Ogni tanto dichiaro guerra a questo mondo, ma invece di combattere, cercando di migliorarlo, lo fuggo, in cerca di pace.
Veder ribaltate le proprie priorità può essere spiazzante. Ci sono luoghi dove i piaceri che ci attendono sono così numerosi che non si sa da che parte cominciare; e luoghi dove invece finisce tutto, dove si resta soli con se stessi. Ecco, io preferisco questi ultimi, e il mio luogo dell’anima l’ho trovato: è il Monte Athos, l’Agion Oros dell’Ortodossia, l’ultima grande oasi spirituale della Cristianità. Lì mi sento non in un luogo, ma uno del luogo: come i monaci, da sempre gli unici abitatori fissi della Santa Montagna.
Nel corso dei primi pellegrinaggi sono stato accolto nei monasteri dell’Athos, fra i più antichi e belli del mondo: cittadelle medievali dove si perpetua una tradizione spirituale millenaria, dove l’incedere del tempo viene scandito non dagli orologi, ma dalle celebrazioni liturgiche. Dopo aver visitato quasi tutti i monasteri della Santa Montagna ho sentito di dover andare oltre la loro realtà tranquillizzante, e ho cercato l’Athos estremo, quello degli eremiti e degli asceti. Non è stato facile, ma mi è andata bene; se non ho corso il rischio dell’incomprensibilità e dell’estraneità è perché nei pellegrinaggi lungo gli impervi sentieri della penisola athonita mi ha sempre accompagnato Agathangelos, l’asceta di nazionalità russa che ho avuto la fortuna di conoscere in occasione della mia prima incursione nell’Eremos.
Eremos, in greco, vuol dire deserto: è la parte meridionale dell’Athos, un territorio inospitale e selvaggio, con falesie strapiombanti direttamente nell’Egeo, nei cui recessi vivono gli ultimi asceti della Cristianità. Sono i folli in Cristo, gli atleti della fede allenati alla vita di privazioni e di sofferenze sostenuta dal loro epigono, San Pietro l’Athonita, l’eremita che era felice di potersi nutrire solo “di erbe, di luce e di stelle”.
San Pietro l’Athonita è il primo asceta dell’Athos di cui abbiamo notizie storiche. Vissuto nella prima metà del IX secolo, trascorse 53 anni sulla Santa Montagna, praticando la più pura esichia, la pace dell’anima che si raggiunge nella solitudine e nel silenzio della meditazione.
Aspettavo da tempo di vivere l’esperienza di Agios Petros - la chiesetta eretta sul luogo dell’eremitaggio di San Pietro l’Athonita - e quest’anno Agathangelos ha deciso di accontentarmi.
Iniziamo l’ascesa dal porticciolo della skiti Kafsokalyvia, dunque dal livello del mare. Saliamo spediti, e dopo un po’ solo i dolci rumori della natura ci accompagnano. Il rigoglioso manto forestale dell’Athos cede a una vegetazione sempre più scarna, sino a divenire cespuglio, arbusto, e infine rada erba affiorante dalla roccia.
Ancora mezz’ora di cammino e ci troviamo nel mezzo di una pietraia arida, desolata, il famoso deserto verticale athonita. Il deserto si interiorizza, e se per gli asceti l’Eremos è un luogo di refrigerio, di intima comunione col Signore, io invece mi sento svuotato, stanco, inquieto. Agathangelos sorride ironico e mi invita a resistere «perché stiamo andando ad Agios Petros, il luogo che tanto bramavi vedere…».
Il deserto pietroso che ho attraversato per raggiungere Agios Petros
Ricompare un po’ di vegetazione, in alto si stagliano dei cipressi filiformi. Agathangelos fa dei cenni con la testa: è lassù che ha vissuto San Pietro l’Athonita, l’uomo che l’iconografia bizantina raffigura nudo e scheletrico, con la barba che gli ricopre i genitali, nel viso un’espressione di feroce dedizione alla scelta dell’assoluta solitudine.
Un viale fra erbe selvatiche, una chiesetta costruita con pietre rossastre, un balcone naturale affacciato sui dirupi rocciosi dell’Eremos, un rozzo tavolo di legno all’ombra di un verde pergolato: è Agios Petros, la mia mèta.
Entriamo nella chiesa, e resto di sasso: una sagoma scura sta lavorando di cazzuola sul muro della parete di sinistra. Agathangelos pronuncia un nome: «Isaac». Con enorme lentezza, l’uomo si volta, e strabuzza gli occhi. Agathangelos gli sorride, io cerco di fare altrettanto, ma sono troppo sorpreso; dunque, ad Agios Petros vive un asceta: perché Agathangelos non me l’aveva detto?
Quando il monaco si avvicina a noi, mi viene istintivo chinarmi per baciargli la mano. Lui capisce e ritrae le braccia, scuotendo il capo. Alzo lo sguardo sul suo volto: è un giovane alto e robusto, con lineamenti mediterranei, barba e capelli nerissimi, occhi grandi e dolci.
Mi guarda stupito: «Da dove vieni?»
«Dall’Italia».
«Ah! Bella Italia».
Sorride e mi invita ad accomodarmi, perché vuole farmi una sorpresa. Da uno scaffale della poverissima kalìvi in cui vive salta fuori qualcosa che assomiglia a una macchinetta del caffè. Penso a un caffè greco, invece Isaac dice che mi preparerà un «buon caffè italiano».
Con una calma che deve provenire dall’identificazione con l’elemento primordiale nel quale è immerso, prende del caffè da un barattolo semiarruginito e lo pigia con forza, più volte, nel filtro. Lo guardo dubbioso, ma non oso dirgli una parola.
Mette la caffettiera sul fuoco, e dopo un po’ ciò che temevo si verifica: il caffè fatica a uscire, la macchinetta borbotta roca per interminabili minuti. Alla fine, quello che mi viene versato nella tazzina è un liquido nerastro, che sa di bruciato e che si rivela quasi imbevibile. Ma Isaac è soddisfatto e contento, e io lo sorseggio riconoscente.
Andiamo a sedere sotto la pergola, attorno al tavolo di legno. Guardo Isaac, il suo volto maschio e dolce allo stesso tempo. Mi viene in mente che nel mondo potrebbe avere tutte le donne che vuole; invece ha scelto di stare qui, anonimo tassello del catalogo della vita difficile da collocare con i parametri cui sono abituato.
Il panorama che si gode da lassù
Non posso evitare una domanda: «Isaac, pensi di rimanere ad Agios Petros per sempre?»
Mi fissa intensamente: «Sì, io resterò qui».
Abbassa il volto, poi lo rialza: «E morirò qui».
I suoi occhi, improvvisamente, si inumidiscono.
Non me l’aspettavo. Mi sento spiazzato, impotente, forse un velo di pietà si disegna sul mio viso.
Agathangelos mi guarda: «Non è come pensi tu. Questo è un dono».
«Un dono?»
«Sì, il dono delle lacrime. La capacità di purificarsi, di tornare all’abc dell’esistenza. Devi sentirti parte di questa solitudine, di queste rocce, di queste piante, se vuoi vivere qui».
Annuisco. Mi viene da pensare che il Signore, che ha chiamato Isaac in questo luogo, non può non aver delineato per lui un disegno più grande e più alto.
Un’altra timida domanda: «Che cosa fai durante il giorno?»
«In questo periodo restauro la chiesa e prego. Nient’altro. Non si può toccare nulla qui, senza sciuparlo. Mi sento custode di Agios Petros, devo fare in modo che rimanga come è sempre stato».
Le parole di Isaac mi infondono tenerezza, ammirazione, gioia. Non ho mai conosciuto un luogo così carico di forza spirituale. Agios Petros è un luogo ecclesiale dove nella solitudine ci si sente abbracciati dal tutto, un luogo dove la preghiera, come acqua sorgiva, fluisce pura e spontanea dai tersi fondali dell’essere. E questo luogo ha un custode degno di lui, un uomo che più di mille anni dopo San Pietro l’Athonita, e duemila dopo i Padri del Deserto, vuole imitare i primi Santi della Cristianità, che vivevano, pregavano e morivano nell’intima unione col Signore.
Ancora un paio di domande reciproche, poi Agathangelos mi fa un cenno, e ad Agios Petros torna a regnare la nuda sapienza del silenzio. Per più di un’ora, nessuno pronuncia una sola parola. Canti di uccelli, stormire del vento, scricchiolii organici della natura: senso panico, fusione col tutto, pace dell’anima.
Al momento del commiato, Isaac infila il braccio nello scuro rasson e un komboskini, il rosario dei monaci ortodossi, compare nelle sue mani.
«Prendilo», mi dice, «ti aiuterà a pregare».
Ora sono io a commuovermi.
«Grazie, Isaac».
Abbraccio questa creatura di Dio conquistato da una bellezza interiore che effonde consolazione, gioia, serenità. Forse è questa la muta lezione di Isaac e degli ultimi asceti cristiani, uomini che privandosi di ogni bene materiale umanizzano la vita, aiutandoci ad amarla per come è, non per come vorremmo che fosse.
La chiesetta di Agios Petros, con Isaac e Agathangelos visibili sulla destra
Sulla strada del ritorno, mi rendo conto che Isaac non ha pronunciato una sola parola su Dio, sulla fede, non ha neppure accennato a un qualsiasi suggerimento morale. Ma Agathangelos mi aveva avvertito: gli asceti non amano dare consigli, e tantomeno lezioni. Separati da noi, fanno qualcosa per tutti noi: pregano il Signore perché ci aiuti e ci salvi.
Ora che sono lontano da Agios Petros, sento di non aver mai lasciato del tutto quel luogo santo. Perché vivere un’esperienza con un asceta è trovare un padre, nel senso pieno del termine: un Padre spirituale, un Padre del Deserto, il padre naturale che ho perso, il Padre Celeste che non ho potuto (o saputo) riconoscere come tale.
Il dono di Isaac è ogni sera nelle mie mani. Ha cambiato il modo di concludere le mie giornate, e lo ha cambiato in modo splendido. Mentre mi raccolgo, so di essere presente nelle preghiere di Isaac, come so che il suo cuore misericordioso è entrato nella casa della mia anima.
armando.santarelli@inwind.it
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