutami. Ascoltami.

Sul pianerottolo i tulipani non c’erano più. Qualcuno li aveva raccolti, messi in un vaso e dato loro dell’acqua. Bianchi e puri avevano rialzato il capo.


mberrettini@tiscali.it