FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 28
ottobre/dicembre 2012

Lusso

 

L'UOMO DI LUSSO
Un romanzo mai scritto di Giovanni Verga

di Oscar Palamenga



Nella prefazione al suo primo grande romanzo, I malavoglia, lo scrittore Giovanni verga ci espone il suo progetto letterario. Vuole scrivere cinque romanzi che rappresentino ognuno una specifica classe sociale della sua epoca. E per tutte le classi non può esserci successo, la redenzione è impossibile, tutti sono destinati ad essere dei vinti.
Il ciclo dei vinti nasce, quindi, come una serie di ben cinque romanzi che, nell’intenzione dello scrittore siciliano, dovevano rappresentare al meglio la società del suo tempo, con tutte le sue sconfitte e contraddizioni.
Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell'Onorevole Scipioni, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto.1

Addirittura Verga ne indica chiaramente i titoli e ne accenna per sommi capi la trama. Ci indica i legami di parentela tra i personaggi protagonisti, e ci spiega chiaramente la loro classe sociale di appartenenza.

I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione – dall’umile pescatore al nuovo arricchito – alla intrusa nelle alte classi – all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge – all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.2

Il legame sta nel fatto che Don Gesualdo ha una figlia che diverrà la duchessa di Leyra. Questa a sua volta avrà un figlio illegittimo che sarà l’onorevole Scipioni, il quale non desidera altro che fare delle leggi, lui nato al di fuori dalla legge. Infine c’è un artista che vuole seguire un’altra forma di ambizione rendendo la sua vita estremamente lussuosa.

In pratica nel progetto di Verga si parte dal ceto più umile, i Malavoglia, fino ad arrivare al ceto più alto, per dimostrare che è impossibile qualsiasi forma di redenzione sociale.
Nei Malavoglia qualsiasi tentativo della famiglia Toscano di fuggire la povertà è destinato miseramente a fallire: l’affondamento della nave “Provvidenza” è il rovesciamento dell’ideale manzoniano della Provvidenza divina che alla fine risolve tutti i problemi. I Vinti sono tali perché non è possibile alcuna rivalsa sociale.
Nel secondo romanzo del ciclo, Mastro don Gesualdo, il protagonista riesce ad arricchirsi. Da mastro diventa “don”, si arricchisce a accumula tanta “roba”; ma rimane sempre solo, fino a morire abbandonato da tutti che non lo accettano nel suo nuovo ruolo sociale.

Fin qui tutto è già noto.
E gli altri tre romanzi? Verga non li scrisse mai.
Eppure Mastro don Gesualdo è del 1889, e Verga è morto ultraottantenne nel 1922!
In pratica il grande scrittore siciliano si è ritirato dall’attività letteraria intorno ai cinquant’anni senza un concreto motivo.
È vero che le sue opere cominciavano ad avere sempre meno successo, che il gusto era cambiato, che dominava una nuova narrativa intimistica e decadente, ma da qui a ritirarsi nella sua Catania a fare una tranquilla vita da agricoltore, non può bastare come spiegazione.

È probabile che in Verga si sia acutizzato, nell’ultima fase della sua vita, quel pessimismo nichilista che pervade le sue opere. Tutti i personaggi sono dei “vinti”, sconfitti da qualcosa a cui non si può sfuggire, o da una passione d’amore o da una dura e improrogabile legge della vita. Eppure i veristi erano quelli che, grazie alla filosofia positivista, pensavano di poter risolvere tutti i problemi sociali. Le grandi scoperte scientifiche, i progressi tecnologici, le conquiste sociali, avevano fatto credere agli intellettuali europei di poter giocare un grosso e impegnativo ruolo nella soluzione dei vari problemi. Addirittura in Francia c’era chi era convinto che gli intellettuali avessero lo stesso compito che i medici hanno per sconfiggere le malattie. Bisognava soprattutto denunciare i problemi sociali, le prepotenze, i mali che affliggevano una società: e tutto si sarebbe magicamente risolto.
Viene da pensare al nostro Roberto Saviano che, per aver denunciato il sistema camorristico di Scampia, è costretto da anni a vivere sotto scorta armata. Ha risolto qualcosa? Forse i camorristi sono stati fermati e la gente ha cominciato a vivere civilmente? Lui stesso recentemente ha fatto dichiarazioni che fanno pensare: è ancora convinto che le denunce vadano fatte, anche se poi probabilmente non si risolverà nulla.

Molto probabilmente nel silenzio di Verga possiamo leggerci la delusione di un intellettuale che si rende conto dell’impotenza degli uomini di cultura che poco o nulla possono fare per influire sulla società in cui vivono. Tutto resta immutabilmente piatto, ogni sforzo per migliorare è destinato al fallimento. È da questa amara consapevolezza che Verga ha prima tratto e poi abortito, in parte, il suo ciclo dei Vinti.



1Dalla Prefazione ai Malavoglia, di Giovanni Verga, versione su Liber liber, pag. 1.

2Ibidem, pag. 2.


o.palamenga@tin.it