FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 23
luglio/settembre 2011

Vulcani

 

LA CRESTA FUMANTE
Leopardi e il Vesuvio

di Annelisa Alleva



          Qui su l’arida schiena
          Del formidabil monte
          Sterminator Vesevo,

Il Vesuvio è fin da subito animato, animalizzato da Leopardi, che gli attribuisce “un’arida schiena”. Subito dopo appare la ginestra:
          La qual null'altro allegra arbor né fiore,
          Tuoi cespi solitari intorno spargi,
          Odorata ginestra,
          Contenta dei deserti.
          (...)
Il Vesuvio ha indurito e coperto di ceneri i campi alle sue pendici:
          (...)
          Questi campi cosparsi
          Di ceneri infeconde, e ricoperti
          Dell’impietrata lava,
          Che sotto i passi al peregrin risona;
Sembra di sentire i passi del pellegrino, che risuonano sotto le suole. Il Vesuvio sembra essersi trasformato da animale in minerale, essersi irrigidito in pietra, dopo aver distrutto fulmineamente città e aver fatto strage degli abitanti.
          (...)
          e fur città famose
          Che coi torrenti suoi l’altero monte
          Dall’ignea bocca fulminando oppresse
          Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
          Una ruina involve,
          Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
          I danni altrui commiserando, al cielo
          Di dolcissimo odor mandi un profumo
          Che il deserto consola. (...)
Col vulcano, che sappiamo grigio fino al nero, fa contrasto “l’ignea bocca”. Di nuovo la metafora è animale. Come il vulcano stermina senza pietà, così la ginestra è gentile e odorosa.
Di qui Leopardi passa a parlare della natura, colei che governa il Vesuvio sterminatore:
          (...)
          E la possanza
          Qui con giusta misura
          Anco estimar potrà dell’uman seme,
          Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
          Con lieve moto in un momento annulla
          In parte, e può con moti
          Poco men lievi ancor subitamente
          Annichilare in tutto.
La natura è identificata con la figura femminile, pienamente umana questa volta, della nutrice, che è “dura”, come la lava “impietrata”. Ma “dura” non descrive qui una caratteristica fisica, quanto morale: dura di cuore. Come la nutrice tradizionalmente culla il bambino, così il vulcano ha dei movimenti oscillatori e sussultori, che precedono l’eruzione. La nutrice viene identificata con la natura e col vulcano allo stesso tempo, ed è spietata.
          (...)
          Nobil natura è quella
          Che a sollevar s’ardisce
          Gli occhi mortali incontra
          Al comun fato, e che con franca lingua,
          Nulla al ver detraendo,
          Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
          E il basso stato e frale;
          Quella che grande e forte
          Mostra se nel soffrir, né gli odi e l’ire
          Fraterne, ancor più gravi
          D’ogni altro danno, accresce
          Alle miserie sue, l’uomo incolpando
          Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
          Che veramente è rea, che de’ mortali
          Madre è di parto e di voler matrigna.
          (...)
La natura è madre, e allo stesso tempo matrigna.
Più avanti viene a descriversi direttamente l’autore, in posa tipicamente romantica, riflessiva, malinconica, nell’atto di contemplare la notte:
          Sovente in queste rive,
          Che, desolate, a bruno
          Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
          Seggo la notte; e su la mesta landa
          In purissimo azzurro
          Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
          Cui di lontan fa specchio
          Il mare, e tutto di scintille in giro
          Per lo vòto seren brillare il mondo.
          (...)
Di nuovo Leopardi parla con i contrasti cromatici: prima il “bruno” del “flutto indurato”, cioè della lava, e poi il “purissimo azzurro” del cielo. Il contrasto del bruno con l’azzurro, imitazione del lapislazzulo, era fra l’altro molto usato nella ceramica antica orientale, in particolare in quella di Kashan, in Iran, nel 14° secolo. Leopardi si allontana dalla terra: vede se stesso minuscolo, lui e tutta la razza umana, a confronto dell’universo:
          (...)
          E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
          Ch’a lor sembrano un punto,
          E sono immense, in guisa
          Che un punto a petto a lor son terra e mare
          Veracemente; a cui
          L’uomo non pur, ma questo
          Globo ove l’uomo è nulla,
          (...)
“A petto lor” sta per “a paragone con loro”, ma l’espressione evoca comunque il petto umano, e con questo un senso fiero, eroico di fronteggiare il cosmo. Qui Leopardi ribadisce satiricamente la sua visione antiantropocentrica dell’universo. Già tanti anni prima, nell’operetta “Dialogo di un folletto e di uno gnomo”, aveva scritto:
Parimenti di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Poco più avanti, a metafora del "comun fato" umano, Leopardi unisce alle stelle notturne l'immagine del sole:
          (...)
          Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
          O sono ignote, o così paion come
          Essi alla terra, un punto
          Di luce nebulosa;
          (...)
Più avanti:
          Non ha natura al seme
          Dell’uom più stima o cura
          che alla formica:
          (...)
Ancora:
          E il villanello intento
          Ai vigneti, che a stento in questi campi
          Nutre la morta zolla e incenerita,
          Ancora leva lo sguardo
          Sospettoso alla vetta
          Fatal, che nulla mai fatta più mite
          Ancor siede tremenda, ancor minaccia
          A lui strage ed ai figli ed agli averi
          Lor poverelli.
          (...)
La vetta del Vesuvio “siede tremenda”, e così sedeva il poeta (“seggo la notte”), e così la ginestra (“Dove tu siedi, o fior gentile”). Qui, con questo verbo, che ha valore di “stare”, vengono messi sullo stesso piano la vetta, un uomo, che è l’autore, e un fiore, cioè il mondo minerale, vegetale e animale.
          (...) Torna al celeste raggio
          Dopo l’antica obblivion l’estinta
          Pompei, come sepolto
          Scheletro, cui di terra
          Avarizia o pietà rende all'aperto;
          (...)
Ancora un colore: il celeste, quello del turchese, un’altra pietra molto diffusa in Oriente. Il celeste del cielo a contrasto con la cenere di Pompei, che ricorda le ossa di uno scheletro. Leopardi continua così:
          E dal deserto foro
          Diritto infra le file
          Dei mozzi colonnati il peregrino
          Lunge contempla il bipartito giogo
          E la cresta fumante,
          Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
Ancora una volta la metafora è animale: la cresta, oltre che dei monti, è anche quella, per esempio, del gallo, e questo, come quello di un’altra sua operetta morale, “Cantico del gallo silvestre”, annuncia la luce, il mattino.

Del fiore viene nominato il “capo”, negli ultimi versi di questo canto che è considerato il testamento poetico e filosofico, ma soprattutto umano di Leopardi:

          (...)
          E piegherai
          Sotto il fascio mortal non renitente
          Il tuo capo innocente:
          (...)


annelisa.alleva@gmail.com