FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 22
aprile/giugno 2011

Miti & Leggende

 

QUANDO LA MUSICA E LA POESIA
RITORNANO A PARLARE DI NOI

Una delle avventure discografiche più affascinanti degli anni Settanta,
Io ed io solo di Tito Schipa jr., viene oggi riversata in cd

di Marco Testi



I tempi che corriamo non sono mito. Il mito lo costruiscono a cose fatte le narrazioni epiche, che sono più raffinate e interessate di quanto comunemente si pensi. Dubito che questi tempi possano avere il potere di rimanere come mito, anzi, il rischio è quello che diventino un mito in negativo: ciò che non bisognava fare, che non bisognava cantare, scrivere, recitare. Almeno a livelli di visibilità mediatica.
I tempi di cui stiamo parlando in questo articolo sono passati solo da trent’anni, ma già sono parte di un mito che noi tutti, quelli che amavano la poesia e la musica di allora, era rappresentato dai cantautori-poeti della seconda generazione italiana, quella dei Lolli, dei De Gregori, del primo Venditti, di Edoardo Bennato, di Renzo Zenobi, per capirci.

La differenza con oggi? La prima è che la loro esposizione mediatica era notevole, volenti o nolenti. Andavano in televisione. Facevano concerti. Te li trovavi tra i piedi, anche i più ritrosi. La gente cantava le loro canzoni per strada, eppure erano canzoni colte di gente colta. Oggi no. Allora era possibile sentire alla radio le canzoni di un figlio d’arte. Il padre era il celebre tenore Tito Schipa, e lui, che aveva aggiunto un jr. a quel venerato nome, portò in Italia l’opera rock, scrivendo qualcosa che sarebbe rimasta negli annali – anche se i media fanno finta che non sia vero – della musica e dello spettacolo. Orfeo 9 – rappresentato al Sistina nel gennaio 1970 – poi divenuto film dimenticato dalla tv fino al 1975 (con Loredana Bertè, Santino Rocchetti in voce, Renato Zero e tanti altri, tutti allora ai verdi inizi) proponeva i miti di allora: la ricerca di un senso attraverso una vita comunitaria, l’amore come inquieta interrogazione di sé, la perdita come cifra e rischio della ricerca. Detto così non è molto. Ma se andate a rivedervelo – è stato riversato in cd ultimamente dalla Warner Fonit – capirete che alcune scene, come quella del matrimonio nella comune, con un Renato Zero venditore di fumo che spaccia come nuova e intrigante la fanciulla che Orfeo ha già, o quella del velo che cade al rallentatore dalla statua di Euridice, o il blues urbano cantato da Ronnie Jones alla fine, rimarranno nella storia del musical nostrano. Ovviamente per chi se ne intende.

La fortunata ventura del riversamento su cd, un accenno di immortalità almeno per i tempi del consumo, è toccata anche a Io ed io solo, il primo long-playng di Tito Schipa jr e, per chi se la ricorda, una delle più belle produzioni dei primi Settanta (Cetra, 1974: dal 2011 in cd per BTF). I testi sembravano l’espressione perfetta di un alchimista che avesse preso tutto il catturabile dalle menti e dai cuori dei ventenni di allora e lo avesse fatto precipitare nell’Opera al nero.
Per i tempi in cui ha girato in radio e in tv è stato un diario lirico che avremmo voluto scrivere, se solo ne fossimo stati capaci.
La rivelazione della casa perduta, quella di cui siamo stati sempre alla ricerca senza neanche saperlo, nobilitata dalla presenza degli amici, a metà strada tra il Canto di Prufrock di Eliot (il senso della passeggiata rivelatrice celato in quel magico “Let us go then, you and I”) e l’exemplum del giardino perfetto in cui conservare intatti amicizia ed amore – che poi Lawrence riprese drammaticamente, spostando l’eros in direzione del thanatos in Women in love – del dantesco “Guido, i’ vorrei”, ha trovato qui una ripresa davvero suggestiva.

Schipa è riuscito in questa canzone – tanti anni fa difese accanitamente la tesi che la canzone è una cosa e la poesia un’altra, contro il parere di chi vi scrive che lo intervistava – a creare una tensione mai risolta e mai finita, perché alla fine dell’ascolto rimangono sensazioni indefinibili. Non c’è un evento, ma solo il procrastinarsi di un momento fatidico, che potremmo rimpiangere dopo anni ed anni in mezzo alla banalità di fatti senza cuore e senza fantasia, composto di niente e perciò di tutto: amici in una macchina al tramonto, l’inizio della musica da una cassetta (l’unico elemento di datazione!), l’accendersi di una sigaretta, la casa viva che attende. E il mistero di una attesa, e l’illusione, e il ricordo della tentazione edenica di poter dare il nome ad ogni cosa e ad ogni pensiero.

In questo aveva ragione Tito Schipa: una canzone è una canzone, e non basterebbe leggere le parole, se non potessimo ascoltare quella musica che è tutt’uno con loro. Ma non c’è solo “Sono passati i giorni”. Andate a (ri)sentirvi “Non siate soli”, che è il tentativo (riuscito) di dare un nome a quella strana fascinazione della solitudine che sta per portarti via e trascinarti in due abissi di splendore e talvolta di ghiaccio: la solitudine e la tentazione a salvarsi da soli. Pianeti aurei in cui si stempera l’ansia del domani e della responsabilità verso terzi, ma che rischiano di dimenticare l’indimenticabile, come il calore – talvolta effimero – dell’abbraccio e del rispecchiamento nell’altro. Ognuno avrebbe voluto dire “a solitudine ho spostato mari e monti, acceso fuochi, osato libri grandi, e versi, e sogni, e canti, per finire a far da anello rotto in fondo ad una catena da scialuppa incatenata a riva mentre il fiume è in piena”. Qualcuno lo ha fatto per noi, perché quelle parole rimanevano in gola, inarticolate, incapaci di diventare suono e musica. Perché in fondo pensavamo di averle dentro solo noi.

Ritengo che quest’opera sia necessaria in senso etimologico nelle collezioni di chi guarda alla musica d’autore nel suo svolgersi dalle origini fino ad oggi e che per avventura o distrazione, favorita dai media di allora, non abbia vissuto da vicino in vinile quelle confessioni non solo a noi, ma di noi stessi. Capacità rara, questa, di far parlare l’io profondo, magari comune, e meno male, in tempi meno peregrini d’oggi, a più d’uno (il Venditti di L’orso bruno e Ullalla, il primo e il secondo di De Gregori, il già citato e presto dimenticato Zenobi, e pochi altri) e che oggi non ha perso granché della sua suggestione.

Sì, le date, il suono, certo, la coscienza temporale in noi, ma fatevi un conto e calcolate quante opere d’autore possono vantare altrettanta capacità di attraversare indenni i tempi. Quando parlano direttamente a noi, senza mediazioni, senza per forza richiedere commozione e pianto, senza blandire con i campanelli magici delle frasi ad effetto, richiamo d’allodole per una stagione, allora sono qui per durare. Come questo Io ed io solo, che naviga indisturbata (non è necessariamente una virtù, perché vuol dire silenzio di chi dovrebbe parlare) dai primi Settanta, e che è indifferente, o quasi, alle mode del tempo. Tra l’altro Tito Schipa ha avuto il coraggio tra i pochi, di mettere in evidenza quel “non tradire” scritto in fogli di quaderno – il memento inascoltato perché nascosto nelle pieghe della volontà nascosta e inesausta –in tempi come quelli, in cui il soddisfacimento investiva tutto, dai sentimenti alle istituzioni, in una sorta di invito al consumo che letto oggi fa un po’ rabbrividire: non l’abbiamo letto come comandamento in sé e per sé, ma come riflessione su ciò che si cerca e su quello che si ha. Quando il mito è già nelle nostre mani, e noi non ci crediamo.


testi.marco@alice.it