Nell’editoriale del numero 18 di Fili d’aquilone (aprile-giugno 2010) avevamo annunciato l’uscita del grosso volume di poesia di Carlo Bordini (Roma, 1938) I costruttori di vulcani (2010, Sossella Editore). La breve silloge pubblicata in sintonia con quella notizia s’intitolava Aquiloni di fuoco: un viaggio (una fiammata) all’interno della poesia dell’autore romano. Qui, al contrario, il lettore trova tutti i testi pubblicati tra il 1975 ed il 2010. Il libro, che sfiora le 500 pagine, non è soltanto una riproposta, in un colpo solo, delle precedenti raccolte dell’autore: Poesie leggere (1981), Strategia (1981), Pericolo (1984), Mangiare (1995), Polvere (1999), Sasso (2008), cosa di per sé meritevole, visto che le prime pubblicazioni sono da tempo irreperibili; Bordini ne ha fatto un lavoro nuovo, orchestrando la sua opera poetica, non rispettando un ordine cronologico, cambiando alcune cose. A chiudere il volume non è, come ci si aspetterebbe, Sasso, l'ultima raccolta, ma Strategia; non c’è il libro dell’esordio, Strana categoria (1975), forse perché stampato in proprio; s’incontra la sezione Frammenti di un’antologia; alcuni testi sono stati espunti (una decina), altri riscritti ripristinando “la primitiva oscenità”; ci sono poesie del tutto inedite; alcuni componimenti s’incontrano più volte, con leggere varianti, sono quelli passati da una raccolta all’altra.
Il percorso è circolare, quindi, e termina con alcuni testi antichi, come “Spiegazione di me stesso”, spostato in chiusura per ribadire alcune cose fondamentali sulla poesia o, meglio, sulla propria scrittura: il punto di partenza vincolante, alcuni passaggi necessari, come l’oscuramento della propria infanzia e, allo stesso tempo, la voglia di rimanere in una zona femminile-infantile o innocente-ingenua. Spie, bagliori di una poesia che ustiona, mutevole e sfaccettata. Un libro montato come un film, ma quella del montaggio e dell’innesto è una tecnica adoperata dall’autore anche nelle singole raccolte, dove riutilizza scritti di altri per impastare i propri testi: articoli sulla mucca pazza per Epidemia, di giornali ottocenteschi per Appunti sulla guerra. Tecnica di montaggio usata anche, con i propri materiali, per costruire il libro Pezzi di ricambio (2003): prose abbozzate, frammenti, progetti abortiti, schegge d’inconscio trasformate in scrittura e l’autore, nell’introduzione ai racconti, chiarisce: «come in una sorta di sfasciacarrozze dello spirito, una bottega di rigattiere (qui un braccio, qui una gamba, mai un corpo completo, o se sì un corpo mummificato)».
Orchestrazione, dicevo. In effetti la musicalità qui ha un ruolo determinante: parole come note, poesie (anche nella stessa sezione) ripetute con varianti minime generano un andamento jazzistico e suggeriscono altre cose, portano altrove, anche se il punto di partenza è lo stesso. Allora questa modulazione oscillante e rapsodica si fa pensiero, riflessione sulla vita, la memoria, l’amore, la vecchiaia. S’imbocca per sbaglio o senza pensarci una strada, un sentiero e ci si ritrova dalla parte opposta della città. In una zona a noi del tutto sconosciuta. Le ombre - che restano ombre - ora alludono a ben altro; la morte - che resta morte - spaventa di meno o per niente. Sottolinea Bordini alla fine di Sasso, riportando un articolo pubblicato sull’Unità nel 2002: «Amo la poesia perché quando scrivo so sempre da dove parto, e non so mai dove arrivo. Arrivo sempre in territori sconosciuti, e dopo ne so più di prima. Non scrivo quello che so, ma lo so mentre lo scrivo, e per me la poesia è sempre fonte di continue rivelazioni. È come se durante la scrittura ci fossero in me improvvise rotture dell’inconscio».
L’attraversamento di zone sconosciute spesso coincide con lo stallo, ma anche così si esplora. Si resta chiusi nel proprio territorio, nella propria gabbia. Stando immobili si fissano le cose che ci stanno intorno, che ci fissano. Ce ne lasciamo stupire, ne afferriamo gli aspetti paradossali o sinistri. Può essere la nostra casa, famiglia, stanza, strada, giro di amici, luogo di lavoro. Il territorio da perlustrare non è mai un paesaggio esotico o lontano. A volte si ha l’impressione, lasciandosi andare al flusso poetico di Bordini, di seguire un sonnambulo che si sposta lentamente, come un bradipo, e compie gesti abituali (mangiare, sedersi davanti al monitor di un computer, scrivere...); lo fa nel modo giusto ma come assente, distratto. La preoccupazione è che possa accadergli qualcosa d’imprevedibile, di pericoloso. In quello stato, in ogni momento, il sonnambulo rischia di sbattere la testa da qualche parte, o d’inciampare in una scarpa lasciata a metà del corridoio o di essere svegliato da qualcuno in modo brusco e riportato alla normalità. La lucidità dell’agire, dell’azione vacilla in una luce povera e polverosa ma che, proprio per questo, mette in risalto detriti e frammenti che formano statue di gesso, o vulcani.
Poesia a tratti sonnambula, quindi, che sembra farsi da sola e poi compiere i propri gesti e orchestrare la propria suadente musica in stato di trans. Non sempre è così, ovviamente, parlando di un libro di libri, poi, che contiene trentacinque anni di ricerca poetica. I percorsi e le zone esplorate qui sono molteplici. Non mancano testi ironici più chiari ed espliciti, politici, sperimentali, saggistici, polemici o tragici. Però c’è sempre un filo conduttore, un denominatore comune, un impasto colloso che tiene uniti i vari processi (pezzi) creativi, gli stili, i tasselli, le scelte metriche che mutano nel tempo o tornano indietro (nel tragitto di Bordini si procede in maniera circolare o, piuttosto – come forse direbbe l’autore – “ovale”). Nell’articolo citato l’autore aggiunge: «A volte scrivo delle cose che non so assolutamente cosa significhino; lo capisco dopo, o a volte, addirittura, me lo faccio spiegare da altri (...) Io non creo, ma sono creato. Non scrivo, ma sono scritto».
Parlavo dell’attraversamento di zone sconosciute, intorno a noi e dentro il nostro inconscio. Però “Zona” è anche il titolo di una famosa poesia di Apollinaire del 1912, famosa perché bella ma anche perché importante. Una poesia montata come una pellicola, con un “tu” che dialoga con l’autore stesso e, insieme, con il lettore. Un testo rivoluzionario che si mette alle spalle il vecchio modo di fare poesia (“A la fin tu es las de ce monde ancien”), ma senza rinnegarlo, e così tutta la retorica di fine Ottocento ma anche l’eccesso d’intellettualismo alla Mallarmé: il sogno si avviluppa alla quotidianità, e viceversa. Nella poesia di Bordini i riferimenti ad Apollinaire sono espliciti, incontriamo dei versi dell’autore francese, modificati, nella poesia “Polvere” e in alcune interviste ne parla con ammirazione: «Amo la sua lucidità coniugata con uno stile sognante e visionario, anche il suo essere nello stesso tempo poeta narrativo, saggistico e sperimentale». Ecco, qui però c’è qualcosa che non quadra. La poesia sonnambula non è poi così ingenua come sembrerebbe, l’apparente semplicità del testo risulta, anche in questo caso, ben orchestrata o quantomeno ben diretta e ragionata.
| Lucian Freud, Freddie Standing | Bordini usa diversi linguaggi, registra la vita che lo circonda, anche nelle sue ripercussioni interne. Lo fa con leggerezza ma con dita-artigli che scavano e, quando occorre, incidono o squartano. Allora i corpi si ammaccano e le immagini si deformano. Vengono in mente i quadri di Francis Bacon e ancor più quelli di Lucian Freud (morto il 21 luglio 2011), con la sua ossessione del soggetto, i suoi corpi nudi: goffi, sofferenti e disarmati. L’uso di articoli e di brani di libri per comporre un’opera artistica ricorda i geniali lavori del surrealista Josph Conrell, le sue scatole artistiche composte di cose inutili trovate per strada, ai mercati dell’usato o gettate via.
Poesia autobiografica quella di Bordini ma che sa tenere a bada i toni aulici e sentimentali, che frantuma gli schemi consueti, gli balza addosso e lo fa per necessità, con convinzione più che per sperimentare nuove forme: l’autore crede in un certo tipo di poesia, quella che si sente a disagio chiusa nelle stanze letterarie fasciate di libri, impregnate di cultura, che resta con i piedi piantati nella vita quotidiana, un occhio su di sé e l’altro, magari anche un braccio, sugli altri. Strabismo vesuviano, più che di venere. Questo lo si comprende bene leggendo Tutte le poesie ma anche il libretto Non è un gioco – Appunti di viaggio sulla poesia in America Latina (Sossella, 2008).
Roberto Roversi, che introduce I costruttori di vulcani, riferendosi alla poesia di Tonino Guerra ha usato l’espressione “leggerezza sapiente”, che potrebbe calzare anche per quella di Bordini se non fosse per il fatto che la leggerezza bordiniana se ne va a spasso anche con la follia, la ferocia, lo sberleffo. Un avviso a restare desti, all’erta, consapevoli della “catastrofe silenziosa” che incombe sui nostri giorni. Ma così, infine, quella leggerezza si fa ancora più umana, terrosa e terribile. La poesia di Bordini danza e alterna movimenti eleganti, rapidi e leggeri a quelli impacciati e disarmonici, all’improvvisa piroetta, al lento ballo dell’orso, al blocco, al movimento al rallentatore. Lo fa anche la musica contemporanea quando rompe il ritmo, manda in frantumi una melodia con un improvviso sconquasso di suoni, o di silenzi.
Poesia narrativa intensamente lirica e politica, protesa a un lirismo oggettivo, che privilegia i toni grotteschi e crepuscolari, in cerca del buono più che del bello. Si pensa a Gozzano e a Corazzini per l’acuta percezione dello svanire delle cose, ma forse ancor più - per la disinvolta ma inquietante ironia - al francese Jules Laforgue. Versi nel solco della nostra linea “sincera” novecentesca, che corregge la retorica, la rimodella. Penso a Saba, Caproni, Penna, Rosselli e soprattutto all’ultimo Pasolini che contamina la poesia con linguaggi tecnici e popolari.
Strutture semplici, ma che sostituiscono la similitudine e la metafora con l’identificazione e tutto fluisce come un lento fiume di lava. Poesia come strumento di autoanalisi e dissezione sociale, che scava nell’individualità frammentaria dei personaggi, nel loro disfacimento. Poesia bisturi che entra nel male di vivere. Anche poesia come protesi per proseguire, per non smarrirsi. Da un racconto di Pezzi di ricambio: «Cosa significa avere una protesi? Io so di avere una protesi e questa è la scrittura. Senza di essa non potrei vivere, o vivrei molto male. Ora in che senso è una protesi? Che mi aiuta a vivere ma in che senso?».
La poesia di Bordini è tessuta di versi brevissimi, ma a volte così lunghi che sembrano svicolare dalla pagina. Scompone e ricompone, fugge in avanti per poi tornare alle origini. Nei Costruttori di vulcani gli stessi versi riappaiono rimaneggiati, come a voler rimettere ogni volta tutto in discussione. La voluta “spontaneità” spiazza e ustiona il lettore, lo tiene incollato al flusso musicale e magmatico della pagina scritta e fa sì che il testo stesso “legga” il lettore. Scrive Bordini (nell’articolo citato): «difficilissimo essere spontanei: la spontaneità è nascosta sotto una serie di strati di rigidità intellettuali, di pseudo conoscenze ideologiche, di velleità banali; la poesia rompe tutto questo, va al centro dei problemi. Raggiungere la spontaneità è un atto che richiede infinite mediazione, tecniche, ma soprattutto sensitive e di onestà intellettuale».
Occorre diffidare di se stessi per fare della poesia onesta, per costruire vulcani?
Carlo Bordini, I costruttori di vulcani. Tutte le poesie 1975-2010, Luca Sossella Editore, Bologna 2010, con una prefazione di Roberto Roversi e postfazione di Francesco Pontorno, pagg. 496, euro 20.
|