Di “compagni” eravamo in tanti, subito dopo la guerra, e il sindaco era uno dei nostri. Di ogni età, braccianti e coltivatori, comunisti e socialisti. Numerose le donne, che per la prima volta potevano votare ed essere votate. Nel gruppo dei giovani c’era un ventenne, basso ma educato: non lavorava nei campi, né usava le braccia per spingere la carriola o incollarsi i blocchi di tufo, lui faceva l’impiegato presso la segreteria di una scuola; di notte però veniva con noi ad attaccare manifesti e non si perdeva una riunione, un’assemblea politica.
La sera cantavamo “Bandiera rossa” nelle fraschette, e se passava il parroco alzavamo la voce, ma per scherzo: don Bassani ci aveva salvato la pelle suonando le campane quando i nazifascisti iniziavano i rastrellamenti. Il sottosuolo è una gruviera, noi correvamo a nasconderci giù nelle grotte. Ogni cantina ha la sua, costruita in tempi remoti, e le gallerie s’intersecano le une con le altre. Una ragnatela di percorsi, un labirinto sotterraneo. Entravamo in una cantina del ghetto medievale e passando di grotta in grotta uscivamo da un’altra, alla fine del paese. O ce ne stavamo lì sotto, un luogo umido ma sicuro. C’erano provviste, materassi, coperte, candele, lampade a olio, armi e munizioni. Qualche libro e vino in abbondanza.
Anche se eravamo “rossi” e non andavamo in chiesa, tranne che nelle occasioni speciali – un matrimonio, una prima comunione – don Bassani ci considerava dei bravi ragazzi, lavoratori onesti. Alla nostra offerta di un bicchiere di vino esclamava: «Perché no, non sarà mica avvelenato!». Si beveva, si giocava a morra, briscola, scopa, tressette.
A guerra finita picchiammo un fascista che nel giugno del ’44 aveva sparato alle truppe alleate venute da Sud per liberare la capitale. Ne uccise quattro a tradimento: li colpì alle spalle con una raffica di mitra, nascosto nello zaino. Un attimo prima li aveva salutati con calore, sorrisi e tanti «Hello, boys». Poi fuggì nei boschi, in borghese, da settimane s’era tolto la divisa della milizia. Da quel giorno, dopo la nostra ripassata, quel fascista smise di vantarsi dell’impresa; tra di noi, quello che picchiava più duro, era il segretario scolastico: dovemmo fermarlo che altrimenti lo avrebbe accoppato a bastonate.
I quattro soldati, più grandi di me di un paio d’anni, sono tutt’ora sepolti nel cimitero del paese, accanto alla tomba di don Bassani e a quella dei caduti sotto i bombardamenti; ci sono anche due miei zii, morti in quello del 30 gennaio 1944. Ricordo ancora i loro volti bluastri, un attimo prima di essere coperti dal cappellano militare. Stavo lì per dare una mano, sommavo gli anni dei giovani americani e non arrivavo a ottanta. Li caricarono sul camion sigillati in grossi sacchi neri.
Il ragazzo timido dalle mani pulite che veniva con noi ad attaccare manifesti e a picchiare fascisti, una ventina d’anni dopo divenne il sindaco democristiano del paese. Poi assessore alla sanità della Provincia, senatore e per un po’ di tempo anche sottosegretario. Ora abita in una grande villa con domestici e piscina. Quando la domenica scende in piazza con l’autista è sempre ben rasato, indossa abiti di lusso e, pur essendo rimasto basso, sembra ringiovanito. Noi ci siamo fatti vecchi, dei poveri pensionati, lui sembra uno di mezz’età, anche se i vari lifting danno al viso un che d’imbalsamato. Di partiti ne ha cambiati parecchi, è divenuto uno dei tanti mercenari della politica.
Ieri sera quel nostro amico di gioventù è venuto al bar per comprare dei dolci, saranno state le dieci. Stavo al bancone con Gigi e Armando a sorseggiare una grappa, forse la terza ed ero già brillo. Mi rivolgo a lui sollevando il bicchiere, come a proporre un brindisi, e urlo: “Compagno senatore!”.
Forse volevo provocarlo o magari scoprire se rammentava qualcosa del nostro comune passato.
Il politico, da qualche anno berlusconiano, ha sgranato gli occhi, s’è fatto tutto serio. Poi è venuto da noi, lentamente. Per un attimo ho pensato: ora ci vomita addosso le solite insulsaggini sulla sinistra che ha rovinato l’Italia o sugli sfigati che faticano ad arrivare a fine mese.
E invece il senatore, sfavillando i denti finti, ci ha elargito soffici manate sulle spalle, esclamando alla mikebuongiorno: «Bei tempi quelli, cari compagni, davvero bei tempi». Poi è corso alla cassa scattante come un trentenne e con la testa girata verso di noi ha gridato: «Ci vediamo presto ragazzi. Le grappe le offro io».
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