Qui su l’arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo,
Il Vesuvio è fin da subito animato, animalizzato da Leopardi, che gli attribuisce “un’arida schiena”. Subito dopo appare la ginestra:
La qual null'altro allegra arbor né fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. (...)
Il Vesuvio ha indurito e coperto di ceneri i campi alle sue pendici:
(...) Questi campi cosparsi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell’impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona;
Sembra di sentire i passi del pellegrino, che risuonano sotto le suole. Il Vesuvio sembra essersi trasformato da animale in minerale, essersi irrigidito in pietra, dopo aver distrutto fulmineamente città e aver fatto strage degli abitanti.
(...) e fur città famose Che coi torrenti suoi l’altero monte Dall’ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo Di dolcissimo odor mandi un profumo Che il deserto consola. (...)
Col vulcano, che sappiamo grigio fino al nero, fa contrasto “l’ignea bocca”. Di nuovo la metafora è animale. Come il vulcano stermina senza pietà, così la ginestra è gentile e odorosa.
Di qui Leopardi passa a parlare della natura, colei che governa il Vesuvio sterminatore:
(...) E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell’uman seme, Cui la dura nutrice, ov’ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto.
La natura è identificata con la figura femminile, pienamente umana questa volta, della nutrice, che è “dura”, come la lava “impietrata”. Ma “dura” non descrive qui una caratteristica fisica, quanto morale: dura di cuore. Come la nutrice tradizionalmente culla il bambino, così il vulcano ha dei movimenti oscillatori e sussultori, che precedono l’eruzione. La nutrice viene identificata con la natura e col vulcano allo stesso tempo, ed è spietata.
(...) Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra se nel soffrir, né gli odi e l’ire Fraterne, ancor più gravi D’ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l’uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. (...)
La natura è madre, e allo stesso tempo matrigna.
Più avanti viene a descriversi direttamente l’autore, in posa tipicamente romantica, riflessiva, malinconica, nell’atto di contemplare la notte:
Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. (...)
Di nuovo Leopardi parla con i contrasti cromatici: prima il “bruno” del “flutto indurato”, cioè della lava, e poi il “purissimo azzurro” del cielo. Il contrasto del bruno con l’azzurro, imitazione del lapislazzulo, era fra l’altro molto usato nella ceramica antica orientale, in particolare in quella di Kashan, in Iran, nel 14° secolo. Leopardi si allontana dalla terra: vede se stesso minuscolo, lui e tutta la razza umana, a confronto dell’universo:
(...) E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch’a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L’uomo non pur, ma questo Globo ove l’uomo è nulla, (...)
“A petto lor” sta per “a paragone con loro”, ma l’espressione evoca comunque il petto umano, e con questo un senso fiero, eroico di fronteggiare il cosmo. Qui Leopardi ribadisce satiricamente la sua visione antiantropocentrica dell’universo. Già tanti anni prima, nell’operetta “Dialogo di un folletto e di uno gnomo”, aveva scritto:
Parimenti di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Poco più avanti, a metafora del "comun fato" umano, Leopardi unisce alle stelle notturne l'immagine del sole:
(...) Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; (...)
Più avanti:
Non ha natura al seme Dell’uom più stima o cura che alla formica: (...)
Ancora:
E il villanello intento Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancora leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. (...)
La vetta del Vesuvio “siede tremenda”, e così sedeva il poeta (“seggo la notte”), e così la ginestra (“Dove tu siedi, o fior gentile”). Qui, con questo verbo, che ha valore di “stare”, vengono messi sullo stesso piano la vetta, un uomo, che è l’autore, e un fiore, cioè il mondo minerale, vegetale e animale.
(...) Torna al celeste raggio Dopo l’antica obblivion l’estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all'aperto; (...)
Ancora un colore: il celeste, quello del turchese, un’altra pietra molto diffusa in Oriente. Il celeste del cielo a contrasto con la cenere di Pompei, che ricorda le ossa di uno scheletro. Leopardi continua così:
E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
Ancora una volta la metafora è animale: la cresta, oltre che dei monti, è anche quella, per esempio, del gallo, e questo, come quello di un’altra sua operetta morale, “Cantico del gallo silvestre”, annuncia la luce, il mattino.
Del fiore viene nominato il “capo”, negli ultimi versi di questo canto che è considerato il testamento poetico e filosofico, ma soprattutto umano di Leopardi:
(...) E piegherai Sotto il fascio mortal non renitente Il tuo capo innocente: (...)
annelisa.alleva@gmail.com
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