FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 23
luglio/settembre 2011

Vulcani

 

NEL MAGMA DELLA MENTE

di Marco Ercolani



CHE NESSUNO TORNI A PARLARMI

Entra pure, se vuoi. Però, ti prego, non parlarmi. Siediti qui, vicino al letto.

Ieri qualcuno ha detto Prendiamo il caffè insieme: a quella frase semplice, sussurrata nella stanza vicina alla mia, io ho visto dondolare un corpo impiccato, con i piedi che battevano ritmicamente sul muro, mentre oltre i vetri brillava un cespuglio. Tutto il pomeriggio ho avuto nei miei occhi l’immagine di quel morto, nata esattamente da quelle parole.

No, non deliro. Sono uno studente in lingue. La mia mente è sana ma gli occhi vedono suoni. Le parole mi appaiono come segni bianchi su una lavagna nera, e tracciano immagini violente.

All’università, due settimane fa, un professore parlava delle Occasioni di Montale e io vedevo centinaia di spilli affondati nella massa di un cuscino mentre leggeva dei versi. Rammento parola per parola Maggio di Karel Màcha, che lessi alla Bibliothèque Nationale di Praga in lingua originale, senza conoscere il ceco, perché quel libro ha tutte le sue parole incollate in una parte della mia mente come una scala crollata nel fumo; mentre ripeto a voce alta i versi del poema è come se rivedessi punto per punto quella scala, sopravvissuta all’eruzione di un vulcano; vedo il cielo rosso, il fumo, la lava, i lapilli, insieme.

Mi sono accorto che, leggendo in una normale enciclopedia la parola fiorire, io non penso al cielo di primavera, al verde delle foglie, ai fiori del ciliegio. Io no. Io vivo in tutto il corpo un suono arcaico, potente. Vedo un torace ossuto, un cumulo di legna, un sotterraneo gremito di scritte oscene. Niente da spartire con nessuna primavera.

Un tempo amavo la magia della lingua: lasciarmene penetrare mi rendeva orgoglioso della mia diversità. Ma vivere sempre il suono della parola, senza un attimo di pausa, è atroce, adesso, per me. Sono costretto a vedere tutti suoni, dal cigolìo del cancello al ronzio dell'insetto al brusìo delle parole umane, sapendo che ogni suono non corrisponde mai al senso del discorso. Essere solo percezione: l’incubo in cui sono sprofondato. Alla parola ombra corrisponde un soffitto affrescato di rosso, al nome arancio un cortile illuminato, con gente mascherata che balla. Anche i numeri chiamano immagini: il quattro è un campo con animali in fuga, il cinque un porticato rinascimentale, il sette un arcobaleno, il nove la bocca di una bambina. Pronuncio barca e vedo un uomo obeso, affondato nella molle poltrona di un salotto buio, che sorseggia un bicchiere di whisky. Sussurro onde e un castagno dal fogliame sontuoso crolla sradicato nel fango della palude.

Ogni parola ha il suo arredo terribile, la sua ombra incancellata. Io la vedo sempre, e resto sordo al senso della frase. Qualcuno dice vissi e sento sibilare un rasoio. Un altro bisbiglia tortura e c’è un campo verde, illuminato dal sole dell'alba, nei miei occhi. Anche i fonemi - non soltanto le parole - hanno sapori e colori. Se leggo la parola sabbia, è un coltello strisciato sulla mano; beduino, ed ecco un serpente insidioso; ossame, un acuto sapore di ciliegie; maturo, il lungo ululato del lupo; umano, e la bocca si spalanca nel tentativo di un grido. Le parole diventano immagini che traboccano, mostri...

Quando, solo dodici giorni fa, il proprietario dell'albergo mi ha detto che la mia stanza era la numero quattro, ho visto nel timbro della voce che diceva quattro due volpi acquattate in un campo coperto di neve. Poi ha chiesto il mio nome, confusione, le volpi sono sfrecciate in tutte le direzioni, sono sparite. Ho balbettato qualcosa che l'altro ha finto pietosamente di capire.

Esco, di giorno. C’è un parco, qui vicino, a trecento metri da un penitenziario abbandonato. Due vecchie, ieri, bisbigliavano. Non capivo nulla del loro discorso ma mi apparve un letto grande dove dormiva il corpo svenuto di un giovane arabo, la testa curva sul petto. Non sai quanto sia terribile, se uno sconosciuto ti ferma e ti chiede dov'è una strada, sentirti stremato dalle figure che quella voce ti inietta dentro: un cielo lampeggiante, due donne che si lavano al fiume, un autobus affollato, un sasso scagliato in aria. Non so cosa dire: se comunicare allo sconosciuto le immagini che mi tormentano o rispondere al senso della sua domanda con un lungo silenzio: se scegliere di sembrare pazzo o idiota. Ho un unico sollievo. Per una strana grazia, resto immune al suono della mia voce. Parlo, ma il suono delle mie parole non mi lascia cicatrici. Riesco a dimenticarmi

Mi tappo le orecchie. Guardo, le mani strette alle tempie, l'albero, il penitenziario, la ferrovia. Nessuna immagine anomala si sovrappone all'immagine vista. Nessuna parola mi chiude nell'inferno delle sue evocazioni. Dovrei essere sordo, SORDO! Non so se la metafora può convincerti. È come se, restando zitto, non guardando il mondo, potessi restare chiuso dentro il cratere spento di un vulcano; ma, appena qualcosa accade, come nella tempesta di un delirio erompono lava, lapilli, fumo, e tutto si torce in un’accelerazione atroce…

Sento tutto quello che ho davanti a me. Armadi, libri, facce, muri, tavoli, lampade, cielo. Sono un occhio aperto che non si chiude. Si può concepire una stanza senza porta? Bisogna aprire e chiudere, entrare e uscire. Le mie palpebre non sanno più cosa sia quel ritmo regolare: restano ferme, secche. Soffro l’insolenza della strada, della luce continua, dei colori incollati alle cose. Tutto mi è a un centimetro dagli occhi. Le immagini mi violentano come le parole. Se mi chiedessero di descrivere dove sono ora potrei farlo, ma vedere ogni dettaglio non aiuta a essere esatti. Le cose si sfuocano, quando vengono viste. È come se un fuoco le rendesse più prossime a crollare che a restare erette. Prediligo come una droga gli schermi spenti, i vetri bui.

Le notti senza luna sono una grazia. Allora, anche a tenere gli occhi aperti, mi rilasso. Chi mi conosce di notte sa che sono diverso – un essere tranquillo rispetto all’uomo forsennato che vive di giorno.

Ricordo alcuni viaggi da solo, sprofondato nella poltrona di un treno, i vetri appannati dalla nebbia. Per fortuna nessuno mi vedeva, ero solo nello scompartimento. Ridevo piano, bisbigliavo frasi allegre, battute giocose. Poi la nebbia risaliva e allora ero costretto a tornare alla disperante visibilità di sempre, gli occhi fissi nelle ginocchia del compagno di viaggio, nel vetro libero dai vapori, contro un cielo crudelmente azzurro. Ho sempre odiato cieli così. Sono spine che irritano gli occhi. Mi tocco la faccia, ma non sento colare nulla, le guance sono asciutte, eppure è come se del sangue caldo mi scorresse giù dal viso…

Talvolta entravo in certe sale d’essai, dove proiettavano vecchi film muti. Le immagini si vedono appena, quasi totalmente sfuocate. Un volto emergeva dal nero, una mano si staccava dal buio. Almeno mi riposavo, quasi riuscivo a dormire, provando lo stesso sentimento di distacco che sento alla sera quando, stremato dalle immagini del mondo, prendo un lembo di stoffa nera e me lo appoggio direttamente sugli occhi: così le palpebre, pur continuando a vedere, non possono che fissare il nero e le ciglia affondano nell’ombra. Un momento splendido, come quando il coltello taglia di netto l’occhio, in primo piano, e chi vedeva smette di vedere…

Talvolta, in trattoria, sillabo al cameriere il nome del piatto che ho scelto: ma, quando me lo posano sul tavolo, non corrisponde a quanto ho ordinato: ripeto, più lentamente, assaporando ogni parola, il nome dello stesso piatto, e aspetto in silenzio, sapendo che non sarò mai soddisfatto, che i camerieri mi guarderanno come un folle.

Se devo credere ai medici, la mia malattia ha un nome: si chiama ipermnesia. Eccesso di memoria, impossibilità di dimenticare. Ogni suono mi si cicatrizza nella mente, diventa immagine.

Filosofia e religione mi riposano. Bisbigliare parole come verità, eternità, tempo, Dio - che generano soltanto macchie o aloni, non scene nitide e chiare - mi allevia il dolore.

Un giorno un medico rumeno mi ha rivolto la parola nella sua lingua e ho sorriso, come se avessi capito. Ci siamo stretti la mano. In realtà non avevo compreso neppure una sillaba ma le sue parole erano state consolatorie: avevo visto una nebbia celeste sopra un lago sereno. Sono quelli i momenti in cui benedico la mia malattia.

Ascolto musica tutto il giorno. La musica non evoca nulla. Assordato dai suoni, mi disintossico dalle parole. Ma quanto durerà questa quiete? Anche un vagito può ferirmi. Un giorno mi dissero albero e vidi un vortice d'acqua. Poi dissero uomo e vidi una pietra. Che strana coincidenza! Ogni albero un vortice, ogni uomo una pietra.

Io sento la verità di tutto questo come se niente, ormai, mi fosse più oscuro. In questi anni ho fatto l'illusionista, il fenomeno da baraccone, il freak della memoria. Ma continuare così era impossibile. Avrei dovuto vedere delle idee nuove, diventare un progettista, un architetto, ma il borbottìo universale delle parole mi confondeva, come quando il chiasso del traffico zittisce il senso di una voce.

Ho finto di essere malato. Poi ho confessato di essere malato. Sono stato in ospedale, mi hanno dimesso. Ora sono qui. Hotel Bellevue, Ipod nelle orecchie, musica. Niente voce umana. Il vulcano delle parole è così lontano. Scrivo. Grazie di tacere. Torna domani. Non risponderò al cellulare. Nessuno deve chiamarmi. Che nessuno torni a parlarmi.


UNA VITA ORIGINALE

Entra pure ma non disturbarmi, perché scrivo. Ho la lucidità di un'ora. Non so chi sono. Bello, se una voce mi chiama, se una mano mi sfiora. Ma penoso. Non riconoscerei nessuno. Mio padre? Potrebbe essere quel vecchio che scatarra ai piedi del muro. Mia madre? Magari è quella vecchia che fruga nel bidone dei rifiuti. Anna, quando viene a trovarmi, dice che è mia moglie. Dice che sono stato un musicista, mi stringe la mano. Ho una vita sempre originale. Ignoro cosa ho vissuto ieri, so quello che sento da un minuto. L'albero laggiù è sempre il primo albero del mondo. Ogni volta è come se mi svegliassi da un sonno lunghissimo. Gli oggetti che vedo, le persone che saluto, il diario su cui scrivo, sono sempre i primi oggetti che vedo, le prime persone che saluto, la prima pagina che scrivo. Un caffè? Lo odoro, lo bevo, mi scende nello stomaco – è caldo, denso. Ma fra un’ora sarà come se non avessi bevuto nulla. Fra poco vedrò il mio letto come un luogo estraneo. Vivo adesso. Se ieri ci fosse stato un terremoto, se la lava avesse distrutto spiagge e città, io non ricorderei nulla. Vivo adesso ma la morte è in agguato. Mi toglierà le sensazioni che ho provato, i volti che ho visto. Mi lascerà morto a respirare. Ritornerò, nel mio buio, a vedere tutto per la prima volta, come succede da trent’anni. Anna dice dei nomi, parla di una città, descrive un viaggio. Io non ascolto. Lavagna vuota su cui il gesso lascia tracce destinate a sparire. Inchiostro simpatico sulla carta del foglio. Quello sono io. Vorrei fatti che mi definissero ma sarebbero una maschera atroce. Credere a chi mi restituisce a un'identità, ma la ricorderei solo per un’ora. Aspetto da trent’anni lo stesso miracolo: essere chiamato per nome, ricordare chi sono. Ma meglio di no. Meglio questo corpo che occupa un piccolo spazio in un letto non grande. Meglio non essere svegliato da una voce estranea che, prima di addormentarmi, conoscevo. Anna mi parla della vita che dice sia mia. La ascolto come si ascolta un racconto fantastico. Alcune parole alludono a ciò che avrei posseduto - casa, lavoro, amici. Altre a guerre, rivoluzioni, concerti, film, libri, che in questi anni sarebbero esistiti. Ma, se leggessi un giornale per un’ora intera, comprendendo ogni dettaglio, dopo quell’ora sarà come se non avessi letto nulla. Meglio allora questo foglio. La mimosa gialla contro il muro scrostato, la maniglia della porta, il vetro della finestra, il battito del polso. Ma intanto scrivo. Trattengo nella scrittura la disperazione di non ricordare. Scrivo un diario tutti i giorni e dopo un’ora lo ricomincio da capo perché non so a chi appartenga la scrittura delle pagine precedenti. Arrivo in fondo al foglio, lo firmo col mio nome, e poi dimentico quel nome come tutte le altre cose che ho scritto. Sono disperato. Ma è la coscienza di questa disperazione a salvarmi sempre. Quando svanirà anche questo dolore, e non avrò più voglia di scrivere un rigo, sarò il demente che ride e conserva la sensazione di mezz’ora di luce in un ventoso mattino d'autunno, senza capire di chi è il vecchio volto femminile che piange accanto a lui. Se almeno potessi ricordare il nome di un madrigale di Orlando di Lasso, io ero un esperto di Orlando di Lasso. Ricordo, ricordo, ricordo. Ma cosa ricordo? Ho la lucidità di un’ora. Però, se una voce mi chiama, se una mano mi sfiora…


IL DOLORE DISPERSO

Facile per voi, dottori. Per voi, scrittori. Vi guardate allo specchio e vi riconoscete, certi di voi stessi. Non capite fino a che punto l’arrogante salute dell’uomo sia solo un caso, né intelligente né stupido - un’assurda roulette russa. Come chi è dentro un vulcano sa che oggi c’è una pioggia di lapilli, la tocca, e dopo sa che scorre la lava. Il magma è solido o liquido, ma sa che c’è; mente e corpo lo sentono.

Io, guardandomi allo specchio, vedo un corpo che mi appartiene solo perché lo vedo. Non lo sento in nessun modo; lo percepisco lentissimamente, quando muovo la testa o sollevo la mano. Tasto il braccio o la testa come frammenti. Gli occhi mi dicono che esisto: ma, quando non tocco parti precise di me, non so niente, non sento il peso di niente. Ad ogni passo, per muovermi, devo toccare le gambe, sentire che sono lì, vederle. Come ora, per scrivere, devo afferrarmi la mano per sentirla impugnare la penna, per sentirmi che scrivo su questo foglio. La ragione mi dice: possiedi un corpo. Me lo ripete lo specchio, me lo confermano i vostri occhi. Ma quando sono immobile, senza contatti con nulla, appoggiato all'aria come tutti, io sono disincarnato. Ogni materia sa di essere se stessa: pietra o metallo o spugna. Io no. Direte: è così anche per noi. Ma mentite: voi non siete vivi solo quando le vostre dita sono toccate da altre dita. Voi sentite di esistere anche quando scrivete di non sentire nulla. Ne avete veramente il diritto? Con lo strumento della parola evocate una condizione umana che solo io, e pochi altri sventurati, abbiamo il diritto di narrare nella sua verità fisica. Noi siamo alle soglie della vita. Voi fingete di esserci.

Provate a immaginare cosa significhi non sentire, non soffrire, non percepire; chiedetelo a questo abito floscio che mi fa sembrare un corpo completo - torace, due gambe, due braccia; ma io mi sento a pezzi, come se fossi già stato dilaniato da un'esplosione e tastassi alla cieca i brandelli che mi rimangono, non sapendo nulla di quanto è rimasto dopo la ferita. Potete immaginare fino a che punto io invidî il dolore umano – il segno della sofferenza di un organo che c'è? Io soffro, ma per segmenti isolati, che generano fitte strazianti. Le sopporto, le aspetto. Non hanno un centro: sono schegge di dolore.

La mia malattia ha un nome: lesione delle fibre propriocettive. Il nome è esatto. Mi manca ciò che è proprio dell'uomo: la coscienza di me, il senso del mio corpo, la radice della vita. Fosse una sensazione provocata dalla follia, potrei sperare di guarire. Ma, essendo una lesione cerebrale, devo rassegnarmi. Se qualcuno entrasse da quella porta e mi ficcasse un coltello nel petto, io gli prenderei la mano e gli direi all'orecchio, non sentendo nessun dolore: “Ma lei crede proprio che io abbia un corpo da pugnalare?”. Chi soffre pensa che io, non avendo sensazione di me, non provi niente. Chi soffre mi invidia, credendo che io sia simile a un angelo. È vero il contrario: il mio dolore è disperso, è ovunque, è un pulviscolo che non riesco a trattenere fra le dita. Immobile, guardo i film proiettati dallo schermo: i corpi degli attori assomigliano al mio, corrono, sorridono, amano, ma se li tocchi non hanno consistenza, non esistono. Come non esisto io. La mia vita è solo un nastro di immagini. Se qualcuno entrasse nella mia stanza ora e piangesse e le sue lacrime mi bagnassero le mani, io sentirei attraverso le dita le sue passioni, le passioni che questo corpo assente mi ha fatto dimenticare. Forse, se quella mano non si allontanasse più, potrei parlare ancora - se fosse ancora possibile - di vita.



Foto di Lino Cannizzaro


I primi due racconti sono ispirati a due casi clinici descritti da Aleksandr R. Lurija in Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla (a cura di Giuseppe Cossu, Armando, 1979) e Un piccolo libro una grande memoria (trad. ital., Editori Riuniti, 1991), pubblicati rispettivamente nel 1968 e nel 1972; il terzo a una delle vite “neurologiche” raccontate da Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (trad. di Chiara Morena, Adelphi, 1986).


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