Dobbiamo davvero essere grati tutti a Graziella Bernabò e Onorina Dino che hanno curato questo prezioso cofanetto edito da Sossella Editore dove troviamo la «più ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti» (così recita il sottotitolo) di Antonia Pozzi (Milano, 1912) e numerosi contributi critici di grande bellezza. Sulla copertina bianca, a destra una foto della giovanissima poetessa sorridente, con in testa (così pare) un caschetto da ciclista. Amava la bicicletta e proprio in bicicletta, una mattina uscendo dalla scuola milanese dove insegnava, è andata verso l’Abbazia di Chiaravalle, dove si è stesa sulla neve di un prato (siamo al 3 dicembre del 1938) e, dopo aver preso dei barbiturici, si è addormentata “sola come la prima anima della terra”. È stata trovata a sera da un custode.
“Alle soglie d’autunno / in un tramonto/muto // scopri l’onda del tempo / e la sua resa / segreta // come di ramo in ramo / leggero / un cadere d’uccelli / cui le ali non reggono più”. Così anticipava la sua morte nella poesia La vita del 18 agosto 1935.
Una vita borghese, calda di comodità, ricca di cultura, di mari e montagne (amatissime), non sfiorata dalla guerra e appena toccata dalle leggi razziali: “E là davanti al caffè Cherubini, quando riuscii finalmente a capire bene quel che avevo letto e che forse non ci rivedremo mai più (e allora, come a chi sta per morire annegato, tornano di colpo a fasci e a onde, tutte insieme, le masse dure e dolcissime dei ricordi), allora mi misi a piangere…” (dalla lettera del 23 ottobre 1938 scritta a Paolo Treves, partito improvvisamente per l’Inghilterra).
Una vita, che non le ha dato la possibilità di vivere l’amore, ardentemente sognato, con il professore Antonio Maria Cervi (Antonello), conosciuto al liceo a 16 anni e mai dimenticato, ossessivamente presente nelle lettere, nei diari, nelle poesie: “Nell’aria della stanza / non te / guardo / ma già il ricordo del tuo viso / come mi nascerà / nel vuoto / ed i tuoi occhi / come si fermarono / ora – in lontani istanti – / sul mio volto» (Convegno del 29 maggio 1935). Poesia visionaria, avvolta in un mistero di spazio / tempo, rotta da una malinconia inconsolabile. Ma le motivazioni del gesto estremo della Pozzi non si possono ridurre a una delusione sentimentale, piuttosto vanno cercate nella difficoltà di coniugare spirito (poesia) e vita, Geist e Leben per un animo tanto appassionato e non incline al compromesso, e in quel terribile “male dei nervi”, come lei lo chiama nell’ultima lettera ai genitori, “che mi impedisce di vedere equilibrate le cose della vita”.
Molto ha contribuito a farci amare questa indomita,“imperdonabile” ragazza la regista Marina Spada, che ha avuto il merito nel 2009 di girare un documentario sui luoghi della Milano familiare alla poetessa con l’ausilio di filmini d’epoca, e oggi allegato in DVD al volume, reso per questo ancora più prezioso: bello ascoltare tre giovani poeti-studenti di oggi che si confrontano con la loro coetanea di 70 anni fa, seguirli nei luoghi “del ricordo”, e belli i tram di Milano che si vedono sfrecciare per le strade con scritte sui fianchi le parole di Antonia Pozzi, al posto della solita pubblicità: “Rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi…; poesia, mi confesso con te, che sei la mia voce profonda…; …perché la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nel’anima e di placarlo…”.
È un unico ininterrotto grido verso chi le diceva di scrivere il meno possibile, come Enzo Paci, o altri amici e intellettuali del gruppo che gravitava intorno al filosofo Antonio Banfi (Gianluigi Manzi, Remo Cantoni, Alberto Mondadori e poi Dino Formaggio e …), dove Antonia era apprezzata più per il suo pensiero che per la sua poesia (poesia intesa forse come disordine o perdita di tempo).
Non è facile entrare nelle pagine di Antonia Pozzi ardenti – “in un suo fuoco assorto/ciascuno degli umani/ ad un’unica vita si abbandona” - senza sentirsi fuori luogo, comunque invadenti. Sensazione che si ripete sia leggendo le poesie, i diari, le lettere, sia guardando le foto da lei scattate “per rendere più reale la vita”. Tutto è “traboccante”, sfrenato, e la sua fine ci dice che si può morire per troppa vita nel sangue o perché si crede ad immense magie.
La formazione letteraria della Pozzi, mai abbastanza soddisfatta, spazia da Thomas Mann a Rainer M. Rilke, a Gustave Flaubert. Negli ultimi anni si accosta alla poesia delle cose, quella “delle periferie milanesi, dei treni, dei crocicchi, della soglia e della frontiera, cioè del passaggio, geografico e simbolico, fra mondi diversi. Immagini su cui proiettava, in linea con alcuni giovani intellettuali in crisi, come l’amico Vittorio Sereni, il proprio senso di estraneità a un mondo esterno avvertito come inautentico e il desiderio di aderire a una realtà più semplice e provvisoria ma sentita come più vera” (Graziella Bernabò da Una donna e una poesia in anticipo sui tempi).
Vittorio Sereni ci ha lasciato questa poesia in memoria dell’amica, l’unico modo possibile per congedarsi da Antonia: “All’ultimo tumulto dei binari / hai la tua pace, dove la città / un volo di ponti e di viali / si getta alla campagna / e chi passa non sa /di te come tu non sai / degli echi delle cacce che ti sfiorano. //Pace forse è davvero la tua /e gli occhi che noi richiudemmo /per sempre ora riaperti /stupiscono /che ancora per noi /tu muoia un poco/ ogni anno /in questo giorno”.
Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, a cura di Graziella Bernabò, Onorina Dino, Sossella Editore, 2010, pagg. 656, euro 20.
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