FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 30
aprile/giugno 2013

Germogli

 

"INCOMPLETE"

di Gloria Cirocchi



                    Empty spaces fill me up with holes
                    Distant faces with no place left to go
                    Without you within me I can’t find no rest
                    Where I’m going is anybody’s guess


Aveva sbagliato a non pulirla giorno dopo giorno. Una casa in prestito, uno scambio tra famiglie. La loro villa di campagna in cambio di quella bella unifamiliare a schiera degli anni ‘40 in collina, alta sulla baia di San Francisco. Nessuno l’aveva mai aiutata, e del resto le stanze sembravano abbastanza pulite, nella luce che entrava dalle vetrate sulla baia. Si era goduta la vacanza. Adesso, a poche ore dalla partenza per l’aeroporto, Anna si accorgeva che invece la casa era sporca, talmente sporca, dopo quindici giorni di uso, che lei non sapeva neppure da che parte cominciare. Ed era tardi.

Era coperta di sudore, la maglietta sbracciata le si appiccicava alla schiena e la pelle le prudeva. Si scansò dagli occhi una ciocca di capelli. Capelli ce n’erano dappertutto, lunghi, impigliati nella scopa con cui aveva tentato di spazzare tutta la casa, da cima a fondo, dall’ingresso fin su, al soggiorno luminoso, alla stanza in cui avevano dormito le figlie e a quella accanto, quasi vuota: un divano basso, un grande televisore. Doveva essere stata quella della figlia dei padroni di casa, ma adesso era un soggiorno per la tv. In quella stanza avevano passato quasi tutte le serate, stanchi per la giornata trascorsa a visitare i dintorni e la città. Non avrebbe dovuto essere così difficile pulirla, era praticamente spoglia... Si sentiva affannata, però. Era già stanca.

- Nessuna di voi verrebbe ad aiutarmi? Magari solo a pulire i bagni? Dobbiamo ridargliela pulita, la casa, almeno non in questo stato!

Nessuna risposta. Le due ragazze erano al pianterreno, incollate al computer.

Era stato freddo, quell’agosto a San Francisco. In alto sulla collina, facevano colazione guardando le punte del Golden Gate, rosse, che emergevano un po’ per volta dalla nebbia che copriva le case più in basso, lontane. Sotto la vetrata del soggiorno e il deck di legno, con la Jacuzzi riscaldata sotto una tettoia, digradava un giardino recintato, in cui non scendevano mai. Avevano girovagato per le spiagge e le foreste che si stendevano appena al di là del Golden Gate, meravigliandosi di quella natura maestosa che respirava potente appena varcato l’ultimo guard rail dell’autostrada. Si erano aggirati curiosi per i quartieri colorati, diversi, di quella città complessa e vastissima, portandosi a casa in scatoline di cartone politicamente corrette gli avanzi del cibo di ristorante non consumato. Tante salite da fare, pedoni in una città fatta per grandi macchine, con i cofani che spuntavano enormi per primi al termine del pendio, portandosi dietro il resto della macchina con un sobbalzo. Come al cinema.

La sera si alzava una nebbia spietata, gelida. Nella stanza semivuota della TV, avvolti tutti e quattro nei plaid, avevano guardato per ore i vecchi telefilm originali di “Ai confini della realtà”. In bianco e nero. Le ragazze non li avevano mai visti prima. La sigla, ossessiva, inquietante, le calamitava allo schermo, anche se non capivano bene l’inglese. Rimanevano insieme tranquilli, in una pace provvisoria, seduti vicini sul divano.

Incomplete. Un brano dei Back Street Boys. Iniziava con un a solo di pianoforte; poi due lunghi accordi discendenti di archi: la figlia più grande, Lucia, lo metteva spesso a tutto volume. Probabilmente non prestava orecchio alle parole. Aveva compiuto quattordici anni in quei giorni. Neanche Anna ascoltava le parole, ma avvertiva qualcosa muoversi nello stomaco, quando sentiva quella canzone.

Incomplete. Come quando erano suoi, i quattordici anni, uno strano struggimento nello stomaco, una malinconia che arrivava da fuori e premeva contro i vetri, come la nebbia di agosto lì in California.

Poche settimane prima era andata a riprendere Lucia all’aeroporto di Roma in una giornata torrida di fine luglio. L’aria tremava per il caldo. Dentro, l’aria condizionata della hall soffiava un freddo frigorifero. Confusa nel mucchio dei genitori pressati lungo la transenna, Anna l’aveva vista sbucare dai cancelli con un nuovo zainetto arancione e le braccia e le spalle nude, magre fuori da un top leggerissimo, che avevano comprato insieme prima che partisse per Londra per le tre settimane al college. Ci era andata di buon grado, figlia obbediente, anche se non conosceva nessuno.

Era lei, ma era diversa - effetto della lontananza, aveva pensato. L’aveva guardata abbracciare alte ragazze sconosciute, salutare questa e quello, con un’aria un po’ chiusa, un sorriso che non le riconosceva; a lei aveva rivolto un saluto e uno sguardo ritroso. Anna aveva percepito una sorta di freddezza, come un rancore inespresso, mentre prendeva posto vicino a lei in macchina. A Lucia sporgevano le scapole, sotto il top leggero, e dov’era la bambina che aveva accompagnato all’aeroporto solo tre settimane prima? La bambina che, del resto, l’aveva quasi cacciata via, dopo che si era unita al gruppo delle altre ragazze che stavano per partire. Lei se ne era andata docile, accettando la timidezza aggressiva della figlia.

Appena arrivati nella loro casa in campagna Lucia si era ammalata quasi subito, una tonsillite violenta che l’aveva resa smunta e silenziosa, intristita in casa, mentre la sorella più piccola scorrazzava fuori.

- Guarda, ho fatto una crostata con le uova fresche di Annamaria, e questa è una bistecca tenerissima, non come quelle di Roma...

Respingeva in un solo gesto lei e il cibo, svogliata, la bocca annoiata e lo sguardo che guardava qualcosa dentro di sé, da qualche parte. Anna sentiva come se dentro, dalla pancia, le salisse una nebbia confusa, oscurandole la visione. Cucinava più del solito, ripassando nella memoria qualche immagine del passato per rassicurarsi.

Sotto, ostinata, le martellava di continuo nella testa una specie di giaculatoria “...madre, madre, accudisci i figli...”. La scacciava, cosa c’entravano quelle parole, quella specie di versetto da dove usciva? Era stato sempre un piacere vederla mangiare con gusto, con la sua boccuccia vorace, le mani graziose che raccoglievano il cibo dal piatto fino a lasciarlo pulito. Lei che era così festosa quando le presentava il cibo, ogni cibo; alla sua piccola, a Lucia, cosa succedeva? Adesso aveva cominciato a contare le foglie di insalata che aveva davanti. Scansava i granelli di mais, si aiutava a prendere il boccone dal piatto con un pezzetto di carota, non con il pane.

Poi era venuta la partenza per l’America, tutta la famiglia riunita, la California con le sue spiagge bianche immense e le onde giganti. Tutto era grandioso: le maestose cattedrali di sequoie, l’orlo dell’oceano all’infinito, il vento che li spettinava tutti e quattro. Il piacere di tutta quella novità.

Anche la malinconia era grandiosa.

Le sigarette nella borsa della figlia, comprate all’aeroporto di nascosto. I suoi scatti di rabbia, frequenti, furiosi; dopo le camminava accanto, calma, e lei si interrogava sulla sua presenza più silenziosa del solito, sul visino pallido che non le conosceva. Il sole a fiotti in una mattina allegra di american breakfast e lei con lo sguardo concentrato che leggeva le informazioni nutrizionali sulla scatola dei fiocchi di cereali, e si riempiva di chicchi solo il fondo della tazza; una sola cucchiaiata, poi respingeva tazza e cucchiaio, si alzava, andava a chiudersi in bagno.

Un poco Anna si era rallegrata quando, al banco di macelleria di una fattoria biodinamica, organica, politicamente impeccabile, pieno di gigantesche bistecche, Lucia aveva scelto la più grossa, un vero pallone da baseball, come avrebbe fatto prima.

Prima di quando? Prima di che cosa?

Aveva accolto placidamente anche il conto astronomico, che le parve ingiusto solo quando vide tutta quella carne lasciata nel piatto, appena toccata.

Incomplete. La nebbia saliva gelida fuori dalle finestre, la sera.

Ora era lì con la scopa in mano, con la maglietta fradicia di sudore, e la casa era ancora sporchissima. Si sentivano ridere le due ragazze davanti allo schermo del computer. Suo marito non c’era, era scomparso tre ore prima dicendo che non si poteva restituire la macchina così sporca ai padroni: l’avrebbe portata al lavaggio. Il tempismo era perfetto. Forse l’aveva portata a lavare ad Oakland. Tanto per fare un ultimo giro di là dal Golden Gate.

Si asciugò un rivolo di sudore che le scendeva dalla radice dei capelli, appoggiandosi allo stipite della porta che dava sul deck, sfinita. Nell’ombra della tettoia, alla sua destra, stava la mostruosa Jacuzzi a sei posti, con l’acqua calda sotto il coperchio scuro. Aveva docilmente messo le pasticche e azionato il motore ogni due giorni, come avevano lasciato scritto i loro ospiti nelle istruzioni: ma nessuno di loro l’aveva mai usata. Ora, stanca e sudata, le venne all’improvviso voglia di immergersi nell’acqua calda, da sola. Stringendo il manico della scopa stette un attimo a riflettere, mentre il sudore si asciugava sulla pelle “lo faccio o non lo faccio?”. Poi, la fatica del dover salire di sopra a prendere un costume e farsi una doccia prima di entrare nella vasca; soprattutto la probabilità, quasi la certezza, che le due figlie, schiamazzando, avrebbero voluto seguirla in acqua, la distolse dall’intenzione.

No, era troppo faticoso, rifletté scoraggiata. Non se la sentiva. Le forze le bastavano appena per finire di pulire. E le ci voleva un attimo di riposo. Appoggiò la scopa contro lo stipite della porta. Scese un gradino, poi un altro, della scaletta che conduceva giù, nel giardino.

Neanche lì erano mai stati, durante tutta la vacanza. Di giorno, appena pronti, appena messe insieme le ragazze, uscivano per raggiungere le loro mete. La sera, esausti, non avevano nessuna voglia di scendere nel giardino invaso da un’ombra umida e gelata. Lo guardavano dalla vetrata del soggiorno, uno sfondo grazioso, un passaggio visivo prima della discesa di case, alberi e strade che conduceva l’occhio fino alla baia. Ora, scendendo i gradini di ghiaia orlati da grandi travi di legno, Anna si rese conto che il giardino era vasto, e molto vario. Solo inoltrandosi giù per il vialetto l’occhio scopriva i molti scorci nascosti tra le basse siepi di bosso, e il terreno svelava la sua ampiezza, la profondità della discesa.

- Da sopra non si capiva niente - pensò - sembrava un giardinetto così piccolo che non valeva neanche la pena di scenderci.

Invece era grande, soprattutto lungo. Aveva parecchi ripiani terrazzati, ognuno con caratteristiche sue, e su ognuno ci si poteva fermare, e guardando in su si scopriva una prospettiva tutta diversa della casa. Si vedevano anche quelle dei vicini, una lunga fila disposta lungo il pendio, fianco contro fianco le une con le altre. Dall’interno della casa non si scorgevano affatto. Ognuna era differente, e originale a modo suo. E sicuramente ognuna ha una sua vista particolare su questo giardino, pensò.

In fondo alla discesa, al limite del terreno, c’era una piccola costruzione di mattoni bianchi. Quella si vedeva bene, dall’alto della casa. Dietro, oltre la siepe di confine, c’era una quinta di grandi alberi scuri, silenziosi. La vedevano ogni giorno, quella casetta, senz’altro un capanno per gli attrezzi da giardinaggio.

Anna abbassò la maniglia. La porta era aperta. Sedie, tavolini, una piccola poltrona rossa e rosa erano ammucchiati ordinatamente contro il muro in fondo, e accanto una grande cesta di vimini traboccava di giocattoli e scatole di puzzle. Lo spazio in mezzo era libero, vuoto, e non si vedevano attrezzi da giardinaggio, di nessun tipo. Una stanza dei giochi. Una casa per giocare, con mobili in miniatura, persino un caminetto. Dei bambini avevano giocato lì, e qualcuno aveva messo ordine dopo che se ne erano andati.

Uscì silenziosamente, chiudendo bene la porta dietro di sé.

Fuori c’era già una luce settembrina e un silenzio luminoso, striato solo da qualche lontana voce isolata e dal rumore intermittente di una sega elettrica. Qualcuno già taglia legna per l’inverno, pensò.

Lanciò un ultimo sguardo da sotto alla casa, che le sembrava alta su una collina, lontanissima. Poi cominciò a risalire i ripiani del giardino, uno per volta, mettendo il piede sull’orlo di legno dei gradini, lentamente. Il cuore le batteva affannato. Tossì, ansimante. Aveva la tosse da quando erano partiti dall’Italia. Si sentiva così stanca. Sul gradino che conduceva all’ultimo ripiano si sedette pesantemente, aspettando che il ritmo del respiro tornasse regolare. Mise le mani a penzolare tra le gambe. Attraverso la luce liquida dell’aria arrivavano suoni, ma come se lei non fosse lì, come se stesse visitando un momento immobile, già passato, del tempo di qualcun altro. Era lì, seduta su una scala di ghiaia in un giardino di San Francisco che non aveva mai esplorato prima, davanti ad una casa prestata, che tra pochi minuti avrebbe lasciato. Nulla era suo, o meglio, suo sentiva solo il proprio corpo sudato, con il cuore che batteva a colpi profondi dentro la scatola buia del petto.

Qualcosa era in attesa.

Guardò lontano attraverso gli alberi, fino ai piloni rossi del ponte che spuntavano distanti, mentre si accorgeva di avere paura, come quando si sta per tuffarsi nell’acqua ghiacciata. Forse era per il brivido che le percorreva la schiena dove il sudore si andava raffreddando.

Dalla porta a molla che dava sul giardino uscirono le ragazze, lasciando sbattere forte il battente contro lo stipite. Si vennero a sedere sul gradino vicino a lei, una per lato, ma ci restarono solo un attimo. Corsero in casa a prendere una palla, e mentre Anna si alzava e tornava dentro a finire le pulizie iniziarono a rincorrersi giù nel giardino tirando la palla lontano.


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