FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 24
ottobre/dicembre 2011

Crisi

 

DALLA COSCIENZA DELLA CRISI
ALLA CRISI DELLA COSCIENZA

di Oscar Palamenga



I popoli dell’Occidente si trovano oggi a vivere qualcosa di simile a quanto accadde nell’antichità, nel periodo del tardo Impero romano. Chi conosce la storia romana non può non essere colpito dalle profonde analogie tra la situazione in cui oggi versa l’Occidente e quella dell’Impero romano tra il IV e il V secolo dopo Cristo. Molti studiosi concordano con questa teoria.
Addirittura si tende a fare iniziare questa crisi all’inizio del ’900, ai tempi del Decadentismo, al principio di quel “secolo breve” che segnerà drammaticamente la nostra storia.
Il tramonto dell’Occidente è il titolo di un’opera di Oswald Splenger che fece epoca all’inizio del ventesimo secolo, da allora si parla sempre dell’Occidente “in crisi”, al tramonto, in perenne conflitto con se stesso e con altre culture e civiltà.
Martin Heidegger e Karl Jaspers ritornarono sull’argomento in occasione dell’esaurimento apparente della proposta del liberalismo e della democrazia, in due contesti diversi: come è risaputo Heidegger alla fine degli anni trenta aderì al nazismo, Jaspers invece dopo la seconda guerra mondiale sottolineò la crisi dell’occidente sconvolto appunto dalla guerra.

Quali sono le ragioni della crisi o tramonto dell’Occidente?
La prima fu proposta da Heidegger. Per lui la dimenticanza dell’essere ha determinato la prevalenza dell’ente, delle cose, cioè l’Occidente è al tramonto perché ha privilegiato le cose, la quantificazione, le scienze sperimentali sulle scienze umane. L’essere umano è per definizione “un progetto” sempre da concludere, frustrato appunto dalla morte, l’occaso. L’essere umano non può raggiungere mai lo scopo del suo essere perché alla fine del suo percorso trova non la realizzazione del suo essere ma la negazione stessa dell’essere che è la morte. Anche le proposte di raggiungere il paradiso realizzate nel recente passato, non ci hanno affatto portati al paradiso ma all’incubo dei lager, dell’alienazione o del mercato globale. Gli arcangeli e la spada fiammeggiante bloccano tuttora i nostri tentativi di ritornare a “occidente” della terra di Nun.
Eric Fromm disse la stessa cosa quando parlava della prevalenza dell’avere sull’essere, la nostra cultura ha privilegiato l’economia, la produzione, la quantificazione, tradendo in questo modo la natura stessa dell’essere umano che è dialogica, cerca la relazione e la realizzazione nel suo essere interiore in relazione con altri.

Il problema è, probabilmente, più semplice e più legato al trionfo della classe borghese avvenuto lungo tutto il XIX secolo.
Infatti, all’inizio del ‘900 le borghesie europee dominano il mondo: in Inghilterra, Francia e Germania la classe borghese è saldamente al potere e usufruisce spudoratamente delle ricchezze sottratte alle colonie di tutto il mondo. A poco valevano le rimostranze degli stati colonizzati. I colonizzatori portarono in Europa un notevole stato di benessere, anche se non tutta la popolazione europea ne usufruiva. Ad esempio in Italia c’erano due situazioni: il ricco Nord e il Sud arretrato e per nulla industrializzato. E a poco valsero le manovre di Giolitti. Poi arrivò la Prima Guerra mondiale, e il suicidio della classe dominante: il potere economico passò agli Stati Uniti, nacque anche il primo stato socialista della storia con la rivoluzione Russa.
È quindi una società piena di contraddizioni quella che caratterizza l’epoca del Decadentismo, e gli intellettuali di quel periodo non sono altro che interpreti del travaglio storico e delle contraddizioni sociali e morali di quel tempo.

Il critico Romano Luperini, nella sua storia della letteratura italiana del ’900 (Il Novecento, Loescher, 1981), quando deve affrontare Moravia inventa il titolo che ho apposto a questo scritto: “Dalla coscienza della crisi alla crisi della coscienza”. È un titolo di chiara matrice gramsciana, il libro è esplicitamente orientato politicamente, ma esprime molto bene le contraddizioni di quella generazione di intellettuali. Ormai l’occidente era entrato in crisi, la borghesia stava cominciando a disgregarsi, si pongono le basi del mondo odierno che, per dirla come Fromm, fa prevalere l’avere all’essere.
Gli intellettuali dell’epoca si accorsero presto che la società era in crisi: era fallito il Risorgimento, con un’Italia che continuava a portarsi dietro i mali precedenti all’unità accentuando per di più le differenze tra Nord e Sud. Era fallito il socialismo, che non ha portato all’emancipazione delle masse ma si è conformato alle istanze borghesi (e Pasolini ne sarà il drammatico testimone). Aveva fallito la religione cattolica, con il papa chiuso in Vaticano e i fedeli sempre più lontani. Gli uomini, ai tempi di Pirandello, non hanno più neppure la certezza di una loro identità!

Oggi l’uomo contemporaneo ha smarrito il senso del proprio io, ha perso ogni stabile punto di riferimento ideologico e morale, ogni coerenza nelle scelte affettive e professionali. Ecco perché il Decadentismo, forse, non è mai finito, anzi si è radicato con gli anni nella nostra società tanto da mettere in pericolo le fondamenta stesse del nostro mondo occidentale.
L’Europa va avanti a tentoni, barcolla come un pugile messo all’angolo, in una sempre più netta perdita del senso del reale e con gli occhi carichi di impotente disprezzo.
Allora: non ci resta che vivere perennemente in crisi e nell’indifferenza, come i protagonisti del capolavoro di Moravia?


o.palamenga@tin.it