FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 28
ottobre/dicembre 2012

Lusso

 

LE ROVINE D’ITALIA TRA ROMANZO E REALTÀ

di Marco Testi



L’utilità del romanzo è stata messa in dubbio da una marea di scrittori & critici: perfino uno dei rappresentanti più odiosamati del ramo, don Lisander, si è fermato ad uno, - e però che uno! -: studiato tra improperi e satire sottobanco, talvolta irriferibili, al romanzo che finisce (secondo alcuni, tra i quali chi vi scrive, in realtà inizia) con gli sposi finalmente tali, che è stato demolito (nel genere, non nel merito del romanzo in quanto tale) dal suo stesso autore nel saggio Sul romanzo storico. Però quel saggio era degli anni Trenta dell’Ottocento e Manzoni non poteva sapere del futuro del belpaese. Un futuro che avrebbe scatenato una delle sue proverbiali crisi tra l’ira e la depressione, se solo avesse potuto immaginarlo. Buon per lui che Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo erano ancora lungi da nascere e da divenire cronisti proprio in quel di Milano, dalle parti di Manzoni, perché il loro libro Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia (Rizzoli, 2011, 18 euro, 246 pagine) gli avrebbe fatto venire il coccolone, a lui che digiuno di politica non era per niente e che anzi aveva scritto saggi interessanti sulla situazione italiana e sulla rivoluzione francese. Avrebbe dovuto leggere che a molti nostri politici delle bellezze italiane non gliene può importare di meno, anche se esse potrebbero essere il classico salvagente in mare aperto cui aggrapparsi per tirare il fiato. Sempre meglio di niente.

Rizzo e Stella sono perfidi, sembrano quasi godere nel presentarci scene di pianto di turisti o di visitatori che si mettono a pulire loro intorno agli scavi, causa l’eclisse degli addetti. Sono talmente perfidi da presentarci alcune tabelle cui Alessandro nostro, il Manzoni, dico, non avrebbe mai creduto. E pure noi facciamo una certa fatica, bisogna pur dirlo. Secondo queste elaborazioni, il Louvre avrebbe avuto 8.388.000 visitatori nel 2006, mentre gli scavi di Pompei, nel 2009, avrebbero accolto 2.070.745 turisti. I ricavi di biglietteria del sito campano, uno dei più importanti del mondo, arrivano a malapena a 17.333.854, quelli del Louvre a 49.069.358. Se si comprendono nel conto donazioni ed elargizioni, alla voce altri ricavi, abbiamo un totale per il museo francese di 188.980.000 euro, mentre la voce analoga di Pompei non è indicata, il che significa che ci si ferma a 17.333.854. La spesa totale per il 2011 per quello che riguarda i fondi al Ministero dei Beni Culturali è stata di 1.429,20 milioni di euro, mentre nel 2001 i milioni erano stati 2.836: la fonte è la Legge Finanziaria. Il passo del gambero in un contesto in cui si potrebbero fare maratone miliardarie, ci si passi l’ossimoro.
II belpaese cantato da Goethe, tanto per fare un nome tra i tanti che ci sono stati e lo hanno immortalato con appunti, poemi, romanzi, quadri e schizzi, è quinto (dietro la Cina) nella classifica delle destinazioni preferite dai turisti (la fonte è World Tourism Organisation), mentre nel 1970 eravamo al primo posto, ma il padre Dante - ed Ernst Junger nelle Scogliere di marmo gli ha fatto lontana eco - ci insegna che è meglio non aver vissuto momenti di felicità quando poi devi rimpiangerli per tutta la vita. E quindi nascondiamo le lacrime a tiriamo avanti come se niente fosse.

Cambiamo argomento. “Passiamo ai libri”, invitano sempre più perfidamente i due giornalisti del Corriere (ovviamente quello della Sera, absit iniuria verbis), sapendo che sarà la mazzata finale, perché poi ci dicono che noi possediamo tramite biblioteca 70 volumi ogni cento abitanti. Tanti, ai giorni nostri? Sempre meglio che niente? Allora lasciate ogni speranza: i dati International Library Statistcs ci dicono che siamo all’ottavo posto (non vogliamo ricordare che saremmo - ma è sempre la stessa? - la patria di Dante, Petrarca, Boccaccio, Manzoni, Verga, per carità) dietro - tenetevi - la bistrattata Grecia (88 volumi) e la reproba Spagna (92,7). Non vi salverete pensando a terre lontane dove dimenticare tutto questo, perché i nudi e spogli dati vi diranno che il Giappone è terzo in questa nobile classifica, con 231,7 libri per cento abitanti. Se poi vi leggete quello che viene prima nel libro, i due cattivissimi, per farvi bere fino in fondo il calice, vi portano per mano negli scavi, nei musei, nei parchi di un’Italia che potrebbe affrontare la crisi solo con una buona organizzazione dei suoi tesori, di cui è stata dotata immeritatamente (se si guarda alla politica) e che invece giacciono nell’abbandono, tra crolli e allagamenti, fatiscenza e vandalismi.

Niente da fare, allora? Una speranza c’è, suggerisce una storica dell’arte, ma è talmente lontana dal nostro presente, che bisogna narrarla, nel senso che deve apparire sotto forma di fiction romanzesca, per essere credibile. E sì, siamo arrivati a questo. Perché Caterina Capalbo ha narrato sub specie fabulae quello che potrebbero essere il presente e il futuro del nostro patrimonio artistico nel suo recente L’enigma dei Frari (Prospettiva, 2012, 12 euro, 194 pagine): la rovina totale, la svendita ai nuovi ricchi dell’est, ma proprio al livello di Totò che si vende il Colosseo, e qualche minimo - e in questo caso anacronistico - segno di inversione nei ricercatori e degli uomini e donne di buona volontà che sono disposti a fare la fame pur di proteggere un patrimonio unico al mondo. Secondo il romanzo della Capalbo, l’Italia del futuro prossimo (tra una quindicina di anni) non è più una, perché è stata divisa politicamente in due, ma è comunque in mano a capitali malavitosi. Ma sono proprio i malavitosi a scoprire paradossalmente la potenza d’urto dei nostri tesori artistici. Magari per venderli all’estero, ma non sottilizziamo: almeno loro se ne sono resi conto, perché i nostri beni sono stati abbandonati da tutti, i politici in primis. Il romanzo della Capalbo mette insieme diverse cose, in grado - se ci fosse oggi - di affascinare e imbarazzare nello stesso tempo il nostro Lisander, al quale dobbiamo tornare. Lo avrebbero affascinato perché l’idea di rendere umana la storia denunciandone le contraddizioni con lo scendere nelle zone inaccessibili del cuore umano gli dava la giustificazione per scrivere cose amene (per un giansenista, - sì, certo ex, ma qualcosa di quel passato era rimasto impigliato nella severa visione della pochezza umana insita nel profondo del suo cuore -) come i romanzi; lo avrebbero assai imbarazzato perché i suoi complessi di colpa lo avrebbero riportato a condannare, come aveva fatto, un tale ibrido, fatto di pezzi di storia, di realtà, di invenzione, di ideologia latu sensu, alla quale lo scrittore non può sfuggire; e in effetti lo fece chiudendo la sua stagione romanzesca con quel solo, unico prodotto, che poi sarebbe divenuto il romanzo per eccellenza della nostra letteratura. Un figlio non riconosciuto che diventa un leader: una bella telenovela in anticipo sui tempi. Ma le cose messe insieme in L’enigma dei Frari hanno una logica per così dire reale, legata alla cronaca oltre che alla storia: la denuncia dell’abbandono, sulla stessa lunghezza d’onda di Stella e Rizzo, di un patrimonio che sarebbe la nostra ricchezza. Stella e Rizzo documentano, e la Capalbo pure, anche se siamo nella fiction. In questo, e magari senza saperlo, l’autrice si trova abile e arruolata nella squadra dei manzoniani, perché da storica dell’arte riesce a costruire un reticolo di base credibile e assai ben documentato, con la chiesa dei Frari, il sacrario di Canova, l’Assunta di Tiziano, le splendide chiese del sud abbandonate a se stesse e all’ingiuria dei tempi, le campagne di Napoleone, la figura di Canova, la tendenza dei media a ingigantire i desideri e a letteralmente proiettarli negli schermi delle strade oltre che dell’inconscio, la politica di addio all’arte, vista come un fardello invece che come ancora di salvezza, e di conseguenza la sua effettiva svendita, le nuove economie, e i protagonisti che - o uomini d’arte e di ricerca o illuminati servi di Dio - cercano la strada della rinascita nel coraggio della denuncia e dell’azione.

Su questa base si innerva la vicenda che mette insieme mafiosi, banchieri, politici al servizio delle mafie e preti che diventano senza volerlo, trascinati dalla furia dei fatti, conservatori coraggiosi di inestimabili tesori, ricordi di un Paese migliore, proponendo una nuova-vecchia storia: quella del medioevo prossimo venturo tanto evocato dagli intellettuali già dai Settanta e ora più visibile nell’abbandono delle opere d’arte, delle biblioteche, delle strade, nei programmi (per fortuna rientrati, almeno sembra) di spegnimento delle luci notturne che saranno una spesa ma sono segno della civiltà e del rispetto delle vite di chi è costretto a girare di notte e non dispone di elicotteri o aerei privati, delle scuole, degli ospedali e delle università. Raramente un romanzo raggiunge certe intensità, perché il rischio è che si vedano i punti di sutura o le zone di saldatura dei vari elementi, che qualcosa prevalga troppo e schiacci il resto. Qui i collegamenti scorrono tranquilli e naturali, rappresentano una storia di tutti i giorni e purtroppo di tanti anni, animata da naturali psicologie che si incontrano in naturali scenari di abitudinaria follia e di sciali di tesori che il mondo ci invidia. Un romanzo, sì, ma che riesce a parlare alla mente e al cuore, facendo leva sulle qualità migliori del lettore senza bisogno di espedienti misterici o di congreghe iniziatiche, come talvolta accade oggi.

Manzoni sarebbe pure preoccupato, ma a noi basterebbe che lo iniziassero ad essere anche i gestori di tali tesori. Che facessero la voce grossa, a patto di conoscerli bene quei tesori, come, per esempio, chi scrive quei romanzi e quelle denunce, e sapendone l’insostituibilità, la loro capacità di ritorno economico, perché si tratta non solo di romanticherie preraffaellite, ma di euro, dollari, yen, Rmb, sterline, rubli.
Sembriamo i protagonisti della favola, quelli che cercavano la grande sorgente e tutti presi dalle proprie illusioni divenivano sordi al tenue e sotterraneo suono dell’umile vena d’acqua che scorreva sotto i loro piedi.


testi.marco@alice.it